Omaggio alla poesia di Corrado Calabrò di Carmen Moscariello
Ho conosciuto per la prima volta la poesia di Corrado
Calabrò nel 1992, quando Giuseppe
Cassieri mi fece dono di due opere,
l’una “Rosso D’Alicudi” di Corrado Calabrò e l’altra di Cristina Campo “”La tigre assenza” a cura di Margherita
Pieracci, Harwel Adelphi, Milano 1991. Due opere che ho molto amato e che mi
hanno poi portato a non abbandonare mai la scrittura dei due poeti.
“Rosso d’Alicudi” con la sua sovra copertina gialla (ormai
stropicciata dal tempo) ha impresso al centro della pagina un lieve disegno in
linee nere: le onde del mare che sembrano un pentagramma; una vela che per metà
svetta verso il cielo e per l’altra metà sotto le onde del mare; qui un pesce
solitario e inquieto cerca l’immenso. L’opera fu stampata da Arnoldo Mondadori
e ha la preziose prefazione di Carlo Bo. Oggi il libro, che l’attendeva da
tempo, si è arricchito della dedica di Corrado Calabrò che ho conosciuto il
30/10/2016 personalmente, in quel cenacolo di cultura che Angelo Manitta organizza ai Giardini Naxos, qui confluiscono belle energie da tutto il mondo. Quest’anno
per i Manitta è stato strepitoso: hanno pubblicato l’ultima opera di Calabrò
“Mare di Luna” (opera che sta avendo grande successo) con postfazione del
giovane eccellente critico Giuseppe Manitta e hanno avuto l’onore di premiare personalmente (Premio alla carriera) il Poeta. Nell’analisi critica , presentata al pubblico
internazionale, Giuseppe Manitta ha dato altre incisive svolte per comprendere
ancor di più la poesia del Nostro.
Ritornando alla mia prima lettura , al prezioso libro “Rosso d’Alicudi”, noto che porta ancora nelle pagine gli appunti, le
annotazioni e sottolineature che testimoniano non solo una vaga lettura, ma un attento studio. Tra le mie
note leggo: l’opera è una triade divina formata dall’amore, la donna e il mare;
La finalità del canto come una lotta, un impegno preso con la vita; il poeta non conosce resa, cerca l’amore;
sacrifica il poeta sull’altare della nostalgia; la fede, il verso,
l’ostinazione. Appunti sparsi e non persi che mi aiutarono e aiutano ancora ad
entrare nel profondo e misterioso mare del suo inconscio poetico. Nella pagina successiva
alla firma di Carlo Bo, molti appunti in
matita blu (quella che usavano i professori per correggere i compiti degli
alunni), ormai sbiaditi, non più recuperabili, si fa riferimenti a Laura e
Beatrice e al poeta visto come un cavaliere errante, la spada è sguainata e la
vita la vuole vivere con tutte le energie possibili.
Oggi, a questi frammenti, oserei aggiungere un’attenzione da
dedicare a un’altra presenza familiare alla
sua poesia: il vento. Esso nei versi di
molte opere, è maestrale , scirocco, è
voce violenta che scompiglia le lenzuola dell’amore, che porta il poeta
arroventato a fremere, vissuto da un’
insonnia perenne. Un’inquietudine, direi, che per quanto avvolta e cauterizzata
da quelle onde del mare che si congiungono e slegano con i respiri affannosi
del poeta, non trova tregua. Il canto poetico ha polmoni possenti, è Eolo con
l’orcio aperto, quasi compagno necessario a una vita vissuta con furore, con
energie che esplodono e non conoscono sfinimento. “Oh si, il vento! Il vento
che rapido sferza i marosi/ per impedire che si approdi a Delos./ Solo verso
sera, sotto costa, /s’acqueta un poco il mare e si distende/ e cede infine
palmo a palmo il campo,/ Il vento di mare…. Ah si, il vento! Il vento/ che
scompiglia le penne ai gabbiani/ e li fa rannicchiare tremanti/ nelle fenditure degli scogli… / Il vento
stormisce nelle sartie/ con stridore assordante./ Sono migliaia di cicale
metalliche/ che friniscono insieme…”(Il vento di Myconos (Nostos) da “Mare di Luna” (Il Convivio)
pg,23). Il poeta non si limita a sentirlo nelle ossa e negli occhi il vento
“Quale vento stanotte m’ha cercato… ”ma
esso è sempre precursore di nostalgie, di ricordi, di albe da attendere insonne,
di momenti sensuali che lo percorrono, lasciandolo rabbrividire; né il desidero si acquieta e la poesia crea
strapiombi “salti “(come dice Manitta), le parole si susseguono fluide, in un
éxsperimentalisme realiste dove i luoghi, la natura, l’uomo non sono
prevedibili. Non possiamo però parlare di un riesame della memoria dei fatti
accaduti o solo fantasticati, momenti di erotismo, di compagnie agognate, in
realtà il verso vive in una sfrenata contemporaneità. Gli spazi e il tempo, apparentemente
confusi, qualche volta sovrapposti, nel ritmo della parola hanno una predestinazione precisa nel suo begetter,
che quasi sempre è la donna desiderata, non parlerei d’amore. Forse l’appunto
che scrissi un tempo facendo riferimento a Laura e a Beatrice voleva dire che
la figura femminile per Corrado Calabrò è una presenza necessaria, la donna
inseguita, agognata; il verso ha la
stessa frenesia degli eroi dell’Orlando Furioso, il ritmo non conosce argini. E,
poi, c’è il mare, tema sul quale anche Carlo Di Lieto con la sua bella opera
“La donna e il mare” ha posto l’accento. Ma partiamo dal pensiero (che a suo tempo
sottolineai) che troviamo anche sulla sovra-copertina di Carlo Bo: “è un mare
senza nome , è la voce eterna della nostra esistenza ”Razionalmente, certo, il
mare è un rischio/ma io non l’ho mai sentito come tale. Chi si spinge in mare
aperto/lascia alle spalle il suo pedestre aplomb/ per galleggiare in stato di
abbandono;/ impalati dal dubbio si affonda / ed è d’impiglio, non di
salvataggio/ la rete che tesse il raziocini. /Il mare va preso come viene ,/
così, con la sua stessa inconcludenza :/portando verso il petto, a ogni
bracciata /un’onda lieve che non si trattiene” (Rosso d’Alicudi pg 66, Lo
stesso rischio). Per comprendere questi versi è necessario ricorrere ai
percorsi oscuri dell’inconscio: una lettura poco attenta ci farebbe dire che il
poeta parli del mare e delle sue caratteristiche, nulla di più errato. I versi
svelano l’esistenza stessa di Calabrò; c’è un processo identificativo totale del
la vita dell’uomo con quella del mare e
in particolare con quella del Nostro. La parola si fa dura e aspra, non ha
niente di aulico, ma la grandezza è proprio in questa grinta realistica nell’affrontare
e prendere la vita che lo possiede. Una poesia che dà forza, che è una strada
seguita con devozione e fedeltà fin dai suoi vent’anni, un rimedio alla disperazione
umana, un luogo dove la frenesia, l’esaltazione, l’eterna dolorosa
inquietudine, non si quietano, né trovano approdo per essere ruminate lentamente,
ma il verso è sostanziale alla sua vita, non c’è dualismo tra la poesia e la
vita (parlo della vita dell’uomo servitore dello Stato); non sono da considerare due cose, ma
un’unica forza . La vita, come poesia è un vortice , un tango passionale e lieve, un
urlo, un orgasmo, a volte anche un crepuscolarismo malinconico. (Pubblicato da "Cultura e Prospettive)