sabato 30 dicembre 2017


MICHELE URRASIO OLTRE I CONFINI DELLA PROPRIA REGIONE


Nello scenario del Castello Miramare di Formia, che si affaccia sullo stupendo Golfo di Gaeta, il 16 ottobre 2017, si è svolta la cerimonia di premiazione dei vincitori del Premio Internazionale “Tulliola-Renato Filippelli” 2017. Un Premio di poesia, narrativa e saggistica che punta, inoltre, a evidenziare personalità che lottano quotidianamente contro le mafie, nell’intento di rendere la nostra società più libera e più giusta. Quest’anno per la “Sezione Premio per la legalità contro le mafie” è stato insignito della medaglia della Presidente della Camera Laura Boldrini il Procuratore della Repubblica a Reggio Calabria, Federico Casiero De Ra-ho.
Dell’onorevole Giuria, presieduta da Annella Prisco, ha fatto parte anche il diretto-re del “Fortore” Michele Urrasio, il quale ha preso posto accanto al professore Emerico Giachery, premiato con un gioiello in bronzo bagnato in oro nella “Sezione opere dedicate alla poesia di Renato Filippelli”. Il grande italianista è l’autore della prefazione della silloge di Michele Urrasio, intitolata Il nodo caduto (Piero Manni Editore, 1999), in cui Emerico Giachery afferma: «Va subito detto che siamo in presenza di un libro notevolmente omogeneo per sicura e costante qualità di scrittura, unità di tono, coerenza di stile, per ben caratterizzata voce e musica riconoscibile in ogni pagina. Unica sinfonia in più movimenti, dunque. Compatto canzoniere nel senso petrarchesco, tessuto di variazioni, riprese, continui e sottili approfondimenti tematici.»
E, dopo un’attenta analisi degli elementi che animano i versi, della «serie significativa di nuclei semantici essenziali e ricorrenti, di parole-chiave che costituiscono i punti di forza dell’universo immaginario e verbale che esprime la poesia di Urrasio», l’illustre prefatore conclude sottolineando che «il libro sembra aprirsi a un orizzonte rappresentato dalla continua novità della vita nella sacralità degli affetti.»
È senza dubbio «uno dei messaggi più intensi» che il professore Giachery ha pun-tualizzato e ribadito, mediante un’analisi più approfondita e dettagliata, in occasione della presentazione del volume Il nodo caduto, tenuta nell’Auditorium della Banca Nazionale del Lavoro di Roma, il 21 marzo 1999, alla presenza del Sindaco di Lucera, recatosi appositamente a Roma per onorare il poeta Urrasio, di varie Autorità e di un folto pubblico altamente qualifica-to.
In quell’occasione Urrasio conobbe il nome del professore Renato Filippelli che lo avrebbe premiato nel 2003, quale presidente della Giuria del Premio Internazionale “Antonio Sebastiani” (Il Minturno) per la silloge Le pietre custodi. In seguito il nome di Urrasio e quello di Filippelli saranno accomunati per il rispettoso amore verso i padri, cui dedicheranno pagine di profonda intensità.
«Tra tanti libri sulle madri, non molti quelli dedicati ai padri. Il rapporto col padre – scrive Emerico Giachery al poeta Urrasio – è sempre più problematico, più dialettico: dall'inevitabile contrapposi-zione, più o meno esplicita, più o meno consapevole, al padre nell'adolescenza e prima giovinezza, si giunge poi a un pieno recupero, che è in parte identificazione, e che è segno di raggiunta maturità. Il suo libro resterà tra i più belli di quelli dedicati al padre, accanto a "Pianissimo" di Sbarbaro. Tanti anni fa mi capitò un bel libro di poesia sul padre di un caro e generoso amico, da non molto scomparso, che figura anche tra i Suoi estimatori: Renato Filippelli.»
Sappiamo da tempo che Michele Urrasio ha superato i confini della propria regione per imporsi a livello nazionale e oltre, ma ci riempie di orgoglio vedere il suo nome in commissioni di alto prestigio. Il 2 settembre scorso è stato membro-relatore per la sezione poesia alla XLI edizione del “Premio Minturnae-Ornella Valerio” di Scauri (Latina) e adesso, a distanza di pochi giorni, componente della Commissione Giudicatrice del Premio “Tullìola-Renato Filippelli”, che sotto la nostra presidenza, è giunto alla XXIV edizione.
Traguardi prestigiosi che il prof. Urrasio ha raggiunto, grazie alla fedeltà di oltre mezzo secolo alla poesia, alla costante attività di critico letterario e d’Arte, e alla passione per un giornalismo serio e controllato, che ha permesso in particolare alla rivista di Cultura-Esperienze-Informazione, “Fortore”, di raggiungere e oltrepassare un quarto di secolo con equilibrio e qualità.
Carmen Moscariello
Presidente del Premio “Tullìola-Renato Filippelli”







Promenade a Paris

Amo  la notte, sono

 la donna della notte

mi avvolgo ai suoi rintocchi

 e conto le ore, conto

le tombe degli uccisi

e come una mamma

raccolgo il vostro dolore.

Ho nelle mani tanti dolori

ne sento i lamenti, asciugo

tante lacrime: le mie e le vostre.

 A  Place de la République mi avvolgi

 come un amante,

 il mio passo è lieve a la Bastille

mi piaci quando stai per partorire

l’alba, l’attendo come se ogni giorno

debba portarmi gioia e  speranza,

coltivo i  profumi

nel mio tunnel dei sogni.

Nel la lieve carezza del vento si perdono

le storie compaiono e

scompaiono attori e comparse

racconti infiniti

nei lunghi tendoni delle ciglia chiuse

accarezzo le vostre vite.

Sento il brusio dei morti,

 qui a Parigi

 i tuoi profumi



Avanti e in dietro

raccolgo nel mio solitario colloquio con voi

le vostre speranze, quelle che sappiamo

non incontreranno mai la storia dell’uomo

nella mia promenade  vedo anche i bambini,

piangono

vogliono la mamma, li conforto lievi e ripeto

” non abbiate paura”



Mi sono lasciata alle spalle l’ultima luce

quando ancora un lamento mi chiama:

“Perché sei qui  nella città insanguinata?”

“Sono venuta a frugare nella morte del giorno

a trovare le vostre voci

quasi non vi sento più” Le sto perdendo.

Ho raggiunto un vicolo buio

il  più lontano dalla Senna,

ho trattenuto il passo

un urlo veniva da lontano

io non lo vedevo

al fine .

martedì 26 dicembre 2017

"Un patto di pace" versi di Peppino Iuliano



“Quest’oggi sembra più nostro.
Anche il cielo stanco di veglia
s’accalora e volge alla luce.
Parole d’amore
miracolo di un bambino nascente
chiedono un patto di pace.
Compagna ti aspetto
sulla via
voce e cometa”.

domenica 24 dicembre 2017


n. 18 del 9.11.2017

MERIDIANO 16



MICHELE URRASIO OLTRE I CONFINI DELLA PROPRIA REGIONE


Nello scenario del Castello Miramare di Formia, che si affaccia sullo stupendo Golfo di Gaeta, il 16 ottobre 2017, si è svolta la cerimonia di premiazione dei vincitori del Premio Internazionale “Tulliola-Renato Filippelli” 2017. Un Premio di poesia, narrativa e saggistica che punta, inoltre, a evidenziare personalità che lottano quotidianamente contro le mafie, nell’intento di rendere la nostra società più libera e più giusta. Quest’anno per la “Sezione Premio per la legalità contro le mafie” è stato insignito della medaglia della Presidente della Camera Laura Boldrini il Procuratore della Repubblica a Reggio Calabria, Federico Casiero De Ra-ho.
Dell’onorevole Giuria, presieduta da Annella Prisco, ha fatto parte anche il diretto-re del “Fortore” Michele Urrasio, il quale ha preso posto accanto al professore Emerico Giachery, premiato con un gioiello in bronzo bagnato in oro nella “Sezione opere dedicate alla poesia di Renato Filippelli”. Il grande italianista è l’autore della prefazione della silloge di Michele Urrasio, intitolata Il nodo caduto (Piero Manni Editore, 1999), in cui Emerico Giachery afferma: «Va subito detto che siamo in presenza di un libro notevolmente omogeneo per sicura e costante qualità di scrittura, unità di tono, coerenza di stile, per ben caratterizzata voce e musica riconoscibile in ogni pagina. Unica sinfonia in più movimenti, dunque. Compatto canzoniere nel senso petrarchesco, tessuto di variazioni, riprese, continui e sottili approfondimenti tematici.»
E, dopo un’attenta analisi degli elementi che animano i versi, della «serie significativa di nuclei semantici essenziali e ricorrenti, di parole-chiave che costituiscono i punti di forza dell’universo immaginario e verbale che esprime la poesia di Urrasio», l’illustre prefatore conclude sottolineando che «il libro sembra aprirsi a un orizzonte rappresentato dalla continua novità della vita nella sacralità degli affetti.»
È senza dubbio «uno dei messaggi più intensi» che il professore Giachery ha pun-tualizzato e ribadito, mediante un’analisi più approfondita e dettagliata, in occasione della presentazione del volume Il nodo caduto, tenuta nell’Auditorium della Banca Nazionale del Lavoro di Roma, il 21 marzo 1999, alla presenza del Sindaco di Lucera, recatosi appositamente a Roma per onorare il poeta Urrasio, di varie Autorità e di un folto pubblico altamente qualifica-to.
In quell’occasione Urrasio conobbe il nome del professore Renato Filippelli che lo avrebbe premiato nel 2003, quale presidente della Giuria del Premio Internazionale “Antonio Sebastiani” (Il Minturno) per la silloge Le pietre custodi. In seguito il nome di Urrasio e quello di Filippelli saranno accomunati per il rispettoso amore verso i padri, cui dedicheranno pagine di profonda intensità.
«Tra tanti libri sulle madri, non molti quelli dedicati ai padri. Il rapporto col padre – scrive Emerico Giachery al poeta Urrasio – è sempre più problematico, più dialettico: dall'inevitabile contrapposi-zione, più o meno esplicita, più o meno consapevole, al padre nell'adolescenza e pri-ma giovinezza, si giunge poi a un pieno recupero, che è in parte identificazione, e che è segno di raggiunta maturità. Il suo libro resterà tra i più belli di quelli dedicati al padre, ac-canto a "Pianissimo" di Sbarbaro. Tanti anni fa mi capitò un bel libro di poesia sul padre di un caro e generoso amico, da non molto scomparso, che figura anche tra i Suoi estimatori: Renato Filippelli.»
Sappiamo da tempo che Michele Urrasio ha superato i confini della propria regione per imporsi a livello nazionale e oltre, ma ci riempie di orgoglio vedere il suo nome in commissioni di alto prestigio. Il 2 settembre scorso è stato membro-relatore per la sezione poesia alla XLI edizione del “Premio Minturnae-Ornella Valerio” di Scauri (Latina) e adesso, a distanza di pochi giorni, componente della Commissione Giudicatrice del Premio “Tullìola-Renato Filippelli”, che sotto la nostra presidenza, è giunto alla XXIV edizione.
Traguardi prestigiosi che il prof. Urrasio ha raggiunto, grazie alla fedeltà di oltre mezzo secolo alla poesia, alla costante attività di critico letterario e d’Arte, e alla passione per un giornalismo serio e controllato, che ha permesso in particolare alla rivista di Cultura-Esperienze-Informazione, “Fortore”, di raggiungere e oltrepassare un quarto di secolo con equilibrio e qualità.
Carmen Moscariello






TUTTE LE POESIE  RENATO FILIPPELLI

Curatrice Fiammetta Filippelli

Prefazione di Emerico Giachery

Postfazione di Francesco D’Episcopo

Gangemi Editore, Roma, maggio 2015

LA PIU’ SACRA DELLE PREGHIERE

DI

CARMEN MOSCARIELLO

Lo conobbi nel  1981, io giovanissima al mio secondo incarico, ma già di ruolo in una scuola, quella del Magistrale “Cicerone” di Formia in via Olivetani, allora piccolo idioma di felicità e armonia, per far comprendere meglio un’Arcadia del Metastasio. Egli era il più importante,  già allora stimato e riverito, ma lo affiancavano importanti nomi, anche di scrittori di buona fama, e aleggiava nelle aule l’odore di poesia e di onestà. Uomini onesti e culturalmente di grande levatura, avevano contribuito a creare nel “Cicerone” un centro di cultura fra i più importanti d’Italia, al quale molti guardavano con invidia e rispetto.

Filippelli si muoveva rispettosissimo di tutti, arrivava sempre di corsa la mattina con infiniti libri tra le braccia, figli scomposti di padre amoroso che non conosceva l’ordine, gli pendevano, li perdeva, li cercava.

Io mi muovevo tra quelle Menti con paura di aprire bocca, di dire qualcosa di sbagliato, senza contare che il prof. Filippelli, per me che venivo dal “Suor Orsola Benincasa”, era una specie di divinità, anche perché molto amico di Nicola Cilento, col quale mi ero laureata e che per me aveva una tenerezza immensa.

Ricordo, come fosse ora, il primo incontro, fu il Poeta ad iniziare: “Professoressa, ho saputo che lei viene dal Suor Orsola, so anche che è stata un’eccellente studentessa”. Da lì è iniziato un rapporto di amicizia e di intensa stima che è durato fino all’ultimo giorno della sua vita. Andandolo a trovare spesso, si è intensificato anche un rapporto meraviglioso con la sua bella e intelligente moglie Mimma e con i suoi figli, nei quali vedo rispecchiate la sua umanità e grandezza.  

Fu il Magistrale luogo di importanti dialoghi con lui: nelle ore libere dall’insegnamento passeggiavamo avanti e dietro nel lungo corridoio della scuola, raccontandoci tutto, lì timidamente gli feci leggere i miei primi scritti; severissimo nelle analisi, credo d’aver dovuto aspettare dieci anni per il primo “va bene”. Devo a lui la mia scrittura, ma per tanti aspetti anche la mia formazione così radicale,  consolidatasi dalla vicinanza alla sua personalità così onesta, senza infingimenti o ipocrisie.

Si può dire che passavamo giornate intere a scuola, anche nel pomeriggio eravamo impegnati entrambi nei corsi integrativi, tre ore quasi mai pagate, per il gusto di dare, di educare, certi che stavamo facendo del bene. Incontro oggi gli alunni di allora e tutti si vantano orgogliosi di essere stati alunni di Filippelli e allora come ora lo amano e lo ringraziano per quanto ha donato. Insegnavamo entrambi nel corso “C”, io e il professor Antonio Prota ci alternavamo sulla cattedra di Latino ed egli aveva la cattedra d’Italiano che io ho ereditato, quando si è trasferito definitivamente al Suor Orsola Benincasa. Per quanto mi riguarda poi, mi ha sempre difeso da attacchi e da cattiverie subite nella mia vita, fino all’ultimo giorno della sua esistenza. Condivideva le mie battaglie e si scontrava anche fortemente con chi cercava di farmi del male, né risparmiava critiche a me, se riteneva che avessi sbagliato o se mi esponessi fortemente ai pericoli. Gli piaceva comunque il mio stare sempre sulle barricate.

Oggi quest’uomo grande, a cui molti debbono rispetto e amore, ci manca come presenza fisica e culturale: dalla sua morte il Sud Pontino ha subito una decadenza preoccupante, un depauperamento. Grazie a lui, che ci faceva generosamente conoscere le più grandi personalità della cultura italiana, ospitandole nelle nostre città con convegni di grande interesse, ognuno di noi si migliorava e poteva meglio guardare alla vita e al suo prossimo con prospettive positive. Ha sempre rinnegato con sdegno la cultura “clientelare”, sottolineandone la volgarità e il pericolo che essa costituiva. 

Alla luce di quanto sopra, si comprende la gioia con la quale accogliamo la pubblicazione dell’opera che raccoglie tutte le sue poesie; il testo è curato dalla figlia Fiammetta, sua collaboratrice in lavori importanti; una gioia sfogliarlo, leggerlo, rileggerlo, ritrovarlo nelle immagini a colori, nel cd-rom che completa il libro, risentire la sua voce con tonalità perfette.

Filippelli sapeva leggere la Poesia, farla amare dagli alunni e dal pubblico, conquistarli, affascinarli.

Il libro comprende tutte le sillogi pubblicate in vita e post mortem: Vent’anni; Il cinto della Veronica (prefazione di Edoardo Gennarini); Ombre dal Sud (prefazione di Emerico Giachery); Ritratto da nascondere (prefazione di Fernando Figurelli); Requiem per il padre (prefazione di Rosario Assunto); Plenilunio nella palude; Dai fatti alle parole; Spiritualità (prefazione di mons. Raffaele Nogaro).

Forse quest’opera potrà finalmente aiutarci a scrivere di nuovo sulla Poesia di Filippelli (su di essa ho tenuto giovanissima un corso di approfondimento durato un anno e del Poeta ho pubblicato recensioni per ogni sua silloge), forse avremo la forza per riesaminare i suoi scritti alla luce di una critica distaccata.

L’opera in oggetto ci ripropone il suo percorso poetico: il verso pur nei tracciati dell’aratro antico è poi attraversato da un nuovo vento che si appresta ad introdurci in un mare fecondo di intensità d’affetti, di passioni, di bellezza.

Soprattutto nelle ultime tre raccolte il Poeta dà alla parola un condensato di vita spirituale che pare talvolta di leggere “Le Confessioni” di Agostino. Egli si esamina tutto, si confessa, dà alla scrittura un’appartenenza liturgica, evangelica, pur conservando la densità e la forza di tutte le passioni e le debolezze umane. Ora che tutta la sua opera appare così bene composta, riordinata, pubblicazione dopo pubblicazione, ognuna di essa, così come il Poeta l’aveva pensata, appare chiaro al lettore il percorso culturale e umano di un’intera vita dedicata alla scrittura come esperienza dell’uomo e poi del Poeta che si torce con forza nella ricerca di Dio, lo invoca nelle sue ore di dolore, ha pietas per l’uomo senza destino, dando alla poesia un valore non solo lirico, ma anche teologale.

Guardandolo, a volte, quando era molto malato, io che ne avevo conosciuto l’irruenza, la determinazione, il fuoco che metteva in ogni suo pensiero, l’irrequietezza dei suoi giorni, lo vedevo sereno, nonostante tutto, ancora desideroso di aiutare il prossimo, prodigo di consigli per gli amici, pronto ad ascoltare e consolare per le loro sofferenze. Così era fatto, così è la sua poesia: generosa, vera, autentica in ogni suo spasimo.

 Lo stile pacatamente ragionato si apre all’improvviso in un terremoto di immagini, si squarcia il mare amato per divenire nembo. Il percorso filosofico è rispettoso della “logica”, la troviamo in particolar modo in Plenilunio della palude, quest’opera è di estremo interesse, poiché segna il passaggio dalla poesia della memoria e della pietas, alla strada della Croce, alla ricerca di  Dio, a volte sordo alle preghiere dell’uomo, questo percorso diventerà ben presto la strada del Golgota, assumendo una densità religiosa che lo porterà a percorrere ogni formella della passione di Cristo.

La svolta poetica non è solo nei contenuti, ma anche la parola poetica in Plenilunio nella palude, il verso si fa scarno, le composizioni brevi, la furia di chi cerca, difficilmente controllabile, a volte distruttiva. Il luogo del cranio è anche una svolta decisiva per la sua vita di uomo (In questo periodo lo vado a trovare in un ospedale romano, gravemente provato da un intervento chirurgico). Credo che in questo luogo di dolore, prenda distacco dalla sua condizione umana,  la esamina in tutte le sue cubature e decide di portarne il peso, pur nell’assoluto dolore, affidandosi a Dio e cogliendo le cose belle, anche minime, che la vita ancora gli riservava.

Era amorevole con gli amici che non smettevano d’andarlo a trovare, amorevole con la sua famiglia. La gioia di vivere, l’amore per la vita ha avuto il sopravvento su tutto; né voleva morire: “Voglio difendere questo filo di vita che ancora mi resta, godermi i  nipoti” e lì ad indicarmi le loro fotografie che colorate spiccavano con le altre che tappezzavano per intero le pareti; potevi rivederlo nelle foto con Domenico Rea e Michele Prisco e gli altri grandi del nostro secolo, o guardare a sinistra, alle spalle della sua scrivania, dove aveva posizionato una bellissima foto della moglie Mimma, giovanissima, quasi Madonna.

Dividerei le grandi raccolte di Filippelli in tre fasi. La prima che comprende: Vent’anni,[1]Il cinto della Veronica,[2], quella centrale, molto meridionalistica (dolce Sud) con Ombre dal Sud[3] e Ritratto da nascondere[4], Requiem per il padre[5], la terza fase con Plenilunio nella palude, Dai fatti alle parole e Spiritualità.

La poetica come figlia della memoria ha un ruolo importante nelle opere della prima fase: il ripercorre, l’esaminare fino allo spasimo è una sua caratteristica anche degli inizi; dominante per molto tempo nella sua poesia è la figura del padre e le condizione del Sud. Pietoso, egli nel ricordo dà vita alla memoria, eterna nei palpiti del giorno l’umile esistenza della sua gente, nei sussurri delle pietre, nei fruscii dello strame, battuto e lavorato dalle donne, rotola il dolore, nei cunicoli delle guerre piange le miserie del Sud. Nella grandezza della poesia di questa prima fase si erge la bellezza delle donne e la passione dell’amore, i furori della mente che avvolgono e distruggono, né mancano poesie indimenticabili dedicate alla figlia Fiammetta e alla moglie.

Dà corpo e voce a chi non ce l’ha, carica le cose di un calore umano, raccoglie il lembo del più povero per farne ornamento d’altare: Oggi ho inchiodato una lapide/ sulla facciata della vecchia casa/di campagna che vide la mia infanzia/raccolta nell’abbraccio/degli occhi e del respiro/dei poveri, di stirpe contadina/Due parole vi ho inciso: Domus Patris/E dunque è Tua/e di Don Carlo e dei morti/ di cui delusi la paternità/Sia da te benedetta./ E fa’ che i figli/miei, venendo da lontani/ grovigli di rimorsi e nostalgie,/ v’entrino per cercarmi, come s’entra/ in una piccola chiesa.[6]

Filippelli con mano sapiente dà sacralità alle cose e le innalza alla soglia dei valori che reggono la vita e la rendono degna d’amore. Le cose intese come appartenenza agli affetti, come percorso di vita verso ciò che conta e amiamo.

Disprezzava la poesia sperimentale e lo sperimentalismo tout court, in genere; spesso, affrontava nei suoi discorsi sulla poetica questo argomento, battendosi per i valori etici dai quali la poesia deve nascere, essa non era solo la musa Calliope che ispira, per Filippelli la Poesia era il dono più divino che Dio avesse concesso all’uomo, a quell’altare potevano accedere solo coloro che possedeva un’autentica fede. La difesa della poesia assumeva in alcuni convegni toni appassionati, l’abbraccio  di pietre e ombre (Ombre dal Sud), il sussulto, che si protraeva nel tempo, provocato dalla morte, che in Requiem per il padre è nel contempo doloroso distacco, ma anche  protagonista e regina di vita; la presenza della morte si ripropone  assidua nelle ultime tre raccolte, intesa quale terribile sofferenza per chi è costretto suo malgrado a lasciare gli affetti e nel contempo diviene preparazione profonda a consegnarsi al cuore di Dio, alla sua divina misericordia, nella preghiera e nella richiesta del perdono.

Arpa grandiosa sopra le tue corde/la mano della morte/

Tenta gli accordi. Ma non puoi morire[7]

La fedeltà di Filippelli alla poesia era pari a quella di Shelley in Defense of Poetry: ha un ruolo sociale determinante, questa centralità della poesia l’ ha difesa con determinato coraggio dai negazionisti, da quelli che guardano con compatimento il Poeta.

La sua eloquenza ci faceva sentire uniti, coesi; ancora più oggi, quando ripenso ai nostri “Incontri con la Poesia”, ai quali partecipavano decine di poeti, ricordo ancora le sue parole: “la poesia va intesa come una margherita di carta i cui petali sono raggiera alla vita”, delicata, fragile e nel contempo eterna e insostituibile, incarnazione di tutte le cose della vita e della morte.

In questa prima fase, come già dicevamo, la bellezza della donna e della natura assume un ruolo dominante: Filippelli amava il bello, se ne lasciava dominare e conquistare, qui egli diveniva augure pagano.

La cima delle cose che sapeva leggere con intuito e che spesso gli permetteva di scalare l’essenza di Dio, cogliendola nella sua assoluta grandezza, lo portava poi a precipitare, in un doloroso pentimento, a raccogliere il povero essere dell’umanità confusa, fino a sostanziarsi in preghiera profonda che gli apriva dolorosi squarci dell’enigma della sofferenza che ci sovrasta.

Per ciò che attiene quella che ho definito la “terza fase”, va sottolineato il traguardo della fede. Filippelli è stato sempre credente e, se pensiamo al suo cuore generoso, crediamo che egli abbia risposto a uno dei fattori fondanti del cristianesimo che è nell’amore per il prossimo. Altro tassello che non va sottovalutato è quello di essere stato un grande educatore. Molte generazioni si sono ben formate alla sua scuola, fu un grande lavoratore nella vigna del Signore, egli produceva frutti sani, senza malattie, in umiltà, nel rispetto assoluto dei suoi alunni; riusciva a trovare in ognuno di essi un “fuoco”, una passione e su quella costruiva la loro formazione. Nelle classi di Filippelli non c’erano alunni “asini” o maleducati, bastava una sua parola e tutto si ricomponeva e là dove vedeva del “fradicio”, era meglio scomparire dalla sua presenza. Non era persona adattabile, nella scuola, come ho detto, molti l’amavano e rispettavano il suo lavoro, e, senza saperlo, lo rispettavano anche gli invidiosi e i maldicenti.

Spesso, soprattutto gli amici, sottolineano il suo garbo, la sua eleganza nel porsi socialmente e culturalmente: è vero, il Poeta era anche questo, ma a volte, il dono della poesia che egli possedeva in sommo grado era anche “artiglio”[8], lo scavava, lo tormentava, lo portava vicino al desiderio della fine, l’acqua cattiva lo travolgeva fino ad annientarlo. La barca oscura emerge in molti componimenti che fanno tremare le vene, tanto egli appare vicino alla fine: Figli che mi portate sulle spalle/come il pietoso Enea portò suo padre,/se voi non foste il filo che ricuce/brandelli alla speranza della vita,/mi getterei nel vuoto della valle/Come un fantasma in fuga dalla luce.[9]

Qui la superfice dello Stige non è solo sfiorata, la chiglia che percorre l’imbarcazione da poppa a prua ha ceduto, è solo la fede dell’Amore che lo salva.

Alla caduta si riallaccia la preghiera che non è mai enfasi, scivola limpida e chiara l’invocazione che permette al cuore e alla mente di ritornare consapevoli del nostro destino e invoca Dio, desideroso di essere accolto dalle sue braccia pietose e finalmente cogliere il mistero che il dialogo con le ombre e con la malattia ha reso non solo  possibile, ma intenso: Viverti è risalire le sorgenti/del mondo, dove coltri/di mistero si squarciano/ e in abissi/d’azzurro plana il volo delle allodole/Viverti è la ventura dello sguardo/che scopre i fili della tessitura/del cosmo e li riannoda/giorno per giorno, trepido adorante/per farne l’unità del Tuo pensiero.[10]

E’ un dolce planare, un discendere che è salire, una ricerca lenta sfogliata nell’ora del tempo, rubricata, una lenta appartenenza al di Dio “muto” dei suoi versi.

C’è in questa tessitura la grande svolta della poesia di Filippelli che diviene teologale, le vesti umili del cercatore che a tozzo a tozzo trova alla fine la strada: il suo calvario ha consacrato la sua poesia.

Les temples de la nuit[11] hanno chiarori obliqui, rami piegati che permettono l’attraversamento, un cammino che è nero e bianco, un’ascesi che è dettata dall’ardore.

L’incisione che il dolore ha inflitto alla carne, ora si trasformato in supplica.

Il n’est plus de nuits, il n’est plus de jours[12], tutto ora scorre, egli non segna più con i suoi passi la sabbia della spiaggia di Scauri, dove lo si poteva vedere passeggiare da solo con il Borsalino bianco a falde larghe, lottare col vento, già nuvola leggera.

Il bulino ha inciso il rame e lo zinco della sua scrittura che rimane in trasparenza ardita e delicata, sfumata, a volte, quasi il Poeta volesse rendere l’endecasillabo leggero: lo destruttura con l’enjambement, lo ricompone poi nella sua armonia in sintesi compositiva. Tutte le sue poesie si chiudono poi con un’immagine e una considerazione che non lasciano dubbi, gli ultimi due o tre versi li senti come una staffilata al cuore. La sua scrittura, anche quella che ritroviamo nelle sue bellissime Letterature o Enciclopedie[13], ha nel linguaggio un fermento, una dirittura di immagini, un adeguamento rivoluzionario dell’autore all’opera: trattati che non lasciano scampo.

L’immagine e la sintesi compositiva

Nella struttura del verso le opere trovano man mano nuova collocazione, fino ad arrivare alle ultime sue tre pubblicazioni Plenilunio nella palude, Dai fatti alle parole, Spiritualità.

Le tre opere segnano una grande svolta nella poetica di Filippelli: l’espressività prorompente passionale, ricca di metafore con accordi e simboli attraversati dalla perfetta limatura di ogni parola o virgola e poi quelle sintesi “divine” poste alla fine di ogni poesia a suggello della verità conquistata. In effetti i due “opposti”, la passione irruenta e la perfezione del verso, si fondono nel testo poetico: le poesie conservano la passionalità quasi istintiva, anche quando il lavoro di perfezionamento della parola è tradotto oltre ogni limite. Il tracciato prende consistenza dalle prime battute per condensarsi ed esplodere in finale. E’ una Turandòt febbrile, un’attivazione della forma che si inebria nel focolaio della malattia, è lo scioglimento dell’enigma che aveva tenuto stretto il cuore del poeta. Egli non solo configura l’immagine, ma essa si regge e trova perfezione solo in un grande sentire, nello stringerla tra le dita del cuore per non perderla e donarcela.

   E’ morto il Poeta Renato Filippelli

Avete finito di battere i tamburi a cadenza di morte ….e più nessuno grida, “Mio Dio perché mi hai lasciato”

Il Poeta è morto e i ritocchi della campana sono straziati dal dolore. E’ morto un uomo che aveva la pietà nel cuore.

Il Maestro è morto, Egli ci ha insegnato la Poesia, il decoro dell’uomo, la dignità  del giusto, la generosità per tutti. Bastava bussare alla sua porta e ogni artista era ascoltato e valorizzato dalla grandezza della sua parola, dalla generosità del suo cuore. Proprio ieri sfogliando l’ultimo catalogo dei pittori Bartolomeo e Soscia, una gemma in seconda pagina,  una recensione che il Poeta scrisse per Bartolomeo venti anni fa, ben custodita, immensa per il suo sentire, senza confini per la sua cultura che si muoveva maestosa dalla Poesia alla pittura, dalla pittura alla musica.

Questa terra pontina  deve molto a Filippelli , egli in un’età di barbaria e di latrocini ha incarnato la strada della luce, in una ricerca accorata di Dio. La sua poesia è una preghiera  avvolgente, sdegnosa del male, con la convinzione che al centro del mondo c’è l’uomo con la sua dignità .

Umile, uno come tanti, operaio di sogni  il grande Poeta ci lascia eredi della sua arte, ci battezza con le sue mani, affinchè la fiaccola antica non si spenga. Che Egli riposi nella casa del Padre e sereno raccolga carezze per Mimma , per i suoi adorati figli e nipoti.

Le parole sono inadeguate per raccontare la sua assenza.

Questo premio letterario che lui insieme a Mario Rizzi hanno reso prestigioso è vedovo della sua guida, dico qui, quello che dissi alla figlia Fiammetta: Come faremo senza Renato.

Anche nel dolore e nella nostalgia della sua presenza bisogna dire che Il Poeta Renato Filippelli è stato un vincente.
Un vincente perché mai ha rinunziato alla sua dignità di uomo e  di Artista, non  ha mai piegato il  suo ginocchio davanti a nessuno e tantomeno ai p


[1] da Renato Fiippelli Tutte le poesie, Gangemi Editore, pg 30. Vent’anni fu pubblicata da Gastaldi Editore, Milano 1956.
[2] L’opera fu pubblicata con la casa editrice “Centro artistico internazionale”, prefazione di Edoardo Gennarini, Varese 1964.
[3] L’opera ha la preziosa prefazione di Emerico Giachery, Ed. “Istituto Editoriale del Mezzogiorno”, 1971.
[4] L’opera è prefata da Fernando Figurelli, Ed. Loffredo, Napoli 1975.
[5] L’opera ha la prefazione di Rosario Assunto, Edizioni Bastogi, il Liocorno, Foggia.
[6] “Domus Patris”, pg 318, Plenilunio nella palude, Edizioni Scientifiche Italiane.
[7] “… Di un privilegiato dalla sorte al mare”, poesia, dalla raccolta Plenilunio nella palude, pg 404, 1977.
[8] Giuseppe Limone: L’artiglio e la preghiera.
[9] ”di un padre tratto in salvo”, pg 403,  Dai fatti alle parole, L’Ippogrifo.
[10] “Lo sguardo”, pg 299, da Plenilunio nella palude.
[11] Opera pittorica di Jean Pierre  Velly, acquaforte su rame.
[12] Tristan Corbiér
[13] L’Eredità letteraria, opera magna in sette volumi scritta in collaborazione con la figlia Fiammetta, Editrice Simone. La letteratura ebbe ed ha un grande successo. Su questi testi hanno studiato milioni di studenti in ogni parte d’Italia. Tutti i miei alunni si sono formati sui tanti libri scolastici di Filippelli, conseguendo grande proprietà ed eleganza nella scrittura e nella conoscenza della letteratura promotrice e custode di civiltà.
“Mi è costata la salute”, mi disse un giorno a Scauri, tale fu la mole di lavoro della quale si fece carico, coinvolgendo la figlia, che è stata preziosa collaboratrice.   

Porta d'avorio



Sei il mio piccolo Budda
ti volgo dal sonno alla luce
disegno nel firmamento
il sogno di te
girasole di splendidi amori
Leonardo, piccolo Budda
ed io nonna felice
ballo con te fino all’alba
tumbalalaika
alle ore, tin tin tintan
da da-da-re Leonardo ta-ta-ta
balocco le tue dita d’argento
su un piano in cammeo
le note migrano, corrono
galoppano vallate e fiumi
ed io ancora bambina
canto il dono di te.
 Poesia tratta da "L'orologio smarrito" di Carmen Moscariello Guida Editori

sabato 23 dicembre 2017

All'ombra di un'eresia di Carmen Moscariello, Bastogi Editore


Teatro in versi

Proemio

Personaggi: Valdes, Giulia Gonzaga, le monache del convento, Caterina Cybo, Carnesecchi,Galeazzo  Caracciolo, Bernardino Ochino, Vittoria Colonna.

 La scena si svolge nel convento di San Francesco delle Monache, a Napoli. Anni di riferimento 1534-1541.

Il cenacolo eretico  napoletano ebbe come personaggi principali Juan De Valdes e Giulia Gonzaga. Alla morte del teologo spagnolo, punto di riferimento per gli spiritualisti, fu Giulia che rianimò il salotto napoletano, rifiutandosi di lasciare Napoli, pur sapendo che Pio V la volesse al rogo. Per non tradire il lascito umano, religioso, spirituale del suo maestro, non andò a Viterbo, dove Vittoria Colonna la pregava di raggiungerla, né presso il nipote Vespasiano che avrebbe potuta proteggerla. L’incontro tra Giulia e Valdes si tenne nel monastero di San Francesco delle Monache, dove Giulia rimase per trentacinque anni, fino alla sua morte.

Il cenacolo degli eretici era formato soprattutto dagli intellettuali, teologi, monaci, nobili napoletani, ma ben presto divenne punto di riferimento per i contestatori della chiesa di tutta Europa, in particolare di spagnoli  vicini a Juan de Valdés. Il teologo giunse a Napoli dopo varie  persecuzioni per motivi religiosi, abitò una casa in via Chiaia, dove si andò formando attorno al suo magistero  un circolo culturale che raccolse grandi personalità del tempo, tra queste in grande predilezione ebbe Giulia Gonzaga ,  altre personalità furono Pietro Carnesecchi , Caterina Cybo,  Bernardino Ochino  vicario generale dei Cappuccini, Nicola Maria Caracciolo vescovo di  Catania. Ad essi  e agli altri discepoli si deve la conservazione delle opere del  Valdés. In particolare a Giulia furono affidati i suoi scritti più preziosi.

Altri personaggi illustri che fecero parte del cenacolo valdesiano furono: Isabella Brisegna Manriquez,  Galeazzo Caracciolo, marchese di Vico, Marcantonio Flaminio,  Pietro Martire Vermigli.

Ma la vera erede del pensiero del Valdes fu Giulia che dopo la morte del teologo spagnolo, sfidò   molti pericoli, in quanto la chiesa di Roma era sempre più in allarme contro quei movimenti religiosi che mettevano in crisi il potere della chiesa.

Quando  la nobildonna morì nel convento di San Francesco delle Monache, Pio V e la Santa Inquisizione ordinarono  la perquisizione dei luoghi.  Furono trovati molti scritti del Valdés e  riferimenti  compromettenti per i seguaci del maestro, in seguito a ciò molti spiritualisti   furono arrestati,  processati  e anche condannati a morte, uno di questi fu Pietro Carnesecchi  (furono ritrovate sue lettere compromettenti, inviate a Giulia);egli, già più volte inquisito e liberato, fu per queste prove condannato al rogo.











Convento di San Francesco delle monache, discussione e lamenti degli eretici che sentono imminente l’intervento della Santa Inquisizione. Inizia a parlare  Giulia che ricorda la morte del giovane Ippolito dei Medici, suo giovane amore, avvelenato nel Castello di Itri, quando l’uccisero era suo ospite al Castello di Fondi.

Giulia Gonzaga

Finirò i miei giorni come il povero Ippolito avvelenata dal sangue di serpe

degli itrani, gli  inquisitori già bussano alla mia   porta,

né giovò abbandonare il mondo e vivere reclusa nel dolore dell’esistenza

 intatto il mio letto, né il Barbarossa che attraversò i mari

poté godere del mio corpo. I suoi desideri si infransero

 sotto la torre di Sperlonga.

Il santo inquisitore non vede l’ora  di bruciare il mio corpo

e  liberarsi alfine di chi osò alzare la sua voce contro

 la chiesa corrotta e i suoi flagellatori conoscono

sevizie raffinate, bruciano la pelle dei poveri  chiodati

fioriscono alfine viole alle finestre mentre la grandine

 con le sue unghia affilate morde il suo belletto e condanna senza il timor di Dio.

Sono senza pace. Tu sei l’uomo che mi ha resa libera, vado avanti

con l’energia della tue preghiere sui tavoli di legno adornati dei  sacramenti

mi hai presa nel tuo cerchio, appartengo insieme a te alla verità del tempo.

 La chiesa è virago del dolore,  ansima per il suo oro e il suo potere.

 O Francesco, dove sei tu che parlavi al lupo e agli uccelli,

 la dolce melodia della natura, il canto altero dell’ultima cicala



Improvvisamente il suo corpo trema per lo spavento

Da dove verranno?

 E anche qui chiusa con le mie consorelle cade il gelo,

 temo  le spie, terribili le presenze che mi assediano ogni  ora,

denti aguzzi macinano veleno e funi e corde, con i loro sordi rumori

rendono impossibili le notti e i giorni. Crudeli, perché non si decidono

e mettano  fine ai nostri tormenti.

I  rondinotti cadranno sotto il vento gelido della calunnia e il nido

che invano preparammo sarà gremito dalle vipere.



Pietro Carnesecchi

Quanto graziosa sei e bella

amatissima delizia, doni ogni ricchezza

al mio cuore, anch’esso afflitto dalla paura

Anch’io temo che verranno  i soldati di Pio V,

vogliono umiliarci, le tenaglie sono pronte per strappare la verità,

 ma non temere vogliono solo me, mi ritengono il capo , un rivoltoso

un demonio che ha convinto povere donne sole a ribellarsi al papa

Illusi nel  credere  Giulia  Gonzaga, Vittoria Colonna, Caterina Cybo

 ghermite dalla mia parola come stupide allodole.

Bernardino Ochino

I merli d’argento orneranno la tua parola e il tuo credo

Il concilio di Trento ,nemmeno con la sua sesta sezione potrà scalfire

l’onorabilità del tuo nome e la gloria della  tua potente famiglia

Rafforzeremo il nostro cuore con legni di cedro,

metteremo sbarre di ferro perché non siano contaminati

Tu che abiti nel giardino del mio cuore

non temere, né per la nostra vita, né per la tua vita,

 se ci uccideranno incontreremo prima il Dio dell’Universo

Egli ci aspetta con braccia generose d’amore



Giulia :

Mi sovviene ogni notte il triste ricordo di Ippolito,

avvelenato nel castello di Itri ,chiuse la sua bella e giovane vita

 alle ortiche e al sangue i meravigliosi sogni della giovinezza

Invano tentai di portare la civiltà ai monti dei cafoni

Tra le ginestre unghiose delle valli erose dal mare,

tra i cinghiali feroci  e i pastori  ingloriosi.



Non ho  la nostalgia di quei luoghi, né l’inutile

onore che portai al Castello di Fondi,

 sento che di là nemmeno il nome di un  amico

mi  sovviene, ma è questo strano languore  che

come chiodo è conficcato nel la carrucola dell’anima

che mi dice del venir meno della nostra vita ,

come traccia del dolore , come stanco salmodiare,

ricordo il libro della Sapienza al quale il maestro 

ci ha addestrato:   Amate la giustizia voi che giudicate la terra

pensate bene del Signore

e cercatelo con la semplicità del cuore,

perché tu sei inginocchiato dietro la mia porta.

Troppo spesso mi chiedo se queste non sono

 idiozie per questo inferno, dove ogni giorno apriamo gli occhi

E tutti con coltelli affilati lacerano chiunque incontrino sulla loro strada!

E’ questo che mi chiedo e non trovo risposta alcuna.

Perché Il Signore, re dei giusti, perché il Santo Spirito che

erudisce non svela gli inganni e non brucia nell’inferno

i traditori della parola di Dio

Piego ogni pensiero  alla mia tristezza, alle mie sconfitte

e tutto il giorno vago confusa tra la ricerca di Dio e le terribili cadute

nella bocca di caino, non potrò salvarmi.

breve e triste è la nostra vita, né il pensiero di Dio può più soccorrermi

si è spenta l’ultima scintilla, il tizzone è rimasto

che brucia e scava. Alla ricerca di un giorno che non c’è più



Canto delle Pie Consorelle del monastero di San Francesco delle Monache



Non c ‘è  un rimedio che ci liberi dal male, lo spirito abbandona i nostri corpi

irrise   vaghiamo come lente farfalle, in cerchio a trovare un punto di gravità,

un lambicco dove la nostra bocca arida possa dissetare i suoi rimorsi

Angeli del Paradiso soccorreteci o il demonio con il mantello rosso ci porterà sul rogo.

Cenere alla cenere, il nostro nome affidiamo al tempo

e il sacrificio delle nostre vite serva a non dimenticare l’ingiustizia che stiamo patendo



Vittoria Colonna

Coraggiosa amica, perché tanta rovina?

Bisogna pur credere al buon Dio

Il mondo non può appartenere solo ai malvagi,

pensa bene del Signore, perché egli si fa trovare

da chi non lo tenta e appare a chi non diffida di lui

i nostri nemici i saranno smentiti dal tempo e pagheranno per i crimini commessi

Caterina Cybo( stizzita)

Intanto è a noi che tocca morire e rinnegare le nostre idee,

i nostri ideali.

Vittoria colonna

Che belli i nostri giorni nel Castello Aragonese di Ischia,

nella cappella  che mi vide sposa felice,

allora tutti speravamo in un vita diversa



Caterina Cybo

Decisi a cambiare il mondo a gridare i principi sacri del Vangelo,

a  leggere insieme  le parole di Matteo. Anche questi sono vaghi ricordi,

 sembra che non ci appartengano, lo sperone della vita

ha inghiottito tutto anche le nostre vite.

Vittoria Colonna

Ricordo con orrore le celle   del Castello di Ischia,

qui c’erano  gli strumenti per torturare i corpi dei condannati,

 li feci serrare a doppia mandata quei luoghi di dolore,

 non così gli inquisitori che ci attendono avidi  e furiosi con i loro artigli.

Coro delle consorelle del Monastero di San Francesco delle Monache:



Si aprono le bocche sdentate, fameliche , ingorde di odio,

nei fumosi comò dell’infanzia, abitati dallo spirito 

soppiantati dai lenti canonici urli di vendetta

Caino, fratello maledetto, uccidesti ed uccidi tuo fratello

Caino dal gelo dell’aldilà hai dilaniato anche l’ultima speranza

Assenti  le lacrime, caino ha ucciso la sorella

ed  ora sorseggia veleno , unico nutrimento al suo corpo deforme

Caino ha ucciso la figlia ed ora incolpa il mondo per l’assassinio

Schegge del fuoco dell’inferno sono in mezzo a noi,

l’inferno è casa prediletta dei demoni.

I soldi e la casa rubarono agli innocenti e accusano

 l’ultimo sacrificato alla loro stamberga mortuaria

Caterina Cybo

Chi può dirgli  dov’è Dio? Chi può insegnargli la strada del bene?

Lo faccia subito, prima che dilanino altri corpi

Caino si dice amico dei Santi , per meglio affondare il coltello

Ipocrita stoltezza, fuggite, non gli credete altrimenti  la schiena è trafitta

Caino uccise anche il padre per togliersi

l’ultimo fastidio, perché tenerlo se vecchio e malato?

Così fece anche della madre accompagnandola per mano

per squartarle il petto e toglierle l’ultimo sospiro.

Poi  partì come se nulla fosse accaduto

ed eccolo di nuovo in mezzo agli uomini

 predicatore di infamie e  lordure

Galeazzo caracciolo

No,  non si può rispondere all’odio con altro odio

E poi la prudenza .., essa è essenziale in questi  tempi difficili,

anche le mura hanno orecchio,

ci spiano ogni nostra parola, ogni nostro respiro viene riferito a Roma.

Valdes

Da  Cuenca , mia terra natia, fui costretto a fuggire, così pure da Roma.

Ovunque costruisca un nido il falco maligno è pronto a distruggerlo e con esso

I miei figli, le mie sorelle, tutti i miei seguaci.

Già da quando ascoltai la santa parola del mio maestro ,

 Pedro Ruiz de Alcaraz, ma anche prima

quando mio zio ,Fernando de Barreda fu bruciato vivo dalla Santa Inquisizione Spagnola,

 e per questo lutto , mia madre si consumò nel dolore,

ebbene da allora mi scorreva nel sangue quella ribellione al male

che tante persecuzione mi arrecò .

Ma non piango per le mie miserie, il mio cuore batte per voi , anime sante,

e soprattutto per te Giulia, mia prediletta.

Perciò prudenza, prudenza ti ordino, non

c’è sbadiglio che non viene riferito, non c’è da sbagliare o finiremo tutti sul rogo.

Anche la grande poetessa, nostra amica e tua parente,

 Vittoria Colonna  è stata sottoposta a processo e seppur

momentaneamente rilasciata ci girano attorno

come sciacalli intorno alle carogne.

Pietro Carnesecchi

La notte quando cerco di affidare i miei occhi al sonno,

le orecchie sentono ancora gli urli di dolore dei miei fratelli, torturati dagli inquisitori,

nell’incubo puntello i miei pensieri e abbraccio i testi della Bibbia,

perché solo da essi  verrà la nostra salvezza.

E’ il legame diretto con Dio che ci salverà

Ed ecco che lontano dalle sale delle feste   donne e uomini  ribelli al papa ed alla chiesa discutono dei vangeli e vogliono che si ritorni alla povertà e alla semplicità degli apostoli  fedeli a Cristo e alla  sua chiesa .In una giornata truce si incontrano  gli  illuminati  Caterina Cybo e Isabella Brisegna e Galeazzo Caracciolo.

Caterina Cybo

Questa  chiesa ha concluso il suo compito è solo covo di arroganza e corruzione

perseguitano noi come eretici e non badano a ciò che succede nei conventi,

negli ordini di certe monache che si fregiano del nome di Francesco, il più grande dei mistici,

il grande santo degli umili, il grande santo dell’amore,  Egli più di tutti noi

seppe avvicinarsi a Dio, mistico dei mistici adoratore dei poveri e dei derelitti,

 adoratore della Misericordia, grande predicatore.

Isabella Brisegna

Vorrei eguagliarlo nella preghiera e nelle opere di bene,

 ma io misera donna cosa posso di fronte al più grande dei Santi?

Madonna Povertà, questa parola è sconosciuta a troppi,

anche  a quelli  che si dicono consacrate al buon Dio

Galeazzo Caracciolo

Il mistico non può infangarsi con chi persegue solo ricchezze

 materiali e abbandona il suo corpo ad ogni devastazione.

E’  meglio morire, è meglio essere arso vivo,

 il  maestro Alcaraz dagli inquisitori di Toledo

 fu condannato a morte dopo immani torture e persecuzioni.

L’accusa fu di essere eresiarco, come se amare Dio sovra ogni cosa

 e identificarsi con La bellezza della sua parola sia un’ offesa al Creatore

Si sentono urli e porte spalancate con violenza, è la Santa Inquisizione che viene ad arrestarli, alcuni riescono a fuggire.
(Brano tratto dall'opera teatrale "All'ombra di un'eresia",opera di Carmen Moscariello, pubblicato dall'Antologia Il convivio 2016.