di Carmen Moscariello
Una
xilografia polacca a cura di Alina Kalczjnscka sul lillà della copertina:
l’incisione rupestre di Oughtasar, dell’Armenia del V-II millennio inaugura
la preziosa collana “Poesia” di Vanni Scheiwiller. Non a caso il libro si
apre con un’antilla a firma dell’Editore che presenta personalmente la nuova
grafica della collana che “vuole un invito al lettore, seducendo l’occhio
per catturare poi l’intelletto”.
Speciale,
dunque anche nella copertina questa raccolta di poesie di Alda Merini, che porta
il titolo di un suo libro in versi, “La presenza di Orfeo”, uscito
nei tipi della Schwarz nel 1953.
D’altronde
la poetessa ci ha abituato alle sue raccolte a tiratura limitata, fin dal suo
esordio, a soli sedici anni, e già con l’ammirazione di Angelo Romanò,
Silvana Rovelli e Giacinto Spagnoletti (Poesia italiana contemporanea,
1909-1959, Guanda). Ripropone in questa recentissima pubblicazione il meglio
della sua poesia: i suoi versi “fanciulli”, appunto, e insieme ad alcune
poesie della raccolta “La presenza di Orfeo”, troviamo versi
appartenenti alle successive pubblicazioni come: Paura di Dio (Scheiwiller,
1955), Nozze Romane (Schwarz, 1955) e Tu sei Pietro (Scheiwiller,
1962).
Queste
opere giovanili testimoniano che poeti si nasce. Il miracolo già appartenuto a
Leopardi e Saffo è anche di Ada. Sarebbe, infatti, inspiegabile l’immensità
dei cieli e della parola del suo canto. Esso viene già dall’Olimpo e dalla
rupe di Leucade e nello stesso tempo è spregiudicato ed amaro, afrodisiaco, con
tutti i risvolti moderni e nichilistici del nostro secolo. I suoi sono fogli di
speranza, che si annidano lungo i fiumi, spesso tormentati dall’ago della
disperazione che recide i colori, i sentimenti, gli odori, la vita stessa.
Questa
poesia è tutta al femminile, immediatamente decifrabile, qualunque pagina si
apra. Smuovono e vibrano i sentimenti dell’alternarsi delle vicende, non
muoiono mai nemmeno quando l’invocazione alla Morte si estende al palmo della
mano.
Il tiaso
ha un cuore di donna, dove è cantato l’uomo con la sua delicatezza, la luna
buia del suo egoismo, il potere delle sue mani, il dolce soffocante della sua
parola.
Con la
donna e l’uomo vivono i Santi che sono “ronzio di spine ad ogni
polpastrello/ delle morbide dita/ e, dopo, rose, rose di stupore/ placide
nevicate di innocenza...” Vivono anch’essi la favola della vita ornata di
spine e di rose, di odori e di pianti, di fughe e di ritrovamenti insperati. La
fiaba antica della donna che vive di sogni e in essi si muove come farfalla,
inerpica invece il reale, storpia le cose o dalle cose è storpiata. I versi
mistici hanno il sapore di quelli del Petrarca, inesauribili nel desiderio di
Dio, ma anche della vita. Le illusioni non si trasformano in inganno, vivono di
armonie sconosciute, vibrano di delicatezza, coprono il sasso con viole
profumate, confondono il canto degli uccelli con l’odore dei fiori. La poesia
della Merini è un sogno. Tutto ancora da ricercare, ma vivo e forte, crudele e
dolce, ferito ma sempre pronto a un nuovo cammino.
E, così
nei suoi versi c’è il sole con i “suoi giubili pieni”, ci sono i fiori
“fedeli sorrisi dei fanciulli”, c’è la musica e la danza, ma anche le
tenebre feroci.
Si muove
questa poesia quasi in sussulti che pure formano un canto privilegiato, mosso
dall’odore della ginestra, arrogante a volte come la lava del Vesuvio.
La luce è
sempre intensa, nonostante gli occhi siano cerchiati dal dolore “che ancora
non ti vedono/ Signore, riflesso dentro il mondo/ Salvami tu/”. Emerge chiaro
dai versi la straordinaria fortuna di nascere donna, ma anche la tragedia di
essere donna: la capacità di camminare con la stessa disinvoltura tra le stelle
e sull’orlo di un precipizio.
Si dilatano gli stati d’animo nei
versi, si confondono con le forze della natura, con la sacralità di Dio e dei
Santi e avanzano imperturbati coinvolgendo miti e vergini. Rivive l’Ellade, la
dolce Mytilinii, la mistica di Saffo, l’amore romantico e antico di Hölderlin per Diotima, che tuttavia non fanno dimenticare il dolore
della vita.
A
questa donna, alla quale Quasimodo diede la palma di grande poetessa e la
introdusse anch’egli, come Spagnoletti, nella sua antologia (Poeti italiani
del dopoguerra, Schwarz 1958) e a cui recentemente (1993) è stato
attribuito il premio Librex-Guggenheim “E. Montale”, la poesia italiana del
900 deve molto: ha saputo ricreare il tormento per l’Infinito, senza
discostarsi dai canoni classici e dando vita al massimo della modernita.
tratto
da “Oggi e Domani” – rivista mensile di cultura e attualità, anno XXII,
n.6, giugno 1994, pag.111-112
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