In forma di oratorio- Dalla Prefazione di Marcello Carlino
È un oratorio, al postutto. Tra
monologhi e dialoghi e brevi inserti di una voce narrante fuori campo, alla
struttura di modo drammaturgico del testo di Carmen Moscariello mancherebbe la
musica per poterlo dire oratorio, se non fosse che la musica è l’anima profonda
di questa sua scrittura: la prosa vi è lirica e ha timbri musicali, infatti: la
scrittura pare mutarsi in musica, infine.
Eccolo un primo, chiarissimo segno
distintivo. Come gli altri racconti di esistenze speciali e di incontri di
vita, che trovano posto nella bibliografia di Carmen Moscariello, è la passione
a farsi intensità e fervore, ed è il fervore a validare un transfert nei
soggetti narrati e quasi incarnati, ed è il transfert ad accendere lo stile e
accalorare la sintassi voltando i suoi nessi in uno sciame di febbrili,
incantate associazioni, cosicché la parola risuona di una pronuncia come
sacrale, che muove onde armoniche come di lauda.
In un quadro siffatto la documentazione
sopra giuste fonti è di premessa, ma il rigore e la compiutezza filologici sono
tutt’altro che necessari: contano piuttosto inquadrature e intonazioni in
soggettiva dell’io autoriale, che presta la sua voce ai personaggi, entrato nei
personaggi con passione e fervore.
Sono due i protagonisti nel teatro qui
allestito da Carmen Moscariello, Celestino V e Benedetto XVI, accomunati dalla
scelta della rinuncia al pontificato. Una modulazione particolarmente efficace
di questa struttura oratoriale è che Benedetto XVI, nel secondo “atto” in cui è
evocata la sua storia, è annunciato ed esposto in lauda da Celestino V, la cui
parte in scena contempla più lunghi e frequenti assoli monodici, più stringenti
monologhi. Intorno una serie di personaggi intesse una partecipazione corale.
La passione costitutiva della prosa
lirica – di quando in quando dei prosimetri – che Carmen Moscariello consegna
ai monologhi e ai dialoghi del testo ha tratti peculiari, sorprendenti: il
calore della comunanza si fa esaltazione della tenerezza e della meraviglia e
su questo doppio paradigma si coniugano le parabole di Celestino V e di
Benedetto XVI, “cantate” in lauda spirituale dal primo, che riconosce nel
secondo chi da lui ha raccolto il testimone di una ideale staffetta lungo il
percorso virtuoso della mitezza e dell’amore.
Celestino V ha recepito e insieme
temperato le istanze di una chiesa povera, schierata con gli ultimi; di ciò
anche, levatasi da un cuore semplice che vive l’umanità in fratellanza, è voce
la rinuncia al potere, allo sfarzo e al lusso di una religione isterilitasi
nella torre d’avorio di una dorata separatezza; la ripulsa delle beghe curiali
e delle lotte cruente, innescate da una secolarizzazione che insegue prebende
ed è profondamente traviata da mire politiche, contiene un messaggio di unità,
un invito rivoluzionario (concorde in una certa misura con le attestazioni di un
cattolicesimo alternativo e come eretico) alla condivisione e alla
misericordia, di cui il perdono è un valore fondante: un messaggio tuttora
attuale tanto per i credenti, quanto per coloro che esprimono una cultura
laica.
La scelta di Benedetto XVI, erede di
Celestino V, è ricca degli stessi significati: la mitezza, la coscienza
dell’umana fragilità, il desiderio di dare accento alla povertà creaturale come
virtù e come contravveleno ad una ideologia che premia politiche di potenza.
Benedetto XVI aggiunge alla preghiera,
che distingue la solitudine romita di Celestino V nella beatitudine della
natura, una cultura teologica che è fatta sposare con la profonda sacralità
dell’arte, in specie con l’anima serenante della musica. E qui il cerchio si chiude riconducendo alla
liricità di modo musicale della scrittura di Carmen Moscariello, che batte il
tempo di un meravigliata, gioiosa, sua propria spiritualità.
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