PREFAZIONE DI ALDO CAROTENUTO
Dare
forma.
A delle istanze interiori, a delle esperienze, alla riflessione su di esse. Dare
forma alle emozioni, cioè configurarla intorno a una sensibilità e una
disposizione interiore particolare, oppure collegarla ad un sentire più diffuso
e generale è, probabilmente, una delle funzioni principali dello scrivere.
Sicuramente è il motore primo dell' opera della Moscariello.
Per forma intendiamo quell'insieme di codice e comunicabilità, di intenzione e
di simbologia manifesta, di narrazione e di diffusione di significati che si
muove dalla interiorità soggettiva all'espressione compiuta e manifesta
dell'opera.
In questo tragitto che procede dall'interno all'esterno, che si muove da un
quadro intimo e spesso non condivisibile direttamente, a volte persino inconscio
e oscuro per il soggetto stesso, fino all'emersione di un prodotto finito e
fruibile dall' "altro", si compie un processo. Che è quello della
traduzione di un linguaggio personale in uno condiviso e collettivo,
comprensibile e utilizzabile. Che possiede sì degli elementi inconsci
individuali, ma codificati in un insieme semiotico collettivo.
In questo territorio intermedio - per certi aspetti "transizionale",
come direbbe Winnicott - si pone quel prodotto del tutto particolare della
cultura che è il mito.
Il mito quale esempio, per eccellenza, di una rappresentazione dell'esperienza
umana. Un paradigma esplicativo di vissuti e situazioni, di strade possibili per
il vivere umano. E per un vivere a tutto tondo, gravido di sentimenti e di
emozioni, di angosce e di dolore, di scelte e di volontà. Anzi proprio per
l'intensità della rappresentazione mitologica è possibile utilizzarne il
contenuto come paradigma esplicativo dell'umano sentire. Della vita umana che si
condensa in personaggi caratteristici, in eroi, dèi e percorsi, che si
cristallizza in figure riconoscibili. Tale riconoscibilità e rintracciabilità
mitologica vale a sostanziare il valore esplicativo del mito.
D'altronde, che vi sia un passaggio tra "significato" e
"significante", attraverso, il quale il primo non soltanto trovi una
rappresentazione il più adeguata possibile nel secondo, ma che il secondo possa
addirittura trovare una sua propria autonomia è quanto, attraverso la
riedizione di miti e racconti, si evidenza con forza.
In questa ottica, quasi di una autonomia del significante rispetto al
significato soggiacente, ai processi, alle proiezioni, alla cultura che lo ha
prodotto, anche
la Proserpina
della Moscariello trova una sua collocazione.
Una Proserpina, dunque, che non ripete, come in un ennesimo racconto della
medesima fiaba popolare, una storia fin troppo nota, bensì una Proserpina che
si carica di sfumature nuove e significati particolari, che le derivano tutti
dalla volontà e dalla mano dello scrittore che la ha ricreata. Riproporre una
trama mitologica, così come scrivere di qualsiasi cosa o riscriverne, non è un
semplice processo di copia o di riattualizzazione di un'anima già vecchia e
consunta, quanto piuttosto un ricreare, un dare luce, nuovamente e per la prima
volta, a qualcosa di già emerso in altre coscienze, ma che però trova ogni
volta, sulla carta, attraverso la penna del suo autore, una nuova, irrepetibile,
specifica vita.
Così
la Proserpina
dell'autrice, così come Demetra, assume nuovi volti che non sono
imbellettamenti di facce stanche, bensì nuovi occhi e nuovi sguardi. E,
probabilmente, per capirne il segreto, o per capire da dove essi traggano
origine, bisogna leggere proprio la dedica che l'autrice pone all'inizio del suo
manoscritto: "a tutte le madri che hanno perso un figlio".
Soltanto con la consapevolezza di questo pubblico interiore e tutto personale
cui l'autrice si rivolge, possiamo intuire che probabilmente più che tre atti
dedicati a Proserpina, i versi scritti sono mossi dalla consonanza e
dall'empatia, forse dal riconoscimento, con Demetra.
Il che significa riferirsi ad una precisa costellazione inconscia di immagini e
di significati, di temi e di vissuti. Su questa linea interpretativa l'opera
della Moscariello non è, allora, una composizione sul mito di Proserpina,
sull'immagine della femminilità che essa veicola, n?, sostanzialmente, sulla
sua vicenda. D'altro canto, sicuramente Persefone non è simbolo di indipendenza
né di forza - come invece Afrodite - ma rappresenta la possibilità di crescere
e di trasformarsi. Non è di questa trasformazione, probabilmente, o almeno non
soltanto di essa, che l'autrice intendeva comunicarci il percorso ed il mistero,
bensì di quel vissuto lacerante che prima o poi capita ad ognuno di
sperimentare sulla propria strada: la perdita, il distacco, l'abbandono. O
meglio quella perdita ancor più pungente perché allude direttamente ad uno
strappo, ad una lacerazione improvvisa ed incontrollabile, da un punto di vista
emotivo persino irreversibile. Quasi una riedizione del "trauma della
nascita", ma vissuto dall'altra parte, con lo sguardo materno.
RECENSIONE DI NICOLA TERRACCIANO
Il
passaggio dalla raccolta poetica ad un testo teatrale non è raro, ma implica
sempre una sfida che può avere esiti problematici. La Moscariello ha deciso
questo passo con la caratteristica tensione emotivo-creativa, coinvolgendosi
totalmente, interamente, consapevole dei passaggi ardui di questo tipo di
impegno, con un collaterale approfondimento critico, che ha reso densa e
stratificata la parola poetica. Ha fatto ricorso non solo al sondaggio del suo
cuore, ma ha cercato consonanze di emozioni e di pensieri negli autori più vari
della letteratura occidentale, classici e contemporanei, che avessero toccato il
territorio espressivo prescelto.
Ne è nato
il lavoro teatrale “Proserpina” in tre atti, preceduto da un preludio, edito
con cura e gusto grafico dall’Editore Bastogi di Foggia (luglio 2003, 77
pagine), con cromatica illustrazione in copertina della sensibile e creativa
pittrice Palma Aceto.
Nella
prefazione di Aldo Carotenuto, l’illustre psicologo richiama il valore del
mito “paradigma esplicativo di vissuti e situazioni, di strade possibili per
il vivere umano”, individua nella “Proserpina” della Moscariello una
figura “che si carica di sfumature nuove e significati particolari... Così la
Proserpina dell’autrice, così come Demetra, assume nuovi volti che non sono
imbellettamenti di facce stanche, bensì nuovi occhi e nuovi sguardi”.
Il mito di Proserpina è pretesto poetico per afferrare profonde verità umane,
nel nesso che sembra (ma non è) paradossale tra dolore, disperazione e
speranza. “Il dolore sembrava avesse lasciato solo sterpi e gelo, ma il
cuore della donna-madre trova la forza di riprendere il sacco della vita e
scegliere la strada dell’esistere con le sue salite e discese, con i suoi
passaggi che incantano, coi suoi morsi gelati e le sue stagioni senza foglie...
Proserpina è la signora della morte e della vita, a cui la sorte ha regalato la
resurrezione dal lutto”. Sono alcune delle parole di forte espressività
poetica che l’autrice pone a introduzione.
L’ambientazione
spazio-temporale del testo si svolge sia negli Inferi che sulla terra, in
Sicilia, in particolare ad Enna. Mondi solo apparentemente contrapposti, poiché
ad uno sguardo sapienziale “in verità la stessa Proserpina rappresenta
l’eterno fluire della vita nella morte e della morte nella vita”.
I
personaggi sono soprattutto femminili, essi “rivendicano il ruolo sacrale
della donna come creatrice, generatrice della vita e della morte”. Ma
tutto l’universo mitologico, in relazione all’umano destino, è segnato e
condizionato dal femminile: da Venere a Minerva alle Erinni, alle Parche. Ma tra
le figure femminili brilla Proserpina nella predilezione della Moscariello, che
in essa proietta la propria esperienza di dolore e di speranza, la propria
vocazione di messaggera di speranza attraverso il dolore. “Proserpina
riassume la coscienza e l’esperienza della resurrezione (rinascere alla vita
dopo la morte, dopo il dolore...), presente nelle forze stesse della natura (il
ciclo delle stagioni, l’eterno ritorno... o la speranza di ritornare alla vita
dopo la morte, o di una vita diversa al di là della morte!). Un confine che non
spaventa! Un limite che si illumina, che si allarga, che si nutre del domani,
della definitiva vittoria del Bene sul Male, del riscatto dal Nulla eterno, dal
nichilismo asfissiante dei nostri tempi, di tutti i tempi”. Le scene, le
pagine sono scandite da richiami poetici, religiosi, filosofici illuminati, da
Ungaretti alla Bibbia, al Vangelo, a Gerolamo, ad Abelardo, a Claudiano, a
Quasimodo, a Omero, a Lucano, a D’Annunzio, ad Aristofane, ad Euripide, a
Pavese e accompagnate da musiche di Monteverdi, Lulli, Paisiello, Saint-Saens,
che hanno scritto opere su Proserpina.
La
struttura della vicenda si articola essenzialmente nella protesta di Plutone a
Giove per avere una compagna, a conforto della solitudine e del regno dei morti,
nella decisione di Giove, con l’aiuto di Venere, di concedere la vergine
Proserpina, figlia di Cerere, nel rapimento e nel possesso, nella disperata
ricerca della madre, nel destino finale della vita di Proserpina, che si
alternerà nell’anno tra il mondo delle tenebre e quello della luce.
Negli atti
costruiti con perizia scenica e drammatica brillano intensi paesaggi poetici,
nei quali più affiora la forza espressiva dell’autrice.
Negli
inferi Plutone è furioso contro Giove “tu hai preso tutto il bello del
mondo”, mentre a lui “non canti, non donne, non l’amore, non
l’abbraccio del figlio”. Invoca una compagna, una sposa. Giove lo invita
a realistica riflessione, sulla base dell’esperienza con Giunone “insopportabile
dea con le sue vendette e gelosie”, sui limiti di una compagnia banale e
sempre uguale, sui “mille fastidi della vita coniugale”. Ma Plutone
contrappone “la sofferenza della solitudine”.
Giove a
Venere che dice “Chi mai vorrà sposare il Dio della morte?” risponde
“Vi sono destini sconosciuti ai molti...
dalle lacrime di una madre e dal dolore di mia figlia nasceranno il grano e
l’aratro”.
A
Proserpina rapita e piangente Plutone confessa emozioni e promesse “Il mio
cuore è in armonia con il tuo cuore... Non piangere. Tu sarai testimone della
vita e della morte. Tu sarai il sole che scompare, risorge ogni giorno. Tu sarai
il seme che muore nel buio della terra, per rinascere rigogliosa spiga alla luce
del sole. Tu sarai la resurrezione della morte, la definitiva vittoria, la vita
non è che un breve sogno”.
Proserpina
confessa “nell’abbraccio delle ombre... nei fuochi dell’inferno tutto
ho percorso il corridoio delle lacrime”, ma ritornando alla luce “mi
abbandono al soffio leggero dei venti, alla carezza dell’alba, al desiderio di
vivere, ai sussurri dei nidi”.
E alla
madre Cerere “Ritornerò, stanne certa. In primavera, con i rami del pesco
della valle girgentea e con i loro fiori rosa, valicherò l’inferno per
tornare al tuo abbraccio... Ci ritroveremo nello splendore dei cieli. Ogni
primavera brilleremo agli uomini, tu stella con la spiga fulgente, io luna,
cuore dei poeti”.
Tornano
metafore care alla sensibile poetessa Moscariello, che non tralascia l’altra
nota del suo carattere, quella dell’indignazione verso il male, la violenza,
la insensibilità, come emerge dalla raffigurazione infernale sulla bocca di
Cerere “Negli Inferi imperatori e servi, donne e uomini, artisti e
lestofanti rendono conto della loro vita, si sottopongono silenziosi, non più
garantiti da avidi avvocati, al giudizio inesorabile del Nulla, a niente
servirebbe mentire o produrre falsi testimoni”.