sabato 17 ottobre 2020

"Modigliani. L'anima dipinta" di Carmen Moscariello , Gangemi Editore, Roma 2019, eletto libro dell'anno 2020.

 









"Modigliani L'anima dipinta di Carmen Moscariello", Gangemi Editore, Roma 2019,eletto "Libro dell'anno". Ringrazio la presigiosa Giuria del Premio Internazionale " Le parole del Silenzio",sona grata alle insigni Personalità letterarie che hanno voluto gratificare la mia opera: La Presidente e fondatrice del Premio Scrittrce Erminia Guaschino, allo Scrittore Carmine Jossa, al Poeta scrittore, cavaliere Gianni Ianuale ' alla scrittrice Mari Attilia Bonfatto.

venerdì 16 ottobre 2020

Il Poeta Michele Urrasio : RILETTURA DE “LO STEDDAZZU” DI CESARE PAVESEIN OCCASIONE DEL SETTENTESIMO DELLA SUA SCOMAPRSA


 

  • RILETTURA DE “LO STEDDAZZU” DI CESARE PAVESE
    IN OCCASIONE DEL SETTENTESIMO DELLA SUA SCOMAPRSA
    Settant’anni fa moriva a Torino Cesare Pavese (1908 1950). In occasione della sua
    scomparsa, abbiamo ripercorso la carriera letteraria del grande scrittore piemontese, soffermando la
    nostra attenzione, ancora una volta, sul componimento intitolato “Lo steddazzu”, incluso nella
    raccolta Lavorare stanca (Einaudi, Torino 1963). In questi versi Pavese evoca gli aspetti del
    paesaggio che conobbe di persona durante i tre anni di confino a Brancaleone Calabro. Sono versi
    dettati da una profonda, severa meditazione sulla “solitudine fisica” che l’uomo è costretto a soffrire
    dal momento che «non riesce in nessun modo a comunicare, a instaurare rapporti umani, e si
    tormenta fino alla disperazione, al senso dell’inutilità senza scampo della vita».
    L’uomo solo si leva che il mare è ancor buio
    e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
    sale su dalla riva, dov’è il letto del mare,
    e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora in cui nulla
    può accadere. Perfino la pipa tra i denti
    pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquio.
    L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
    e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
    tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.
    Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
    in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
    che l’inutilità. Pende stanca nel cielo
    una stella verdognola, sorpresa dall’alba.
    Vede il mare ancor buio e lo macchia di fuoco
    a cui l’uomo, per fare qualcosa, si scalda;
    vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
    dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora
    è spietata, per chi non aspetta più nulla.
    Val la pena che il sole si levi dal mare
    e la lunga giornata cominci? Domani
    tornerà l’alba tiepida con la diafana luce
    e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
    L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
    Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,
    l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.
    La solitudine che caratterizza tante pagine di Cesare Pavese, trova in questi versi “narrativi”,
    tipici della produzione poetica pavesiana, la sua naturale espressione. L’elemento antropologico e
    quello naturale convivono con uguale intensità la medesima angoscia, connessi strettamente tanto
    da riuscire a sbiadire qualsiasi altro sentimento, ogni altra sollecitazione.
    La lirica è percorsa da un silenzio quasi irreale, da un’immobilità esasperata ed esasperante,
    amplificati ulteriormente dallo scandire di gesti, lenti e misurati, che valgono a rendere ancora più
    incisiva e insopprimibile l’inutilità del vivere, del respirare in luoghi e momenti in cui nulla accade
    e nulla accadrà mai. Inutilità, che si accentua nell’ora che precede l’alba, sospesa com’è tra il buio e
    la luce, tra la negazione dell’apparenza e la tentazione di scoprire in essa elementi meno foschi e
    sconcertanti. È «l’ora in cui nulla/ può accadere»: lo si evince dal vacillare delle stelle perdute nel
  • loro sgomento, dal “sommesso sciacquio” del mare, che si risolve in “un tepore di fiato”, presto
    disperso nell’aria senza indizio alcuno.
    L’uomo, curvo sotto il peso del suo errare fuori e dentro di sé, ripete passivamente i suoi gesti,
    privo di ogni entusiasmo: conosce, ora più che mai, i confini del suo essere e sa che essi non vanno
    di dal cerchio del suo sguardo, oltre l’area angusta delle pareti del suo esilio, oltre il calore del
    fuoco che «guarda arrossare il terreno», di dallo sconfinato silenzio del mare che, al pari del
    poeta, invoca fremiti di vita, voci e presenze.
    Nella seconda strofa la disperazione dell’uomo si identifica nella consapevolezza che neppure il
    sorgere del giorno potrà apportare cambiamenti al monotono vivere del poeta. La ricerca di sussulti,
    vanamente inseguita, affronta, per naturale disegno, l’arco discendente della parabola, puntando
    decisa verso la negazione della vita, verso quell’inutilità in cui si annidano e germinano propositi di
    estrema determinazione, che un paesaggio monotono e indifferente accentua ed esaspera.
    È inutile guardare in alto: le stelle brillano di luce sinistra, poco rassicurante, prima di
    dileguarsi nel pallore dell’alba. Ed è altrettanto vano attendere di poter dialogare con il mare, buio,
    sempre più buio;è una cifra di conforto “la macchia di fuoco” che rimanda, inutilmente, ad altre
    plaghe, ad altri attimi, sepolti anch’essi nella stretta dell’immobilità e del silenzio.
    Sono versi espliciti nella forma e nel contenuto, indicativi di una condizione esistenziale con la
    quale il poeta convisse per un segmento di tempo molto prolungato, se si considera a quale
    interminabile sofferenza va incontro chi “non aspetta più nulla” ed è costretto a toccare con mani la
    lentezza dell’ora.
    Lontano dalla propria terra, dalle Langhe in particolare presenza costante nella memoria e
    nell’opera di Pavese – il poeta sperimenta sotto altri cieli l’uguale cadenza del destino umano, la sua
    precarietà, la fragilità dei suoi equilibri, il ripetersi ossessivo di gesti e di atti privi, di frequente, di
    volontà e di partecipazione.
    Tutto è inutile o almeno solito e ripetitivo. Ne costituiscono una riprova i due versi che aprono
    la strofa finale: «Val la pena che il sole si levi dal mare/ e la lunga giornata cominci?». Domanda
    che ha già in la denuncia dell’incertezza e della solitudine, cui è esposto l’uomo «in un mondo
    dove non accade nulla perché nulla può spezzare il muro di silenzio e di incomunicabilità che lo
    chiude». L’uomo è destinato a restare solo con i suoi affanni, con i suoi pensieri, lontano dal
    conforto della solidarietà, con l’unica certezza che “Domani/ tornerà l’alba tiepida con la diafana
    luce/ e sarà come ieri e mai nulla accadrà”.
    Per superare almeno in parte questa impasse, all’uomo non rimane che dissolvere nella
    immobilità del tempo il proprio tempo, dormire o, più propriamente, cedere alla tentazione della
    fine: drammatica ipotesi che il poeta sconterà in una afosa camera d’albergo.
    Ma, se pur lentamente, gli attimi seguono il loro corso e nella luce dell’alba trascolora e
    scompare “l’ultima stella”. Il giorno ritorna. Anche se sarà l’inizio di un nuovo periodo di noia e di
    solitudine, l’inizio di una lunga interminabile agonia, accentuato da un gesto semplice, naturale,
    «l’uomo prepara la pipa e l’accende”. Un gesto che sintetizza l’intero significato del
    componimento, ma anche la vera essenza dell’esistenza umana: il dissolversi, al pari del fumo, dei
    rari entusiasmi che baluginano, esili e incerti, nel labirinto della nostra solitudine.
    Michele Urrasio