Di Ugo Piscopo
In occasione dell’eclissi del 1628, il Papa Urbano VIII, in timore e tremore per l’evento, chiamò a sé un mago, per affidargli il compito delicatissimo di proteggerlo dagli effetti maligni dell’ oscuramento del sole. “Non si sa mai”, disse al mago, “come possono andare a finire queste cose. La nostra vita è così delicata e così esposta agli accidenti della natura. E la mia vita, tu sai, è preziosa non solo per me e per Roma, ma per il mondo intero. Io, quaggiù, rappresento l’Autorità massima nella fede unica e nella verità assoluta. Vedi tu, adesso, che sai fare a vantaggio dell’universo mondo. Che va salvato, protetto”.
Non disse all’uomo delle magie di essere incalzato dalle cagne nere della paura e del rimorso. Questo, anzi, non lo confessò mai neppure a sé stesso. Non lo voleva neppure pensare. Che, cioè, in quell’oscuramento del cielo si potessero insinuare le influenze, le formule, i risentimenti di vendetta degli inquisiti di blasfemia e di arti stregonesche, condannati a morte atroce, a incarcerazioni a vita. Non pensava a Bruno, non pensava a Campanella, non pensava a Galilei, per il quale ultimo aveva una naturale inclinazione di amicale protezione. Queste loro figure, le aveva censurate e, naturalmente, continuava a censurarle, facendosi divieto di ripassarsele a memoria. Di tanto in tanto, però, concludendo, quasi a sua insaputa, il discorso con codesti signori, sentiva come un pugno di vuoto nello stomaco. E per confortarsi, diceva: “Sono loro che se li vanno cercando con la lanterna certi guai. Contro la loro barbara, selvatica ostinazione, bisogna usare la mano della giustizia con fermezza. Il pugno di ferro. Purtroppo, così deve essere. E meno male che è così. A tutela della Santa Nostra Religione e dell’autorità della Curia”.
Il mago, dopo essere stato compensato munificentissimamente, si ritirò in una stanza adeguatamente attrezzata, fece chiudere porte e finestre e passò all’azione. Accese due punti luce, che rappresentavano il sole e la luna, e attorno a loro si mise a fare girare cinque palline, che erano i cinque pianeti allora conosciuti. Intrise l’atmosfera di gesti e formule misteriose e tenne al riparo Papa Urbano VIII dagl’indesiderati effetti collaterali dell’eclissi. Il pontefice, però, anche dopo essere sfuggito a quei rischi, nell’intimità della coscienza dovette continuare a fare i conti con i disagi e le autogiustificazioni di fronte agli esiti dei processi del Sacro Tribunale dell’Inquisizione nei confronti di questi eretici impostori, bestemmiatori, alchimisti, esperti di stregoneria.
A questo punto, verrebbe da farsi una domanda un po’ ingenua, ma non inappropriata: come mai Papa Urbano VIII poteva temere dei poteri di quei tali signori, ad esempio, di un Giordano Bruno, se essi non erano riusciti, non riuscivano a proteggere la propria vita con le loro arti? Se un Giordano Bruno, non solo non aveva salvato la sua pelliccetta, - piccolino fisicamente, disponeva di un mantello di pelle abbastanza risicato -, ma, all’atto della morte, non aveva provocato alcun turbamento della natura? Neppure una piccola eclissi? Neppure una stretta di pioggia, che accennasse a spegnere le fiamme entro cui era stato messo ad arrostire?
Allora, perché mai la Chiesa di Roma, una, santa, cattolica e apostolica aveva allertato il Santo Uffizio per processarlo, perché gli aveva messo spie alle calcagna per tutta l’Europa, aveva attivato la sua diplomazia e sostenuto allo spasimo la richiesta dell’estradizione da Venezia? Di quali mostruosità si era macchiato costui?
Purtroppo, in un’Europa incendiata da guerre di religione e divisa da passioni di parte, in nome della ricerca della verità, codesto Giordano Bruno, originario del paese di Nola, nel retroterra di Napoli, aveva aggiunto altra legna sul fuoco e aveva sfidato l’autorità della Chiesa riguardo ai dogmi della Trinità, della sacralità di Cristo, della fede nei santi, del valore dei dogmi. Su questo terreno era andato molto al di là di Lutero, di Zwingli, di Calvino, che non avevano osato tanto. Era andato molto al di là degli stessi eretici medievali, che al più si erano consentito qualche dubbio riguardo a una vocale in più o in meno della Scrittura o sull’interpretazione di una parola. Allora non esistevano ancora né le armi biologiche né gli ordigni atomici. Ma quell’assatanato fraticello domenicano, tra l’altro di umili origini, quel mastro e teorico di ideologie terroristiche aveva preparato l’equivalente di un attentato alla religione in Europa come con un’arma di quelle sunnominate. Anzi, per essere esatti, con un’arma ancora più devastante, cioè col pensiero e con la parola. A tal proposito, non possiamo non sottolineare che il pensiero e la parola sono armi potenti, molto potenti.
Bisognava, pertanto, sbarazzarsene a tutti i costi o ingessarlo e tenerlo sotto rigoroso controllo, come in un carcere di massima sicurezza, dopo una solenne abiura ufficiale con cui sconfessava tutto quello che aveva pensato, dichiarato, rappresentato in pensieri, parole e omissioni.
Ma quell’omino del Sud, così fragile come personcina, tuttavia così intrepido, non volle intendere ragioni, suggerimenti, minacce. Dissotterrata l’ascia dal manico tinto di rosso, si slanciò sui sentieri di guerra (o di guerriglia?), orgoglioso di sé e della causa che aveva abbracciato per sempre, aggirandosi per l’Europa (Italia, Francia, Regno Unito, Germania), determinato a fare i maggiori guasti possibili nei reticolati del potere della Chiesa. E si divertì follemente a mettere a nudo dovunque le assurdità e le inconsistenze della dottrina della Curia di Roma, finché, caduto nella ragnatela di un vile veneziano, fu consegnato nelle grinfie del Santo Uffizio, che lo processò quasi in diretta e subito lo affidò alle forze di polizia per il trattamento dovuto a casi del genere, con la purificazione del fuoco. Il che fu eseguito come un’offerta sacrificale il 17 febbraio 1600, ad anno giubilare appena iniziato, in Campo dei Fiori, a pochi passi dal Tevere, alle spalle del Teatro di Pompeo di una volta, tra il Colle Capitolino da una parte e il Campo Marzio dall’altro, là dove, ai tempi dell’antica Roma, sfilavano o si producevano in esemplari esercitazioni le truppe dei quiriti.
A questa vittima innocente dell’autoritarismo e dell’arroganza della sua età, che avevano nella Curia di Roma la loro roccaforte e la loro tutela istituzionale, Carmen Moscariello dedica una pièce teatrale vibrante di sdegno, intrisa di spiriti di poesia, ricca di accensioni visionarie, a mimesi dello stile letterario e dell’esultanza vitale e ideale del protagonista della vicenda.
L’autrice, pur non avara di parole, tiene sotto stretto controllo l’azione scenica, che si scandisce classicamente in tre atti e un prologo. Il quale si apre a preludio di sintesi generale del terribile dramma, tra i più memorabili della storia di tutti i tempi, proponendo all’attenzione dei destinatari i nodi essenziali delle questioni confluite nella tragedia bruniana e insieme proiettandoli su scenari in cui la storia del passato incontra sé stessa guardandosi allo specchio dei tempi nostri (e forse di tutti gli altri tempi). Col protagonista del lavoro dialoga la Donna-poeta, in cui non è difficile scoprire l’autrice, con le sue convinzioni, con le sue esperienze non pacificate, con la sua identità irpina che la fa testimone di situazioni e di scelte ideali e materiali dure, consonanti con quelle calatesi nel concreto della vita e dell’immaginario di Giordano Bruno.
Nei tre atti che seguono, trovano spazio nodi di pensiero e modi di partecipazione di Giordano Bruno alle vicende e ai dibattiti del suo tempo, incanalandosi nell’alveo di un’azione organica e centralissima, in cui l’autoritarismo culturale (teologico, filosofico, scientifico), che è sotto le ali protettrici e robuste della Curia romana, riesce a trionfare per l’oggettivo sostegno di fiancheggiamento dato dal conformismo, dal tartufismo, dal reazionarismo ciechi che hanno radici larghe e profonde nel contesto storico. Nella volgarità, nell’opportunismo e nell’imbecillità delle donne-maiale e degli uomini-asino (I atto). Nelle invidie, nelle gelosie e nel conservatorismo degli intellettuali (II atto). Nel servilismo e nella passiva sudditanza del mondo italico alla Chiesa di Roma (III atto). Persuasivo è il processo di maturazione al dolore del protagonista, che regge a lungo rocciosamente frontalmente al cozzo con la durissima realtà che gli si oppone, ma in ultimo non può non piegarsi un po’ alla tristezza e rivelare che all’interno della sua scorza di eroe in certo senso alfieriano vive e palpita una sostanza di uomo come tutti.