mercoledì 31 ottobre 2018


Omaggio alla poesia di Corrado Calabrò di Carmen Moscariello

Ho conosciuto per la prima volta la poesia di Corrado Calabrò  nel 1992, quando Giuseppe Cassieri  mi fece dono di due opere, l’una “Rosso D’Alicudi” di Corrado Calabrò e l’altra di Cristina Campo  “”La tigre assenza” a cura di Margherita Pieracci, Harwel Adelphi, Milano 1991. Due opere che ho molto amato e che mi hanno poi portato  a non abbandonare  mai la scrittura dei due poeti.

“Rosso d’Alicudi” con la sua sovra copertina gialla (ormai stropicciata dal tempo) ha impresso al centro della pagina un lieve disegno in linee nere: le onde del mare che sembrano un pentagramma; una vela che per metà svetta verso il cielo e per l’altra metà sotto le onde del mare; qui un pesce solitario e inquieto cerca l’immenso. L’opera fu stampata da Arnoldo Mondadori e ha la preziose prefazione di Carlo Bo. Oggi il libro, che l’attendeva da tempo,  si è arricchito della dedica di  Corrado Calabrò che ho conosciuto il 30/10/2016 personalmente, in quel cenacolo di cultura che Angelo Manitta  organizza ai Giardini Naxos,  qui  confluiscono belle energie da tutto il mondo. Quest’anno per i Manitta è stato strepitoso: hanno pubblicato l’ultima opera di Calabrò “Mare di Luna” (opera che sta avendo grande successo) con postfazione del giovane eccellente critico Giuseppe Manitta e hanno avuto l’onore  di premiare personalmente  (Premio alla carriera) il Poeta.  Nell’analisi critica , presentata al pubblico internazionale, Giuseppe Manitta ha dato altre incisive svolte per comprendere ancor di più la poesia del Nostro.

Ritornando alla mia prima lettura , al  prezioso libro  “Rosso d’Alicudi”, noto che  porta ancora nelle pagine gli appunti, le annotazioni e sottolineature che testimoniano non solo una  vaga lettura, ma un attento studio. Tra le mie note leggo: l’opera è una triade divina formata dall’amore, la donna e il mare; La finalità del canto come una lotta, un impegno preso con la vita;  il poeta non conosce resa, cerca l’amore; sacrifica il poeta sull’altare della nostalgia; la fede, il verso, l’ostinazione. Appunti sparsi e non persi che mi aiutarono e aiutano ancora ad entrare nel profondo e misterioso mare del suo inconscio poetico. Nella pagina successiva alla firma di Carlo Bo,  molti appunti in matita blu (quella che usavano i professori per correggere i compiti degli alunni), ormai sbiaditi, non più recuperabili, si fa riferimenti a Laura e Beatrice e al poeta visto come un cavaliere errante, la spada è sguainata e la vita la vuole vivere con tutte le energie possibili.

Oggi, a questi frammenti, oserei aggiungere un’attenzione da dedicare  a un’altra presenza familiare alla sua poesia:  il vento. Esso nei versi di molte opere,  è maestrale , scirocco, è voce violenta che scompiglia le lenzuola dell’amore, che porta il poeta arroventato  a fremere, vissuto da un’ insonnia perenne. Un’inquietudine, direi, che per quanto avvolta e cauterizzata da quelle onde del mare che si congiungono e slegano con i respiri affannosi del poeta, non trova tregua. Il canto poetico ha polmoni possenti, è Eolo con l’orcio aperto, quasi compagno necessario a una vita vissuta con furore, con energie che esplodono e non conoscono sfinimento. “Oh si, il vento! Il vento che rapido sferza i marosi/ per impedire che si approdi a Delos./ Solo verso sera, sotto costa, /s’acqueta un poco il mare e si distende/ e cede infine palmo a palmo il campo,/ Il vento di mare…. Ah si, il vento! Il vento/ che scompiglia le penne ai gabbiani/ e li fa rannicchiare tremanti/  nelle fenditure degli scogli… / Il vento stormisce nelle sartie/ con stridore assordante./ Sono migliaia di cicale metalliche/ che friniscono insieme…”(Il vento di Myconos  (Nostos) da “Mare di Luna” (Il Convivio) pg,23). Il poeta non si limita a sentirlo nelle ossa e negli occhi il vento “Quale vento stanotte m’ha cercato…  ”ma esso è sempre precursore di nostalgie, di ricordi, di albe da attendere insonne, di momenti sensuali che lo percorrono, lasciandolo rabbrividire;  né il desidero si acquieta e la poesia crea strapiombi “salti “(come dice Manitta), le parole si susseguono fluide, in un éxsperimentalisme  realiste   dove i luoghi, la natura, l’uomo non sono prevedibili. Non possiamo però parlare di un riesame della memoria dei fatti accaduti o solo fantasticati, momenti di erotismo, di compagnie agognate, in realtà il verso vive in una sfrenata contemporaneità. Gli spazi e il tempo, apparentemente confusi, qualche volta sovrapposti, nel ritmo della parola  hanno una predestinazione precisa nel suo begetter, che quasi sempre è la donna desiderata, non parlerei d’amore. Forse l’appunto che scrissi un tempo facendo riferimento a Laura e a Beatrice voleva dire che la figura femminile per Corrado Calabrò è una presenza necessaria, la donna inseguita, agognata; il verso ha  la stessa frenesia degli eroi dell’Orlando Furioso, il ritmo non conosce argini. E, poi, c’è il mare, tema sul quale anche Carlo Di Lieto con la sua bella opera “La donna e il mare” ha posto l’accento. Ma partiamo dal pensiero (che a suo tempo sottolineai) che troviamo anche sulla sovra-copertina di Carlo Bo: “è un mare senza nome , è la voce eterna della nostra esistenza ”Razionalmente, certo, il mare è un rischio/ma io non l’ho mai sentito come tale. Chi si spinge in mare aperto/lascia alle spalle il suo pedestre aplomb/ per galleggiare in stato di abbandono;/ impalati dal dubbio si affonda / ed è d’impiglio, non di salvataggio/ la rete che tesse il raziocini. /Il mare va preso come viene ,/ così, con la sua stessa inconcludenza :/portando verso il petto, a ogni bracciata /un’onda lieve che non si trattiene” (Rosso d’Alicudi pg 66, Lo stesso rischio). Per comprendere questi versi è necessario ricorrere ai percorsi oscuri dell’inconscio: una lettura poco attenta ci farebbe dire che il poeta parli del mare e delle sue caratteristiche, nulla di più errato. I versi svelano l’esistenza stessa di Calabrò; c’è un processo identificativo totale del la vita dell’uomo con quella del mare  e in particolare con quella del Nostro. La parola si fa dura e aspra, non ha niente di aulico, ma la grandezza è proprio in questa grinta realistica nell’affrontare e prendere la vita che lo possiede. Una poesia che dà forza, che è una strada seguita con devozione e fedeltà fin dai suoi vent’anni, un rimedio alla disperazione umana, un luogo dove la frenesia, l’esaltazione, l’eterna dolorosa inquietudine, non si quietano, né  trovano approdo per essere ruminate lentamente, ma il verso è sostanziale alla sua vita, non c’è dualismo tra la poesia e la vita (parlo della vita dell’uomo servitore dello Stato);  non sono da considerare due cose, ma un’unica  forza . La vita, come poesia  è un vortice , un tango passionale e lieve, un urlo, un orgasmo, a volte anche un crepuscolarismo malinconico. (Pubblicato da "Cultura e Prospettive)










lunedì 29 ottobre 2018


“Gli occhi non possono morire”   Di Giuseppe Manitta,  italic Ed.

Guardare il mondo con gli occhi di un poeta.

Giuseppe Manitta  ci ha sempre regalato opere importanti per la Letteratura,  anche la sua poesia è un fortilizio di immagini, un aiuto a riflettere, a rappresentare il mondo, un sobbalzo, un trasalimento . E’ un diaframma ampio che respira le arie di molti cantori, opere ben tessute che navigano verso la modernità sulla grandezza del mondo classico. Eschilo forse gli è maestro. Su questa barca senza timone, che spesso attraversa la lanugine del dolore, si pone, con variopinta ironia, una licenza ardita che  a volte sembrerebbe   una sfida in cui si scorge  un’arsura di gioie, una tensione nevralgica del quotidiano sentire . L’ansia creativa partorisce un verso di perfezione: limato e asciutto che non preclude all’immaginifico. Eppure , come nella sua grandezza di critico è pronto a indagare qualsiasi circostanza, così i suoi versi nascono da una logica attenta  dove confluiscono i silenzi di lunghe e pervasive peregrinazioni. La sua poesia si pone, dunque, in modo rigoroso, ma anche nell’urgenza di voler leggere, di saper leggere, di avanzare gli orizzonti dell’essere: ”le sensazioni, le percezioni giungono a Giuseppe Manitta dal quotidiano, dal mondo che lo circonda. Ma si staccano dal fiume lutulento in cui siamo immersi e che ci trasporta senza posa, vengono a galla e restano in sospensione col preannuncio di una scoperta, di una piccola rivelazione ”[1].Le parole chiare   di Corrado Calabrò  ci immettono subito nelle circostanze della poesia: il desiderio di voler guardare con coraggio fino a che punto la vita ci avvolge e ci svolge e travolge. La sua preghiera laica è un imperativo categorico: “gli occhi non possono morire”. Sembrerebbe che il punto di partenza sia la verità che non può essere né smarrita, né tenuta a distanza, d’altronde chi conosce Giuseppe sa che egli è radicale nelle sue scelte, sa donare, ma anche essere imperturbabile  in quello che scrive e pensa. Nella scialuppa viaggiano così desideri e occhi spalancati quasi dolorosamente sorpresi di quanto il mondo soffra e si dipanano le immagini  in una nebbia che mostra i segni della sua eternità :Tre bambine annegano/i volti sull’asfalto/ e anche la ginestra/ sul ciglio della strada/ne fa violenza./ Vicino in pianura uno sguardo sulla soglia/del vecchio casolare/ e gli occhi si chiudono.  La costruzione del verso  dà vita a una ninna nanna  utile per medicare la violenza che la bimba e la ginestra inermi creature hanno subito, di fronte ad esse la solitudine del vecchio casolare che non guarda, né si cura del dolore. Per Manitta,  che è uno studioso del Leopardi, potremmo pensare agli influssi della poesia del più grande Maestro e,soprattutto, alla centralità del dolore, ma esso appartiene al mondo intero, a tutti coloro che vogliono indagare la vita che amano la vita e  la guardano in modo smagato a costo di farsi del male.

 Gli occhi si potrebbero  chiudere  uccisi dal dolore?

: Il ragazzo /non ascolta/ gli spari alle luminarie/, si tocca il volto/, le gambe il petto/non si riconosce/: sente l’acetilene nelle vene /, le luci dei santi in processione/e le bestemmie del sangue.   Il verso breve, lontano, però, dalle forme fisse, non  blandisce le tecniche della  poesia di Ungaretti: verso breve, verbo che occupa un solo verso, tutt’altro, c’è invece  la ricerca accorta della parola, quella che sa parlare alle menti e ai cuori. Quasi sempre fulminee,  improvvise  esse  accecano  e scuotono: il tedio trova vigore nella  parola che costruisce immagini. Il percorso della scrittura conferisce allo scritto un’autonomia che gli permetterebbe di vivere anche da solo ed avrebbe un senso,  qui si percepisce per intero che cosa gli occhi, che non possono morire, soffrano  per il senso della distruzione di tutti i desideri, di tutte le passioni, per la morte dell’amore. “Il modo cui egli ricorre felicemente è quello di accensioni improvvise : l’ossimoro lo aiuta spesso a trovare un’espressione inedita. Manitta giunge così a trasformare le sue occasioni in immagini originali e tuttavia leggibili dall’altro da sé. Sono immagini, sono espressioni nuove, confinate in genere in uno/due versi; il che evita sbavature al verso, fino alla scarnificazione” [2]. Le notevoli presenze, le immagini di cui ci parla Calabrò,  sono riprese dalla cinepresa del poeta  lentamente, anch’esse come il verso devono avere vita dalla perfezione delle icone scelte e proposte, questa lentezza non  preclude poi il fulgore, quasi  una  freccia rossa che deve colpire il lettore, avendo come epilogo una  ineluttabile presa di coscienza radicale di quello che siamo o di quello che siamo diventati . “Le immagini di Manitta noi le vediamo, le scopriamo, le facciamo nostre”[3]





[1] Dalla prefazione al libro di Corrado Calabrò
[2] idem
[3] Idem

giovedì 25 ottobre 2018


“Lettera a un giudice”  Racconto fantastico sulla corruzione di Paolo Saggese



Rilettura delll’opera di Carmen Moscariello

Talora alle foci solitarie dei piccoli fiumi è una greggia che splende come una ghiaia ; e io guardo verso le montagne dove forse un’altra greggia sabbevera alle sorgenti solitarie. Un ampio greto discendendo dalle montagne è simile a un cammino di migrazione abbandonato, simile al tratturo dei miei padri sterilito. E odo dentro di me camminare i pastori defunti e i grandi armenti morti

Chi può dire dove tramonta il sole?

E le ombre occupano la luce, lacerano la coscienza e il greto è sterile, le acque stagnanti sono fetide.

Che cos’ è un atto di ingiustizia? Fino a qual punto può divenire incubo e, soprattutto, se cade per sempre la fiducia nella giustizia,che sarà del mondo? Esso stesso  finirà in uno sterile fosso?

Il romanzo di Paolo Saggese ci mette di fronte a queste problematiche e il suo stile è volutamente calmo, senza rabbia; lo sfogliare di sacrifici non gridati, posti lì ironicamente, quasi egli stesso intenerito per il suo  credere nel giusto fine: se il suo comportamento è giusto, onesto, vigoroso, etico, nessun potrà negargli ciò che di diritto gli spetta.

Alcuni scrittori, poeti, “I giusti” (per fortuna ce ne sono anche tra gli stessi giudici che mettono a repentaglio la propria vita, perché la legge sia rispettata ) guidano sicuri la loro esistenza  verso la strada della giustizia, dell’onestà, convinti che non ne esista altra , scelta se non  la distruzione di se stessi. Ma, il piccolo fiume essenziale al gregge per abbeverarsi, diviene spesso tomba per i pastori e il povero gregge muore. Senza la giustizia, prevalgono i furbi, i raccomandati buoni a nulla, tutta una società malata e confusa che non ricorda neanche la strada del bene e reputa l’uomo onesto un povero stupido da frodare.

E’ un’opera in nero questo romanzo, mette molta tristezza, poiché ognuno di noi potrebbe facilmente ritrovarsi o già si è più volte ritrovato  negli accadimenti raccontati. Così “l’avventura di un povero cristiano” che non vive per niente nel migliore dei mondi possibili , grida giustizia, vuole giustizia.

Spesso si crede che la giustizia sia data solo dalle leggi, ma ci sono troppi lestofanti che piegano la giustizia e le sue leggi  ai loro  loschi interessi, si perde di vista la finalità globale alla quale la legge tende,i cavilli confondono, bloccano, favoriscono chi non va favorito,  bisognerebbe vigilare  e formare l’uomo anche sull’etica, senza morale il mondo è destinato ad estinguersi.

Degli ingenui? Degli eroi? Dei poveri cristi? I furbi opterebbero sicuri per l’ultimo giudizio .

Ma i Poveri Cristi a volte hanno poteri incredibili, quelli che nascono dalla libertà del proprio pensiero, dal rispetto delle regole sociali, dalla convinzione che lavorando bene ci si debba aspettare  giustizia.

Questa sconosciuta? L’opera ci pone dolorosamente di fronte a questo interrogativo. Paolo Saggese, si aggrappa in preludio di ogni capitolo ai suoi amici scrittori-onesti come lui, con le loro parole poste a capoverso, quasi a chiedere conforto per meglio capire. Dove ho sbagliato?

L’autore parla di un concorso (non ben precisato, ma si comprende) al quale il personaggio principale si prepara, non chiede raccomandazioni, lavora, studia, trascurando ogni altro aspetto di vita, per mesi si impegna, notti insonni, non trascura nessun particolare. A nulla vale il suo impegno: è scartato. L’opera in nero  di come va il mondo, lo rifiuta, non sa che farsene di un uomo onesto e preparato. Quest’opera apparentemente, anzi volutamente leggera, ma l’ansia l’attraversa in ogni parola, seppur  ben filtrata, quasi a non voler battere troppo forte su ciò che è successo, ma più il tono è “vago”, più il lettore si torce nella rabbia, nel dolore per l’ingiustizia subita. 

Chiude il Castello Miramare

Chiude il Castello Miramare
Un assordante silenzio
Chiude il meraviglioso Castello  Miramare reso tale dalla Famiglia Celletti- D'Andrea. Tutto si è mosso in un silenzio assordante, il colpo è arrivato forte e improvviso. Il simbolo dell'anticamorra, dell'onestà, del culto nel ricevere che nel tempo ha ricevuto infinite benemerenze istituzionale, chiude  senza che nessuno dica "mi dispiace!". Formia è stata depauperata di una delle sue perle: come se fosse facile ricostruire un tale tesoro. Nemmeno per l'eletto personale,(quanto è costato alla Cavaliera Carla Celletti  formarlo?) non c'è stata una sola voce dei potenti che si sia levata per dire "cosa state facendo?" . Il Castello Miramare di Formia non è un fatto della famiglia Celletti, ma è una tragedia per tutti. Quel po' che era rimasto in bellezza e armonia ora si distrugge anch'esso. Carmen Moscariello




















sabato 20 ottobre 2018

Il contrario della paura












“Il contrario della paura”

“Perché terrorismo islamico e Mafia possono essere sconfitti”

di Franco Roberti, Mondadori.

Rilettura  dell’opera di Carmen Moscariello

“La società civile  è vista dalle mafie come una perfetta mammella da mungere”.[1]

                  

Un’opera in cui con maestria  l’autore traccia un percorso di vita al servizio dello Stato e nell’impegno della  lotta alla mafia. Roberti saggiamente realizza un rapporto intenso e costruttivo con il lettore, soddisfacendo le sue attese e indirizzandolo  verso la strada del coraggio e del bene sociale. L’irrequietezza cronologica alla quale assistiamo nel testo è dovuta a quest' urgenza. L’azione si svolge in vari luoghi del nostro Paese; ne prevalgono due: Sant’Angelo dei Lombardi con il terribile terremoto dell’ottanta e l’amata Napoli con la sua Storia da Vico, a Croce, a Masullo, senza dimenticare i lati oscuri e malati della città- amata. Un principio caratteristico dell’opera è il profondo senso del dovere, il rispetto della legge e dell’uomo. Franco  Roberti non si scaglia mai con veemenza contro la mafia, ma procede come se dovesse scalare un fortilizio, mattone dopo mattone, fino alla cima per annientarla e costringerla a non nuocere più. Un capitano (come l’ha giustamente definito Pierpaolo Filippelli).[2] che guida i suoi uomini verso un obiettivo chiaro, lo fa senza ombre, sempre nel vigile rispetto della Costituzione e delle leggi che regolano la vita civile del Paese. L’impulso che l’autore imprime all’opera è costante e determinato. Le sue strade sono ben delineate, il pericolo è  tenuto d’acconto, soprattutto per i suoi collaboratori che per lui nutrono rispetto e amore. Alla mano spietata della mafia contrappone l’ordine, il rispetto della vita umana: il carnefice deve cadere senza dispersione di sangue. Un peso determinante  lo occupano i fatti, non ci sono sbavature, tutto emerge chiaro, è il  racconto di una realtà dolorosa dove non ci si affida al buon Dio, ma alle leggi. Il movimento del vero si allarga nella pagina diviene mosaico costruito con pazienza, tassello dopo tassello; la memoir è la regina incontrastata, essa è referente di vita, ci invita a una lettura razionale, dove ogni parola è ben soppesata. Un palinsesto dove non ci sono défaillance, vaghi aneliti, sbavature, inutili sospiri o  attese ritardate. La realtà è amara, va affrontata subito; il male sradicato; la corruzione uccisa; mollare è pari alla morte.

L’invito a non cedere alla paura emerge da ogni parola,  da ogni capitolo. Il libro non ha niente di autoreferenziale, tanto che possiamo affermare che è limitativo definirlo  un’opera autobiografica, quello che è scritto ha per protagonista il coraggio di una squadra chiamata a fare il proprio dovere e il ruolo di Roberti è  di vigilare, guidarla, battere il pugno dove sia necessario. Rivelando che le crepe che si sono aperte nel nostro paese sono le stesse crepe dei muri che il terremoto produsse a Sant’Angelo dei Lombardi che fecero crollare le case dalle pareti di “marzapane”,  che uccisero migliaia di esseri umani inermi. Per questa tragedia Franco Roberti istruì un processo, con rammarico ci ricorda che furono tutti assolti.( Per me, da irpina, qual sono e resto, alla quale il terremoto tolse la casa e ogni bene,  la lettura di queste pagine ha riaperto una ferita dolorosissima).

“C’è stato un momento esatto della mia vita in cui, per la prima volta, ho cominciato a capire cosa significasse la parola mafia. Era domenica. Ed erano le 19,32 del 23 novembre del 1980. Il terremoto dell’Irpinia, uno dei più terribili e violenti dell’ultimo mezzo secolo. Da poco più di un anno ricoprivo la carica di giudice a Sant’ Angelo Dei Lombardi, un piccolo paese in provincia di Avellino, che da quel giorno ,inevitabilmente, è diventato un pezzo della mia vita.…… Arrivai a Sant’Angelo dei Lombardi la mattina del 25 novembre, a bordo della mia auto, in compagnia di mio cognato. Vidi quello che in quei giorni avevo sentito raccontate alla televisione, alla radio, sui giornali. Ma era molto di più, incomparabilmente di più di quanto era possibile soltanto immaginare: enormi crateri nel terreno avevano sconvolto il paesaggio circostante, la distruzione regnava ovunque, i militari dell’esercito erano giunti da poco sul luogo del disastro. Sant’Angelo era un cumolo di macerie sotto un cielo livido….. Convocai subito i verti ci della polizia giudiziaria. Qualche tecnico di cui sapevo potermi fidare. Cominciammo a fare qualche domanda. Mi dissero subito che il cemento che era servito a realizzare quei palazzi ,i costruttori l’avevano acquistato da Nuvoletta, una delle più importati famiglie camorristiche della zona. …. E che quel cemento fosse scadente, magari allungato con l’acqua… mi ricordo che, dopo pochi mesi dal sisma del 1980,arrestai per peculato il sindaco di Guardia dei lombardi. Poi ci furono altri arresti.  … Una domanda però continuava a rimbombarmi nella testa, senza tregua. Logorandomi. Perché i palazzi nuovi di Sant’Angelo si erano sbriciolati  come fossero stati di marzapane?.... Facemmo perizie accurate ,rinviammo a giudizio numerosi costruttori e pubblici amministratori perché avevano realizzato edifici che violavano la normativa antisismica…… Alla fine furono assolti.[3]  Un fatto che non doveva più accadere e che invece abbiamo visto ripetersi, con la medesima violenza,  durante il terremoto che ha distrutto l’Aquila, con altre morti, giovani morti. Sembra ritrovare nel testo la pragmatica delle comunicazioni di Bateson e la filosofia del linguaggio di Russell.  L’opera ha finalità etiche altissime, va letta e commentata nelle scuole soprattutto per educare le coscienze a qualcosa che la didattica moderna non tiene bene in conto: si può essere coraggiosi, si può divenire coraggiosi, si può educare al coraggio, parlare finalmente a testa alta di mafia, senza l’untuosa patina della compromissione. Emerge dall’opera  la forte condanna della corruzione e di come, a volte, uomini indegni  occupino, per nostra disgrazia,  ruoli che non gli competono e di come le mafie, oggi più che mai, siano  decise ad entrare  senza intermediari nelle amministrazioni dello Stato. Certe indagini di uomini eletti, (nel senso di egregi) hanno spesso messo in luce proprio questo delirio di onnipotenza, ad esse  non  basta più il denaro proveniente dalla spaccio di droga e dalle estorsioni, vogliono essere  dove si decidono gli appalti. Roberti, inoltre, sottolinea senza ombra di dubbio che l’indagine aperta da Giuseppe Pignatone  è un’indagine di mafia e che i reati  contestati sono reati di mafia, più esattamente ci dice: Veniamo a mafia capitale: qui intorno all’amministrazione della capitale d’Italia, si è creato un gruppo eterogeneo, fatto di criminali di strada, amministratori pubblici, imprenditori, che si è sostituito di fatto allo Stato. E ha deciso chi e come doveva governare la città Com’è stato possibile? “Proprio grazie a quella carica intimidatoria decisamente orientata al condizionamento della libertà di iniziativa dei soggetti imprenditoriali concorrenti nelle pubbliche gare” come dice la Cassazione. Mi spiego: tutti sapevano che dietro alcune aziende c’erano pericolosi pregiudicati. E tutti ne avevano paura. Quindi non partecipavano ai bandi, o rispettavano “quelle regole” , scrive sempre la Cassazione, la cui apparente imperatività è stata resa possibile solo grazie all’accumolo di una forza criminale ben conosciuta e temuta nella realtà sociale” Anche perché i mafiosi romani erano conosciuti anche dagli altri esponenti criminali, con i quali trattavano alla pari e decidevano come spartirsi il potere nella città. Tuttavia “Il nome”- e di conseguenza la paura che suscitava- non era l’unica arma utilizzata. La seconda, precisa spietata, più di un fucile da cecchino ad alta precisione, è sempre stata la mazzetta. …. Gli obiettivi erano intuibili : ottenere tramite la corruzione favori dai pubblici funzionarie, attraverso la continua violazione del patto di fedeltà da parte di un uomo delle istituzioni, determinare inevitabilmente ”la generale sfiducia della collettività nella imparzialità delle scelte compiute dagli organi amministrativi”[4] Più chiaramente ci ha spiegato e fatto ben capire questo libro il Professor Aldo Masullo  che lo ha presentato a Napoli  con altre illustre personalità.[i]   Ha esordito, partendo   da  un principio cardine del Suo Pensiero, quello della libertà: ”noi perseguiamo la libertà”,  ha sottolineato come questa categoria  appartenga  anche a  Franco Roberti e come queste pagine non siano di facile lettura. Egli precisa che nel nocciolo del discorso del nostro autore si affiancano due cose: terrorismo e mafia. Perché si possa vincere o resistere,  bisogna rompere la loro coesione.  Esse sono la  rappresentazione di come l’Italia  sia apparsa a costoro come  una  perfetta mammella da mungere. La società civile è diventata così  una mammella che la mafia munge. Aggiunge che  il livello di complessità a cui sono arrivate le cose è preoccupante. Si può meglio capire il fenomeno partendo da lontano, dagli anni 60, quando si  decise il finanziamento dei partiti con denaro pubblico. Da allora ebbe origine anche l’indebitamento del nostro Paese  e, cosa non meno terribile,  la corruzione. L’industria di stato dovendo pagare i partiti  portò all’alterazione dei mercati e a quell’indebitamento di cui siamo tutti vittime.  Il grande Filosofo precisa che cominciò così l’ incesto tra politica ed economia che favorì il prodursi di una serie di passività, a questo  corrisponde  un  processo di decadimento  istituzionale. La moltiplicazione dei centri di spese  contribuì a determinare il gravissimo debito pubblico. Continua l’Emerito Professore dall’altro canto, subito dopo la guerra, la criminalità si dedicò al contrabbando organizzato, un’enorme forza contro lo Stato . La quiescenza della Stato e dei cittadini contro questo crimine si manifestò in  un contorcimento sentimentale e morale,   diede luogo a processi solidali tra istituzioni, cittadini e criminalità. La tolleranza di certi comportamenti criminali, fece si che essi non fossero schiacciati fin dall’inizio. Tolleranza significò non punire, ed ecco perché andiamo, per le stesse cause di allora, incontro allo sfacelo e ci troviamo di fronte a un nemico esteso, così tremendo.  La tesi fondamentale è ,dunque, che    non riusciremo a resistere al terrorismo se per prima non riusciamo a combattere i difetti  interni. Infine, l’invito del Filosofo al pubblico e al popolo è di prendere coscienza di ciò che ci stanno preparando  e lottare, prima di ogni cosa, contro la corruzione. Il libro di  Franco Roberti  sembra che all’unisono con il grande Maestro metta il dito nella piaga, con dolore parla  di interventi necessari a Casal Di Principe,  per esempio, dove c’è oggi un buon sindaco con buoni amministratori, a dimostrazione che si può cambiare, qui, ora, finalmente, sarebbe necessario anche l’aiuto dello Stato per non naufragare di nuovo. Migliorare la situazione umana delle città attaccate da questo cancro è un dovere, come è preminente  favorire lo sviluppo di buone scuole, affinché i giovani non prendano strade pericolose, apparentemente agevoli.  Non a caso il convegno, voluto ed egregiamente organizzato  dall’Assessore alla Cultura Nino Daniele, si è  tenuto a Napoli nell’Istituto di Studi Filosofici, nei luoghi della  rivoluzione napoletana del 1799, nelle splendide sale del Palazzo Serra di Cassano  che  fu protagonista con Gennaro Serra di Cassano (giustiziato) della prima grande rivoluzione che affermò e  difese  il diritto dell’uomo alla libertà e all’autodeterminazione (Repubblica Napoletana). Emerge chiaro che  se Franco Roberti ha scritto questo libro, non è solo per far conoscere i danni che le mafie hanno provocato e provocano ai nostri territori, alle persone e all’economia  o per raccontarci ciò  che egli  ha fatto contro la mafia per distruggerla , ma piuttosto per coinvolgerci tutti, l’intera Nazione, giovani e meno giovani nel farci comprendere  quale pericolo tuttora  essa rappresenti e che la lotta e il sacrificio di pochi non bastano per annientarla: le parole di questo libro sono di fuoco, invitano il popolo tutto a ribellarsi a lottare contro di essa a isolarla nella sua melma. Il nocciolo per noi è il grido di dolore, seppur stemperato da una calma feroce dell’autore, nel richiamare il popolo intero a dire basta a un fenomeno che può annientare il Paese moralmente ed economicamente. In verità, mentre vicini ad Aldo Masullo ascoltavamo le Sue analisi, per niente stemperate, nonostante il Suo ’est modus in rebus” che è il vestito d’organza  del  grande Relatore, esse ci giungevano giusto al petto , come cannonate. Mentre Lo ascoltavamo,   abbiamo pensato in contemporanea a un altro grande della storia a Papa Wojtyla, alle parole che leggemmo sul Corriere della sera, poco dopo l’assassinio dei Martiri  Falcone e Borsellino, anche allora nella Valle dei Templi risuonarono parole forti che avrebbero dovuto cambiare le nostre coscienze :  “Non abbiate paura” urlò il Papa (sembra che il libro  “Il contrario della paura”, faccia eco al grande Papa) «Lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio». (Parole pronunziate contra la mafia ad Agrigento, il 9 maggio del 1993).
 Questo invito ce lo ripropone Roberti con pari energia ne ”Il contrario della paura” con l’inchiostro del coraggio di chi ha messo la propria vita al servizio dello Stato.  Con questo suo lavoro vuole scendere tra la gente  e chiedere a tutti il massimo della collaborazione, pochi uomini coraggiosi possono fare molto, ma ancora di più possono realizzare, se noi gli stiamo accanto, li sosteniamo, anche noi col nostro coraggio.  Quella “cappa”[5] che si forma in tutti i luoghi in cui si sono annidati i mafiosi, è morte, è incapacità di sentirsi liberi. La schiera di accoliti, povera gente e  potenti di turno,  che appoggiano la mafia   ha gravi responsabilità. Ricordo le parole di un altro grade Magistrato dell’antimafia Federico Cafiero De Raho, parole che ascoltai nelle sale del vecchio tribunale di Porta Capuana , qualche mese prima di essere trasferito in Calabria,  alla presenza della ministra, disse che anche l’appoggio esterno alle mafie  va punito con la galera, con molti  anni di carcere. E, ancora, l’ ”Urlo” [6] di  Papa Wojtyła, così poco riproposto oggi  dai potenti mezzi di comunicazione rimane inequivocabile: «Questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane devono capire, devono capire che non è permesso uccidere gli innocenti. Dio ha detto “Non uccidere”. L’ uomo, qualsiasi umana agglomerazione o la mafia, non possono cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Questo popolo siciliano talmente attaccato alla vita, un popolo che ama la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà della morte. Lo dico ai responsabili. Convertitevi». “La civiltà  della morte” ha preso piede nel mondo intero. Assistiamo alla strage degli innocenti che ogni giorno coinvolge popoli interi nel dolore. Sulle spalle di Franco Roberti non c’è solo la mafia,  egli non è “solo” il Procuratore Nazionale Antimafia, alla sua persona, alla sua luminosa intelligenza è stata affidata anche la lotta al terrorismo. Alla luce di ciò dobbiamo credere nel  dialogo e al valore della cultura, in quanto  è  urgente rieducare l’uomo. Ci sono  popoli interi che vanno  ripensati e ricostruiti. C’è l’urgenza di un rinnovamento della politica, orientandola sempre di più alla ricerca del bene comune  e non già gestita, come le cronache ci raccontano,  da persone che hanno come unico obiettivo il proprio tornaconto, senza parlare della corruzione e della commistione con le mafie, vera rovina dei territori, annientamento anche di città bellissime dove  il cancro si estende,  silente mette radice per poi annientare. (Testo tratto da cultura e prospettive)


[1] Aldo Masullo al convegno tenutosi a Napoli il 29 giugno per la presentazione del libro di Franco Roberti “Il contrario della paura”.
[2] Pierpaolo Filippelli, giovane e coraggioso  magistrato ha fatto parte della squadra guidata da Franco Roberti. Oggi, dopo aver lavorato a lungo come magistrato nella DDA di Napoli ,è Procuratore aggiunto di Torre Annunziata.
[3] Pgg. 52,53,54,55  (Paragrafo: ”Quando il terremoto diventa business”, Op. Ct.
[4] Pg 129-130, “Il contrario della paura”.
[5] Paragrafo: “La cappa”, pg.61, Op.Ct.
[6] Munch, “L’Urlo”




venerdì 19 ottobre 2018

Annuale congresso Biogem ad Ariano Irpino, ospite onorato Aldo Masullo









 Io sono profondamente grato all’amico Ortensio. Egli mi ha espresso gratitudine per il dono della mia adesione al suo invito. In realtà il dono lo fa lui a me, convocando tanti autorevoli amici ad ascoltare le mie semplici parole. Confesso che fa un effetto curioso sentir parlare di sé, come se si fosse un altro. Di quest’altro me Ortensio ha parlato generosamente; ed io, l’io che sono, l’io che ha con emozione ascoltato, lo ringrazia e ringrazia tutti voi. Non mi resta ora che far cenno a qualche momento della mia vita intellettuale, che in un certo modo risponde alla domanda di Ortensio.

Proprio nella presente sessione dello straordinario convegno annuale di Biogem si è posta ancora una volta, ma con una speciale sensibilità, la vexata quaestio del rapporto tra i saperi, o più precisamente tra i saperi cosiddetti scientifici e i saperi cosiddetti umanistici. Debbo confessare. L’ispirazione riformatrice, che più tenacemente mi ha accompagnato nella mia azione accademica, è stata l’affermazione dell’unità della cultura come criterio organizzativo del lavoro universitario. Purtroppo in questo campo ho avuto solo scacchi.   

A  proposito delle lotte politiche per l’università, debbo dire che l’amicizia tra Ortensio e me non è nata in un caffè o in un salotto mondano, ma nelle aule del Senato. Per dare determinatezza biografica al mio discorso, ricordo che in alcuni intensi anni della nostra storia politica Ortensio è stato il Ministro dell’Università mentre io mi trovavo a far parte della Commissione senatoriale della Pubblica Istruzione. Perciò lui ed io abbiamo avuto non poche occasioni d’incontro nel vivo di una incisiva trasformazione dell’istruzione superiore, sui cui problemi confrontavamo, sempre utilmente, i nostri punti di vista. In Ortensio si coglieva, allora come oggi, quel senso della vita profondo e insieme concreto, che a molti accademici e ancor più a molti politici manca.

Ora qui, alludendosi alla difficile domanda sull’unità della cultura, il termine “cultura” è ancora una volta entrato in gioco. Ortensio ha rievocato la risposta crociana. Raramente però si ricorda che il termine deriva dal verbo latino colo, colere, che significa coltivare. Banalmente si dice che gl’insegnanti coltivano i ragazzi. Ma anche i contadini coltivano: per esempio, cavoli o patate! In verità “coltivare”, colere, prima che coltivare significa avere cura, avere a cuore. Il contadino coltiva in quanto ha a cuore la sua terra, dalla cui fecondità dipende la sua vita. Il vero insegnante ha a cuore la vita mentale dell’allievo. Essenzialmente, coltivare è avere cura.

Degl’intellettuali Ortensio ha criticato la colpevole indifferenza. Essi, per dirla con il celebre titolo del pamphlet di Julien Benda, “tradiscono”. Nel loro altisonante parlare, spesso di minuzie e frivolezze, non sempre si curano della serietà della vita.

Soltanto l’avere a cuore, che è la cura dell’umanità di ogni uomo, può salvarci tutti. Oggi invece cresce il disimpegno. Nel nostro tempo ci si agita molto, si scatenano ostilità, si urlano invettive. Manca la passione della relazione entro cui gl’individui si riconoscono e cooperano. Ben pochi hanno veramente a cuore la vita, la quale sempre più viene vissuta come un fugace scorrere d’immagini. La società è sempre meno presenza del pubblico, sempre più spettacolo pubblicitario. Nelle comunicazioni di massa si ostentano luccicori di felicità per propagandare prodotti di lusso, mendacemente e per profitto, certo non per amore della vita autentica, per far venire in ognuno alla luce il desiderio della cura di sé.

Per proseguire il discorso sul rapporto tra le due culture comincerò da una pagina del bel libro, Il cosmo della mente, opera in solido del fisico Antonio Ereditato e del biologo Edoardo Boncinelli. Vi si legge: «Il cervello umano è l’unico oggetto dell’universo che si può studiare sia da dentro che da fuori».

Tutti capiamo cosa voglia dire che il cervello si può studiare da fuori: lo studiano così l’anatomico, che apre il cervello come un’arancia e ne esamina la struttura, e il neurologo che ne saggia sperimentalmente le connessioni funzionali di neuroni e sinapsi. Il cervello viene osservato come una cosa spaziale che cambia nel tempo.

Ma cosa vuol dire studiarlo dal di dentro? Nessuno potrebbe negare che qualcosa avviene in lui, nel suo cervello, quando per esempio si rende conto di provare insopprimibile fastidio per un seccatore oppure straordinario piacere per l’interesse intellettuale di una ricerca scientifica in corso. Però in questi casi il dato della mia esperienza non è la cosa cervello che mi sta davanti mentre la esamino, bensì lo stato d’animo che provo. Mentre la cosa cervello può essere vista ed esaminata, come da me, da qualsiasi altra persona, il mio stato d’animo invece lo provo io, e nessun altro può provarlo.

E’ evidente che, quando si parla di cervello, il da fuori e il di dentro non sono il da fuori e il di dentro di una scatola. Innanzitutto, già come cosa materiale, il cervello non è una scatola, ma un polipaio di miliardi di cellule vive, connesse per scambiarsi informazioni. Ma poi, come gli stessi Boncinelli ed Ereditato precisano, nel linguaggio naturalistico si usa “cervello” come sinonimo di “mente”, dunque sensazioni, emozioni, pensieri, tutte cose, il cui essere è, per così dire, privatissimo. La realtà di una sensazione è il suo essere avvertita da me, come di un’emozione il suo essere provata da me, e di un concetto il suo essere concepito da me. Questo è il di dentro del mio cervello. Di esso può parlare solo il mio stesso cervello e nessun altro.

Insomma il cervello di cui si parla è una cosa del vivente. Il cervello di cui parlo io, ed io soltanto posso parlare, cioè il mio cervello, non è una cosa ma un movimentarsi di vissuti.

Ben noto è il termine tedesco erleben. Con esso, mediante la proclitica intensiva er-,  il vivere in senso forte, il vivere di cui si ha senso, appropriata coscienza, viene distinto dal leben, dal vivere meramente fisico. Da erleben deriva il sostantivo Erlebnis. Con esso s’intende nel parlare comune un’esperienza. Ma così ne va perso il significato più proprio. L’esperire, come il divenire empeiros dei Greci o l’experiri dei Romani (la radice per- segnala il moto di attraversamento), è il percorso mentale per capire a fondo un evento che ci ha coinvolti. Il passo dell’esperienza è la mossa del naufrago dantesco, il quale, “uscito fuor del pelago a la riva, / si volge a l’acqua perigliosa e guata”. La pienezza della coscienza di ciò che ci è capitato è sempre postuma. In altri termini, immediato è il vissuto, l’Erlebnis, mentre temporalmente e logicamente mediata è l’esperienza, la Erfahrung. Ogni episodio della nostra vita è la storia di una coscienza, maturata insieme con la sua storia.  Qui sta la specificità dell’umano, la sua differenza da ogni altra forma di vita animata. Riconoscere ciò non è un’offesa al mio caro cane, o al gatto, o a qualsiasi altro vivente non umano, per la semplice ragione che io non sono mai stato cane, gatto o altro animale, e non ho vissuto ossia non ho conosciuto dall’interno la loro vita. Quindi non posso dirne nulla.

L’umano è possibile oggetto di scienza in quanto vivente e non altro. Il vissuto invece non è oggetto: esso è, per così dire, la soggettività stessa della vita nel suo viversi, nel suo sapersi mentre vive.

Se si tiene fermo questo punto di vista, s’intende facilmente l’unità della cultura, pur nella varietà dei suoi sempre nuovi momenti e delle sue innumerevoli forme.  Essa è “cura”,   l’ “avere a cuore”, cioè l’attività mentale nella sua massima maturità evolutiva. E’ l’attuale culmine della vita irresistibilmente impegnata a trattare di sé. Tutto ciò potrebbe anche dirsi “spirito”, in un significato però che non ha nulla a che vedere con le ontologie spiritualistiche e, tanto meno, con le fantasticherie spiritistiche, e richiama semmai l’idea hegeliana del Geist, che è la storia della coscienza nel suo continuo attualizzarsi.

Certamente, per quel che ci risulta, non c’è attività mentale senza cervello. Tuttavia l’attività mentale non è il cervello (infatti per amara celia si può ammettere che ci sono anche cervelli che non pensano!). Così la digestione non è lo stomaco, la visione non è l’occhio, né alcuna funzione è l’organo che la rende possibile.

Scienza è costruzione di un qualche sapere delle cose dall’esterno, dal loro darsi alla osservazione dell’uomo. Umanesimo invece è costruzione di sapere dall’interno, il porre attenzione e cura al sentire, al provare, al pensare dell’uomo. Scienza è il calcolare le cose che si presentano alla osservazione, da fuori. Umanesimo è l’avventurarsi nel labirinto del vissuto, ad incontrare le rappresentazioni mentali delle cose, da dentro.

Il cervello è un essere ambiguo. E’ una macchina naturale, e come tale è osservabile dall’esterno, scientificamente. Ma è anche la macchina, grazie ai cui calcoli c’è coscienza ed io so di essere, così come ogni uomo sa di sé. E’ per il lavoro di questa macchina che, per quanto le diverse coscienze personali siano l’un l’altra irriducibili, noi siamo capaci di costruire sistemi con cui comunicare tra viventi umani.

Così, se scientifico è occuparsi del cervello dell’uomo, umanistico è occuparsi dell’uomo del cervello. Il cervello oggetto di scienza è una cosa che ci sta davanti, sotto i nostri occhi, in ogni modo fuori, in un luogo dello spazio, esterno a quello occupato dal corpo dell’osservatore. Ben diversamente, l’umanista è interessato al cervello come mente: egli infatti esplora l’anima, riattraversa cioè sensazioni, emozioni, pensieri vissuti. Chi può far questo, se non l’uomo stesso, non un qualsiasi uomo, ma l’unico, irripetibile uomo che quelle sensazioni e quelle emozioni ha provate, e quei pensieri ha concepiti, insomma dal di dentro? Mentre i saperi scientifici sono osservazioni, calcoli, inferenze, i saperi umanistici sono miti, arti, meditazioni. Comunque gli uni, dal di fuori, e gli altri, dal di dentro, sono saperi con cui l’uomo non cessa mai di occuparsi di sé: l’intero cosmo infatti è la rappresentazione umana di ciò che esiste, è appunto “il cosmo della mente”.

In conclusione, molti e assai vari sono i saperi, ma la cultura è una, perché uno è ciò, di cui da fuori o da dentro tutti i saperi si occupano, hanno cura.

La cosiddetta intelligenza artificiale, emulando tecnicamente il cervello naturale nel suo ruolo di central processing unit, governa anch’essa pezzi complessi di funzionanti esistenze e addirittura impara a produrne di nuovi. Ma il suo rapporto con i suoi stessi prodotti è un esclusivo di fuori. Ben altrimenti, quando il severo scienziato, applicandosi ad un pezzo di esistente, lo osserva da di fuori, nel suo gesto non c’è soltanto il di fuori della cosa. C’è primariamente l’interesse intellettuale che spinge: la passione del conoscere, il gusto di comprendere. C’è insomma la coscienza nell’incessante attualizzarsi della sua storia, la vita che dal di dentro si sa.

E’ evidente che, se l’osservazione è dal di fuori, il sapere sempre trascende il semplice operare sulla cosa. Esso prende forma solo dal di dentro di una vita vissuta. Così anche il sapere scientifico si ritrova attivo umanesimo.

Grazie!



Aldo Masullo