mercoledì 20 aprile 2011

“GIORDANO Bruno Sorgente di Fuoco” opera drammatica in tre atti con preludio di Carmen Moscariello Editore Guida

Di Ugo Piscopo

In occasione dell’eclissi del 1628, il Papa Urbano VIII, in timore e tremore per l’evento, chiamò a sé un mago, per affidargli il compito delicatissimo di proteggerlo dagli effetti maligni dell’ oscuramento del sole. “Non si sa mai”, disse al mago, “come possono andare a finire queste cose. La nostra vita è così delicata e così esposta agli accidenti della natura. E la mia vita, tu sai, è preziosa non solo per me e per Roma, ma per il mondo intero. Io, quaggiù, rappresento l’Autorità massima nella fede unica e nella verità assoluta. Vedi tu, adesso, che sai fare a vantaggio dell’universo mondo. Che va salvato, protetto”.

Non disse all’uomo delle magie di essere incalzato dalle cagne nere della paura e del rimorso. Questo, anzi, non lo confessò mai neppure a sé stesso. Non lo voleva neppure pensare. Che, cioè, in quell’oscuramento del cielo si potessero insinuare le influenze, le formule, i risentimenti di vendetta degli inquisiti di blasfemia e di arti stregonesche, condannati a morte atroce, a incarcerazioni a vita. Non pensava a Bruno, non pensava a Campanella, non pensava a Galilei, per il quale ultimo aveva una naturale inclinazione di amicale protezione. Queste loro figure, le aveva censurate e, naturalmente, continuava a censurarle, facendosi divieto di ripassarsele a memoria. Di tanto in tanto, però, concludendo, quasi a sua insaputa, il discorso con codesti signori, sentiva come un pugno di vuoto nello stomaco. E per confortarsi, diceva: “Sono loro che se li vanno cercando con la lanterna certi guai. Contro la loro barbara, selvatica ostinazione, bisogna usare la mano della giustizia con fermezza. Il pugno di ferro. Purtroppo, così deve essere. E meno male che è così. A tutela della Santa Nostra Religione e dell’autorità della Curia”.

Il mago, dopo essere stato compensato munificentissimamente, si ritirò in una stanza adeguatamente attrezzata, fece chiudere porte e finestre e passò all’azione. Accese due punti luce, che rappresentavano il sole e la luna, e attorno a loro si mise a fare girare cinque palline, che erano i cinque pianeti allora conosciuti. Intrise l’atmosfera di gesti e formule misteriose e tenne al riparo Papa Urbano VIII dagl’indesiderati effetti collaterali dell’eclissi. Il pontefice, però, anche dopo essere sfuggito a quei rischi, nell’intimità della coscienza dovette continuare a fare i conti con i disagi e le autogiustificazioni di fronte agli esiti dei processi del Sacro Tribunale dell’Inquisizione nei confronti di questi eretici impostori, bestemmiatori, alchimisti, esperti di stregoneria.

A questo punto, verrebbe da farsi una domanda un po’ ingenua, ma non inappropriata: come mai Papa Urbano VIII poteva temere dei poteri di quei tali signori, ad esempio, di un Giordano Bruno, se essi non erano riusciti, non riuscivano a proteggere la propria vita con le loro arti? Se un Giordano Bruno, non solo non aveva salvato la sua pelliccetta, - piccolino fisicamente, disponeva di un mantello di pelle abbastanza risicato -, ma, all’atto della morte, non aveva provocato alcun turbamento della natura? Neppure una piccola eclissi? Neppure una stretta di pioggia, che accennasse a spegnere le fiamme entro cui era stato messo ad arrostire?

Allora, perché mai la Chiesa di Roma, una, santa, cattolica e apostolica aveva allertato il Santo Uffizio per processarlo, perché gli aveva messo spie alle calcagna per tutta l’Europa, aveva attivato la sua diplomazia e sostenuto allo spasimo la richiesta dell’estradizione da Venezia? Di quali mostruosità si era macchiato costui?

Purtroppo, in un’Europa incendiata da guerre di religione e divisa da passioni di parte, in nome della ricerca della verità, codesto Giordano Bruno, originario del paese di Nola, nel retroterra di Napoli, aveva aggiunto altra legna sul fuoco e aveva sfidato l’autorità della Chiesa riguardo ai dogmi della Trinità, della sacralità di Cristo, della fede nei santi, del valore dei dogmi. Su questo terreno era andato molto al di là di Lutero, di Zwingli, di Calvino, che non avevano osato tanto. Era andato molto al di là degli stessi eretici medievali, che al più si erano consentito qualche dubbio riguardo a una vocale in più o in meno della Scrittura o sull’interpretazione di una parola. Allora non esistevano ancora né le armi biologiche né gli ordigni atomici. Ma quell’assatanato fraticello domenicano, tra l’altro di umili origini, quel mastro e teorico di ideologie terroristiche aveva preparato l’equivalente di un attentato alla religione in Europa  come con un’arma di quelle sunnominate. Anzi, per essere esatti, con un’arma ancora più devastante, cioè col pensiero e con la parola. A tal proposito, non possiamo non sottolineare che il pensiero e la parola sono armi potenti, molto potenti.

Bisognava, pertanto, sbarazzarsene a tutti i costi o ingessarlo e tenerlo sotto rigoroso controllo, come in un carcere di massima sicurezza, dopo una solenne abiura ufficiale con cui sconfessava tutto quello che aveva pensato, dichiarato, rappresentato in pensieri, parole e omissioni.

Ma quell’omino del Sud, così fragile come personcina, tuttavia così intrepido, non volle intendere ragioni, suggerimenti, minacce. Dissotterrata l’ascia dal manico tinto di rosso, si slanciò sui sentieri di guerra (o di guerriglia?), orgoglioso di sé e della causa che aveva abbracciato per sempre, aggirandosi per l’Europa (Italia, Francia, Regno Unito, Germania), determinato a fare i maggiori guasti possibili nei reticolati del potere della Chiesa. E si divertì follemente a mettere a nudo dovunque le assurdità e le inconsistenze della dottrina della Curia di Roma, finché, caduto nella ragnatela di un vile veneziano, fu consegnato nelle grinfie del Santo Uffizio, che lo processò quasi in diretta e subito lo affidò alle forze di polizia per il trattamento dovuto a casi del genere, con la purificazione del fuoco. Il che fu eseguito come un’offerta sacrificale il 17 febbraio 1600, ad anno giubilare appena iniziato, in Campo dei Fiori, a pochi passi dal Tevere, alle spalle del Teatro di Pompeo di una volta, tra il Colle Capitolino da una parte e il Campo Marzio dall’altro, là dove, ai tempi dell’antica Roma, sfilavano o si producevano in esemplari esercitazioni le truppe dei quiriti.

A questa vittima innocente dell’autoritarismo e dell’arroganza della sua età, che avevano nella Curia di Roma la loro roccaforte e la loro tutela istituzionale, Carmen Moscariello dedica una pièce teatrale vibrante di sdegno, intrisa di spiriti di poesia, ricca di accensioni visionarie, a mimesi dello stile letterario e dell’esultanza vitale e ideale del protagonista della vicenda.

L’autrice, pur non avara di parole, tiene sotto stretto controllo l’azione scenica, che si scandisce classicamente in tre atti e un prologo. Il quale si apre a preludio di sintesi generale del terribile dramma, tra i più memorabili della storia di tutti i tempi, proponendo all’attenzione dei destinatari i nodi essenziali delle questioni confluite nella tragedia bruniana e insieme proiettandoli su scenari in cui la storia del passato incontra sé stessa guardandosi allo specchio dei tempi nostri (e forse di tutti gli altri tempi). Col protagonista del lavoro dialoga la Donna-poeta, in cui non è difficile scoprire l’autrice, con le sue convinzioni, con le sue esperienze non pacificate, con la sua identità irpina che la fa testimone di situazioni e di scelte ideali e materiali dure, consonanti con quelle calatesi nel concreto della vita e dell’immaginario di Giordano Bruno.
Nei tre atti che seguono, trovano spazio nodi di pensiero e modi di partecipazione di Giordano Bruno alle vicende e ai dibattiti del suo tempo, incanalandosi nell’alveo di un’azione organica e centralissima, in cui l’autoritarismo culturale (teologico, filosofico, scientifico), che è sotto le ali protettrici e robuste della Curia romana, riesce a trionfare per l’oggettivo sostegno di fiancheggiamento dato dal conformismo, dal tartufismo, dal reazionarismo ciechi che hanno radici larghe e profonde nel contesto storico. Nella volgarità, nell’opportunismo e nell’imbecillità delle donne-maiale e degli uomini-asino (I atto). Nelle invidie, nelle gelosie e nel conservatorismo degli intellettuali (II atto). Nel servilismo e nella passiva sudditanza del mondo italico alla Chiesa di Roma (III atto). Persuasivo è il processo di maturazione al dolore del protagonista, che regge a lungo rocciosamente frontalmente al cozzo con la durissima realtà che gli si oppone, ma in ultimo non può non piegarsi un po’ alla tristezza e rivelare che all’interno della sua scorza di eroe in certo senso alfieriano vive e palpita una sostanza di uomo come tutti.

Prefazione all’opera drammatica “Giordano Bruno Sorgente di Fuoco” di Carmen Moscariello

L’apostolo della modernità

Di

Aniello Montano


La trasposizione scenica di una storia, in cui biografia e pensiero del personaggio sono talmente intrecciati da non poter essere separati, non ha nessun obbligo di attenersi strettamente ai fatti documentati o di ricostruire in modo filologicamente puntuale i contenuti delle opere filosofiche. Ha l’obbligo, invece, di rappresentare un’atmosfera, un ambiente culturale, lo stridore delle posizioni che si scontrano e si combattono in un’epoca particolarmente travagliata e difficile, quale certamente è la seconda parte del Cinquecento. E a quest’obbligo, credo, che Carmen Moscariello abbia risposto in maniera viva e partecipata. Oggetto del dramma, come dichiara apertamente il titolo, è la figura e il pensiero di Giordano Bruno, filosofo ardente per temperamento e convinzione profonda, per dedizione sincera alla verità elaborata con metodo filosofico e amore per la libertas philosophandi, conquista preziosa della modernità.

La commedia, fin dall’inizio, vuole dar conto dello scontro frontale tra modi diversi di concepire la verità e di intendere il ruolo e il significato della filosofia. Da una parte c’è la tradizione sordamente fideistica, dall’altra il pensiero nuovo, l’ansia di indagare in modo razionale la realtà naturale e umana, il desiderio di rompere gli steccati, superare i divieti, avventurarsi per sentieri nuovi, proporre altri traguardi, altre mete, da scoprire e da raggiungere con la forza del pensiero libero, sorretto da un “eroico furore”. La tradizione è rappresentata dalla folla di uomini e donne, trasformati rispettivamente in asini e maiali dalla Maga Circe, e poi dai dottori di Oxford, da Bellarmino, dai giudici inquisitori, dai frati salmodianti e dalla folla che si scaglia contro il martire condotto al rogo. L’innovazione è rappresentata da Bruno, in primis, poi da Campanella, dai tanti filosofi e studiosi della natura, impegnati a porsi in maniera critica e autonoma rispetto al passato e a rifiutare l’obbedienza cieca all’autorità, restia a ogni osservazione critica.

Nei tre atti della commedia, il contrasto tra questi due modi di pensare e di vivere è rappresentato con vivacità di situazioni e di linguaggio, in modo da farlo risaltare al massimo, per mostrare la superiorità degli uomini “nuovi” sui custodi del passato. Uno degli accorgimenti messi in essere dall’Autrice è la struttura dialogica, costruita in modo tale da rendere immediatamente palese l’asimmetria tra le due posizioni in campo. Mentre Bruno, nella bagarre che si scatena in tutte le scene del dramma, tenta di elaborare e presentare la sua posizione e le sue ragioni, cerca di giustificare l’ardimento della sua nuova filosofia, elaborata recuperando spunti e intuizioni dei filosofi-scienziati della Grecia più antica, in uno con i più recenti risultati del pensiero scientifico e filosofico di Copernico e di Cusano, i suoi detrattori lanciano soltanto invettive e insulti, come chi, a corto di argomentazioni valide e fondate, si lascia andare all’aggressione, quasi fisica, dell’avversario.

Bruno, l’intelligenza guizzante tesa a scrutare l’infinito Universo in cui roteano infiniti mondi, desideroso di accreditare un modo tutto nuovo di intendere e sentire Dio, la Natura, l’anima e la vita e impegnato ad argomentare le sue ragioni con una dialettica raffinata e scaltrita e con una tensione morale sentita e sofferta, si misura, da solo, con l’organizzazione articolata e sedimentata del sapere tradizionale delle Chiese, cattolica e protestante, delle Università europee, dei conventi e del sentire comune. È una lotta impari, che il Nolano affronta con coraggio e sprezzo del pericolo, con la serenità fiduciosa di chi sa di aver intravista la via della verità e di avere il dovere civile e morale di percorrerla fino in fondo, senza deflettere e senza pentirsi. Carmen Moscariello avverte la grandezza di questo genio del pensiero, lo presenta come eroe, qual è, del “libero pensiero” e lo fa lottare con tutta la forza del suo spirito indomito, con la gente comune, con i dottori oxoniensi, con i teologi del tribunale dell’Inquisizione. Lo presenta come un gigante in lotta, irremovibile e impavido, che non arretra di fronte alle minacce, neppure nell’ora della morte. Forzando poeticamente le testimonianze relative alla morte sul rogo, lo immagina e lo rappresenta nell’atto di gettarsi egli stesso nelle fiamme che si levano dalla catasta di legna nella piazza di Campo dei Fiori. È una scena, quest’ultima che ben sintetizza e sigilla tutta la rappresentazione drammatica.

Nelle scene dei tre atti elaborati dalla Moscariello, è icasticamente raffigurato il contrasto epocale tra due sistemi di pensiero e potremmo dire tranquillamente tra due epoche, una strenuamente decisa a difendere l’età medievale, l’altra impetuosamente spinta a demolirla per far nascere la modernità; l’una tenace nella difesa di una filosofia unica, sostanzialmente legata alla teologia e alla fede religiosa nel Dio assolutamente trascendente, l’altra impegnata a far sorgere dalla critica all’aristotelismo e al fideismo cristiano ad esso legato una pluralità di filosofie e di sistemi di pensiero, tutti liberi e in perenne dialettica tra loro.

In questo duro scontro di posizioni, la Moscariello riesce a fare intravedere la novità del pensiero del Nolano, che lega l’idea di Dio alla Natura, considerata imago Dei, simulacrum Dei, templum Dei, di un Dio non distante né discosto dalla Natura e dall’uomo, ma vicino e dentro la Natura e l’uomo. E riesce anche a fare balenare la nuova idea di morale, non più intesa come rispetto di regole astratte, come pura contemplazione di norme credute assolute, ma come impegno, come fatica, come tentativo continuo di affermazione di nuove condizioni di vita, di realizzazione della “civile conversazione” e di spinta a rafforzare il “convitto di popoli”.
Nella sua libertà ideativa e argomentativa, la Moscariello dà conto della frattura che in quell’epoca drammatica si veniva aprendo tra vecchio e nuovo, tra Medioevo e Modernità. E fornisce chiara l’idea della grande attualità, ancora oggi, di quella tensione alla libertà di pensiero, che nessun credo e nessuna istituzione potranno mai trattenere a lungo o bloccare del tutto.

martedì 19 aprile 2011

"Giordano Bruno Sorgente di Fuoco", opera drammatica in tre atti di Carmen Moscariello, Guida Editore

Di

Ninnj Di Stefano



E’ stato pubblicato in questi giorni l’ultimo lavoro di Carmen  Moscariello con l’Editore Guida di Napoli,  ha la preziosa copertina disegnata dal Maestro Salvatore Bartolomeo

Questo della Moscariello è' un lavoro di indagine psicologico/analitica molto accurato e senza precedenti. Un poema introspettivo tutto da approfondire, uno scavo forte che porta in superficie, dai meandri bui dell'uomo, la forza di risalire dalle correnti del male e giungere ad una riappacificazione con se stesso e con il senso morale ed etico della coscienza e della conoscenza. Tra le righe vi è la rivisitazione di una compatta e autoreferente condanna ai mali del mondo: una sorta di esplorazione a 360° nella psiche del genere umano portato alla solitudine e alla disperazione da una sorte infausta che lo rilega ai margini del suo solipsismo, della sofferenza e del dolore, ma contemporaneamente lo mette in allarme su quell'inferno programmatico che si va costruendo da solo con le sue azioni indegne e le sue "bestialità" i suoi istinti primordiali, le corruzioni, le nefandezze di ogni genere. Gli fa intuire il senso retrospettivo della storia condannandolo ad essere, suo malgrado, uno spettatore piuttosto che un protagonista. La scena in cui si svolge tutto il dramma, consente di avvertire molti riferimenti ai grandi Autori del passato che vengono menzionati e studiati come personalità degne della massima considerazione. Supponiamo che la scrittrice abbia voluto mettere in evidenza l'impermeabilità delle azioni umane votate al declino, alla conflittualità, al male belligerante che riassumono i tratti peculiari dell'esistente funestato dal suo destino di essere incompiuto, solitario, misero escludendolo dalla salvezza.

Vi è in questo lavoro intenso di ricostruzione e di elaborazione tutto il progetto di voler introdurre ad una revisione programmatica del mondo, stritolato da forze centrifughe che lo collocano molto in basso del pianeta-uomo. Nonostante tutto, e malgrado il linguaggio crudo e cruento, dettati apposta, dall'autrice proprio per mettere l'uomo a fronte del suo dramma, Carmen Moscarello tende a valorizzare il referente umano progettandolo ad una rielaborazione etica, ad un preciso e dettagliato esame di coscienza che lo induca alla "catarsi" rimuovendo le ragioni stesse del comportamento e del fraintendimento. Versi forti, dominati da una energia intellettuale che non è mai retorica, ma vuole trasferire alla storia di oggi la sua parte di responsabilità nei riguardi della sua condotta meschina e miserevole. Taluni riferimenti mostrano avvenimenti del passato il cui bagaglio di cultura e di opposizione alla corruzione furono esempi per l'umanità.  Un "male" quello di vivere che presuppone le condizioni di pre-morte ancora in vita, un peccato senza remissione, un trascinamento della propria condanna di dolore attraverso i secoli: neppure  il rogo per l'eretico che tuonava il suo je accuse dal proscenio ha potuto evitare il protrarsi del peccato e dell'incesto,. Reiterato attraverso i secoli e trasferiti da una generazione all'altra i mali persistono: si va dalla pedofilia, alla corruzione del clero, a guerre, fame e genocidi, scorrerie morali di ogni genere, che portano tutti ad un solo unico, imponderabile destino: la catastrofe e la fine ingloriosa dell'uomo sulla terra, passando attraverso le inagibili e intollerabili progettazioni di congelamento spirituale, i quali si sono riadattati in ogni epoca rilegando l'uomo al suo miserevole stato. Né hanno potuto sconfiggere il  -male- le sempre più strategiche e incessanti scoperte, gli avanzamenti del progresso tecnologico, o i rimedi apparenti della medicina, dell'astronomia, dell'astrofisica,. Ogni male sempre torna, a devastare la logica umana, forse perciò, più agguerrita che mai nei cuori degli uomini a infliggere altre pene e altri peccati da scontare con il patimento e il travaglio della progenie che sembra non avere scampo che quello di reiterare i suoi malefici, le sue contraddizioni, i suoi inganni.

La Storia ce lo insegna: niente è cambiato, ma nel caso in questione "repetita non iuvant" la nemesi storica riproduce il profilo dell'uomo in condizioni di frustrazioni ineludibili e di sconfitte etiche sempre più strabilianti.

Un libro a fortissime tinte, un dramma moderno  che delinea i tratti salienti dell'umanità in condizioni davvero precarie. Carmen Moscariello li fa parlare, presta loro il proscenio, induce personaggi del passato: Giordano Bruno, la Maga Circe...a tuonare contro i riottosi e irrecuperabili segnali di martirizzazione esistenziale, di condanna al dilagare  del malessere, dell'imperfezione del peccato. Ma l'uomo di ogni epoca resta sordo al  richiamo di recupero, persistente la sua ottusità, inconcludente la sua smania di essere faber del suo viaggio terreno, detrattore della propria immagine e della propria sconfessione. L'autrice prende in prestito dalla Storia alcuni episodi d'intemperanza alla logica, per vivisezionare il corpo infetto del peccato.

E' un'opera che lascia il lettore esterrefatto, lo induce a riflettere sui suoi errori, lo incalza, lo inquieta, ma gli indica la stradina secondaria che porta alla catarsi e forse al ravvedimento.

Il tutto è condito e reso fruibile da uno strano ingrediente, - il responso storico -, che appare come il bilancio retrospettivo sull'indagine umana di tutti i tempi. Intensamente elegante appare il connubio tra Poesia e Teologia, tra il reale e il surreale, tra l'emozione e la suggestione, il bene e il male. Carmen Moscariello è una scrittrice che sa picchiare forte sulle parole, indicare un supporto per arginare il maleficio di essere i peggiori nemici di se stessi, coi tempi che corrono, mi appare un modo estremamente indicativo di far intendere la sorte infausta che toccherà al mondo, se continuerà a cavalcare il male senza pensare minimamente di arginarlo.


Ninnj di Stefano , vive a Milano è poetessa , giornalista,docente di Esteticae di Storia della letteratura.