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A leggere le innumerevoli quantità (è di questa che bisogna ormai parlare) di libri di poesia, che affollano le nostre giornate, si dovrebbe avere almeno l’impressione di un’estrema varietà di temi e di motivi oltre che di stili diversi e invece l’impressione dominante è sempre più quella di una sorta di generale appiattimento, di generale omologazione. Questo per dire che è davvero raro leggere un testo di poesia che abbia il pregio dell’originalità e che impegni il lettore alla scoperta di un mondo (poetico) veramente prodotto (ma stavo per dire creato) da un’alta fantasia, ossia da quella capacità di invenzione poetica che sembra troppo spesso bandita dai libri di poesia. Con qualche eccezione, per fortuna nostra e dell’autore. Che, questa volta, si chiama Ugo Piscopo, poeta ormai laureato oltre che narratore e autore teatrale, ma anche finissimo critico e studioso di vasti interessi. Piscopo, ancor prima che di un’originale capacità d’invenzione, ha dato prova, nella sua opera poetica, soprattutto in questa, crediamo, di una raffinata capacità di ascolto: del mondo animale, di cui è ben viva espressione quel Quaderno a Ulpia la ragazza in mantello di cane e di quello vegetale che ha trovato espressione in quei fulminanti Haiku del loglio e d’altra selvatica verzura, di cui non s’è persa la memoria, e ora, perfino quel mondo delle pietre, di quelle Presenze preesistenti (Guida Editore, anno 2007) che denunciano, fin dal titolo, una sorta di inquietanti, ma subito anche invoglianti “corrispondenze”. E, del resto, come non avvertirne “il movimento”, se quelle pietre parlano, innanzi tutto, il linguaggio antico dell’Irpinia, ne sono la sua voce più resistente, più familiare (“La pietra è radice / perduta e trovata”) e stanno, mallarmeanamente, non solo “dove un colpo di dadi le ha gettate”, ma fin dove il loro costituirsi in paese, ne perde, nello stesso tempo, l’identità, vivendo di vita autonoma, che non ha più un nome o l’ha avuto o l’avrà o non l’avrà mai più. Più di ogni altro ne è consapevole il poeta che ne parla e ne è a tal punto coinvolto da sentirsi partecipe della stessa storia, anzi, si direbbe, dello stesso destino. Sono infiniti i fili che sapientemente si legano (o si slegano) in questa poesia coltissima: e Piscopo ne tiene in mano i capi, li unisce e li separa, con la sua sapienza, prima di tutto linguistica, plurilinguistica e sarebbe il caso di aggiungere, sull’esempio alto di Zanzotto, prelinguistica. Piscopo ne segue, con occhio attento le sorti, i movimenti, le direzioni, le origini, ma per trasformarli poi in qualcosa d’altro, come infinite linfe che alimentino la sua vena poetica, come tessitura da cui, appunto, nasce il testo. Così si compie la vera funzione del poeta: nelle sue mani (nella sua mente, nel suo cuore e, ancor di più, nelle sue parole) anche le pietre si trasformano, diventano altro da sé, partecipano di un altro, grande destino che, a sua volta, si compie e si celebra in interiore homine. Lo sguardo lungo di Piscopo (la sua doppia vista di poeta) vede, infine, dentro di sé, la vita che nasce, ancora una volta dove la vita sembra naturaliter impossibile, perduta per sempre. Ed è la vita delle pietre e nello stesso tempo la vita del poeta, di cui la pietra, come ben dice Marcello Carlino, è l’allegoria. E il poeta rilegge, nelle “sue” pietre la sua stessa direzione di marcia, il senso della propria vita, la via di una possibile salvezza: e la poesia gli nasce proprio nel luogo dove tutto ciò che si potrebbe dire non può più essere detto o deve cercare sempre nuove vie, nuove faglie tra pietre e pietre.