loro sgomento, dal “sommesso sciacquio” del mare, che si risolve in “un tepore di fiato”, presto
disperso nell’aria senza indizio alcuno.
L’uomo, curvo sotto il peso del suo errare fuori e dentro di sé, ripete passivamente i suoi gesti,
privo di ogni entusiasmo: conosce, ora più che mai, i confini del suo essere e sa che essi non vanno
di là dal cerchio del suo sguardo, oltre l’area angusta delle pareti del suo esilio, oltre il calore del
fuoco che «guarda arrossare il terreno», di là dallo sconfinato silenzio del mare che, al pari del
poeta, invoca fremiti di vita, voci e presenze.
Nella seconda strofa la disperazione dell’uomo si identifica nella consapevolezza che neppure il
sorgere del giorno potrà apportare cambiamenti al monotono vivere del poeta. La ricerca di sussulti,
vanamente inseguita, affronta, per naturale disegno, l’arco discendente della parabola, puntando
decisa verso la negazione della vita, verso quell’inutilità in cui si annidano e germinano propositi di
estrema determinazione, che un paesaggio monotono e indifferente accentua ed esaspera.
È inutile guardare in alto: le stelle brillano di luce sinistra, poco rassicurante, prima di
dileguarsi nel pallore dell’alba. Ed è altrettanto vano attendere di poter dialogare con il mare, buio,
sempre più buio; né è una cifra di conforto “la macchia di fuoco” che rimanda, inutilmente, ad altre
plaghe, ad altri attimi, sepolti anch’essi nella stretta dell’immobilità e del silenzio.
Sono versi espliciti nella forma e nel contenuto, indicativi di una condizione esistenziale con la
quale il poeta convisse per un segmento di tempo molto prolungato, se si considera a quale
interminabile sofferenza va incontro chi “non aspetta più nulla” ed è costretto a toccare con mani la
lentezza dell’ora.
Lontano dalla propria terra, dalle Langhe in particolare – presenza costante nella memoria e
nell’opera di Pavese – il poeta sperimenta sotto altri cieli l’uguale cadenza del destino umano, la sua
precarietà, la fragilità dei suoi equilibri, il ripetersi ossessivo di gesti e di atti privi, di frequente, di
volontà e di partecipazione.
Tutto è inutile o almeno solito e ripetitivo. Ne costituiscono una riprova i due versi che aprono
la strofa finale: «Val la pena che il sole si levi dal mare/ e la lunga giornata cominci?». Domanda
che ha già in sé la denuncia dell’incertezza e della solitudine, cui è esposto l’uomo «in un mondo
dove non accade nulla perché nulla può spezzare il muro di silenzio e di incomunicabilità che lo
chiude». L’uomo è destinato a restare solo con i suoi affanni, con i suoi pensieri, lontano dal
conforto della solidarietà, con l’unica certezza che “Domani/ tornerà l’alba tiepida con la diafana
luce/ e sarà come ieri e mai nulla accadrà”.
Per superare almeno in parte questa impasse, all’uomo non rimane che dissolvere nella
immobilità del tempo il proprio tempo, dormire o, più propriamente, cedere alla tentazione della
fine: drammatica ipotesi che il poeta sconterà in una afosa camera d’albergo.
Ma, se pur lentamente, gli attimi seguono il loro corso e nella luce dell’alba trascolora e
scompare “l’ultima stella”. Il giorno ritorna. Anche se sarà l’inizio di un nuovo periodo di noia e di
solitudine, l’inizio di una lunga interminabile agonia, accentuato da un gesto semplice, naturale,
«l’uomo prepara la pipa e l’accende”. Un gesto che sintetizza l’intero significato del
componimento, ma anche la vera essenza dell’esistenza umana: il dissolversi, al pari del fumo, dei
rari entusiasmi che baluginano, esili e incerti, nel labirinto della nostra solitudine.
Michele Urrasio