sabato 29 novembre 2014

OTTAVA edizione CONCORSO POESIA E NARRATIVA breve "San Benedetto nel cuore"

-dal 2007  onore  di  ALDA MERINI  
              I N    C O L L A B O R A Z I O N E   C O N
                                         
    UNESCO club San Benedetto del Tronto
    Assessorato Cultura Provincia Ascoli Piceno
    Assessorato Cultura Città di S.Benedetto.in itinere
    Ass. Cult.  SEBLIE  Monteprandone -
   _BED and BREAKFAST  www.laghironda-bb.it Tambre (Belluno)
   _Ass.  CULTURALE, LIBRERIA  Occhi di Argo–Largolibro
   
  *
     Il concorso si articola in tre sezioni per inediti in lingua     
    italiana di autori residenti in Italia o all’estero.

A)  POESIA tema  LIBERO=  UNO o DUE - a discrezione dell’autore-  componimenti a tema libero  
      in 8 copie >> di cui 1 sola con dati. Lunghezza  tassativa massima 40 versi 
        
 B)  POESIA  sul tema “Una meta, una vacanza memorabili”:UNA/DUE poesie in 8 copie- max 40versi 
       
 C)  NARRATIVA Breve a TEMA LIBERO= UN racconto in 8 copie e 1 
con dati completi – lunghezza max 3 cartelle (facciate). 
 I TESTI Ogni testo cartaceo sarà presentato in 8 copie anonime di cui 1 sola con i dati   
 chiari e completi dell’autore con= nomecogn. data nascita,indirizzo e-mail,   
 telefono e FIRMA.
 IL CURRICULUM  NON è OBBLIGATORIO  MA è ASSAI GRADITO.
 Uno stesso autore potrà con  lo stesso invio
concorrere ad ognuna delle tre sezioni con opere dissimili ma    
 con buste ben separate contenenti le tre quote e tutte le copie anonime più quelle   
 comprensive di dati e firma (vedi sopra). ISTRUZIONI  per  l’INVIO =  Spedire con  
 Poste Italiane a:  LAGIP- D. BRUNI- GE-Via Laureati 89- 63074  San Benedetto Tronto (AP)     
 PREMI= Cofanetto con targa personalizzata e volumi ai vincitori assoluti. Attestati  
 personalizzati ai restanti seconditerziquarticlassificatialle Segnalazioni
 di meritoMenzioni d’onoreai Riconoscimenti speciali. NOTA: Chi desidera può   
 richiedere un diploma di encomio quale attestato di partecipazione allegando 5 euro 
 a parte e apponendo la dicitura “RICHIEDO ATTESTATO” che sarà recapitato 
 a domicilio via poste italiane a tutti i richiedenti. 
 SCADENZA: 9 dicembre 2014  Farà fede il timbro postale di partenza
  GLI AUTORI SONO PREGATI (se è loro possibile) di inviare i componimenti con sollecitudine,
senza attendere gli ultimi giorni= SIAMO ASSAI GRATI A CHI
VORRA' COLLABORARE in TAL SENSO!
QUOTA di PARTECIP. per ogni sezione: L’autore allegherà ben occultati
10 euro in contanti o in francobolli da 70 cent. insieme agli elaborati
 o vaglia all’indirizzo della segreteria . Tutti gli autori di lingua italiana residenti all'estero (compreso S.Marino e Vaticano) possono partecipare GRATUITAMENTE attenendosi alle istruzioni.  Ogni autore con la sua partecipazione e firma  
 accetta il contenuto del presente bando completo  e concede il trattamento dei dati  
 sensibili secondo le disposizioni della legge sulla Privacy. Detti dati saranno   
 in futuro utilizzati unicamente per comunicazioni inerenti il concorso e per comunicati
 a carattere culturale. Verdetto di giuria: è insindacabile e sarà prontamente comunicato  
 ai SOLI premiati e finalisti. I premiati sono pregati di  ritirare di persona i       
 riconoscimenti  (salvo  impedimenti  dell’ultima ora per cause di forza maggiore
comunicati  prontamente per  tel. all’Organizzazione)
 o per delega a terzi che presenzieranno alla Cerimonia.

 I premi non ritirati saranno spediti con Poste Italiane su espressa richiesta dei titolari
 e  a nostre  totali spese se con tariffa ordinaria oppure con invio di differente
 tipologia previo accordo specifico qualora l’autore opti per tariffe speciali con
 spese a proprio carico  In nessun caso le opere presentate saranno restituite.
 Una volta inoltrato l’invio per  motivi di ordine organizzativo non è possibile 
 accogliere richieste da parte degli autori inerenti ai titoli delle opere da loro  
 precedentemente inviate. Per tutto quanto non previsto dal bando varrà   
 la deliberazione ultima del Coordinamento del concorso. Non sono previsti 
 rimborsi-spese di sorta per dirittispese di viaggiopernottamento e simili.   
 Gli elaborati  non rispondenti alle caratteristiche  richieste non saranno presi in 
 considerazione. L’organizzazione non risponde di disguidi postali imputabili
 a Poste Italianeo mancati arrivi di e-mail, o plagi da parte degli autori che
 sono i diretti responsabili dei testi che inviano.
Similmente la direzione non è tenuta ad effettuare
 comunicazioni agli  esclusi. In caso assai raro di inadeguatezza in qualità 
o quantità delle opere presentate alcuni premi e riconoscimenti 
 potrebbero non venire assegnati. La direzione si riserva di effettuare
 minime variazioni volte a un migliore svolgimento dell’evento.    
 Come  ottenere il presente bando completo in forma cartacea:
richiedendolo a: polisti@alice.it 
o a animusfrance@gmail.com. anche per tel. solo nelle ore 17-19 allo   
3484703588
 Premiazione: è prevista nella prima metà del 2015 in loco presso Salone Conferenze .
 NOTIZIE SUL VERDETTO= Il Verdetto finale di giuria
 sarà diffuso tramite comunicati- 

stampa  e in particolare in Occhidiargo.blogspt.com

L’inquietudine e il nostro tempo - Incontro con il prof. Aldo Masullo

Iniziativa promossa da Annella Prisco e dall’Istituto di Cultura Meridionale
Sono intervenute Annella Prisco e Carmen Moscariello
comunicazione e media relations: Mary Attento

Masullo il perturbante Maestro
della pratica dell’incontro umano e dialettico
di
Carmen Moscariello

Il libro dell’inquietudine (Livro de desassosego) di Bernardo Soares (eteronimo di Fernando Pessoa, Lisbona 1888-1935), pubblicato da Newton Compton (traduzione di Piero Ceccucci e Orietta Abbati), è un libro apparentemente privo di organicità: pensieri, brevi composizioni che l’autore-poeta trascrive, inventandosi infinite identità, nelle quali entra di diritto come attore protagonista e ne vive ogni metamorfosi. Un corposo taccuino, un non libro, ossia un libro fuori dai canoni, appunti sparsi, ma continuativi, pubblicato postumo, eppure così avvincente nei suoi 400 piccoli racconti, meditazioni, aforismi (ne scrisse fino in punto di morte); un’opera di finzione e di meditazione che porta in questo caso Pessoa (La Persona) a divenire molti alter ego, fino a un naufragio identificativo che lo caratterizza come Personne. Il libro è tutto attraversato da un’inquietudine devastante che si concretizza con l’annientamento di ogni identità. L’inquietudine incide in modo diverso: crea 400 situazione o meditazioni che mettono in luce una chiara volontà di ricerca, che poi naufraga nel divenire, come scrive Nerval sotto un suo quadro, “Je suis l’outre”, oppure come Rimbaud Je est un outre, per divenire desassosego in Pessoa.
Cosa diversa è l’inquietudine per Aldo Masullo: il Maestro dell’intersoggettività non è animato da questo doloroso annientamento. I due Maestri del pensiero sono diversi: Pessoa conservatore, seguace dell’Ordine dei Templari di Jacques de Molay, appartato dalle competizioni del mondo, appassionato di misticismo e occultismo; Masullo, grande e amato Docente, insigne politico della sinistra, ateo, fideista nell’uomo della ragione, ovvero nell’assoluta esigenza di ogni uomo di cercare l’altro (l’uomo è un animale politico), che confligge con il suo prossimo nel momento in cui l’altro mette in crisi la nostra libertà, provocando inquietudine.
Dunque, per il Prof. Masullo l’inquietudine nasce da un impedimento d’esercizio della libertà; nell’indomito Filosofo l’incertezza si trasforma in un ritmo di ricerca inquieta, fino alla morte; il non attuamento definitivo di questa ricerca, il non approdo alla quiete, provoca in noi inquietudine; questo percorso apparentemente si presenta come una linea in ascesa, pur tuttavia non ci mette al riparo dall’inquietudine, con l’impossibilità di un approdo definitivo, anche se la ricerca stessa della quiete restituisce alla vita il suo ardore denso.
Durante la conferenza tenutasi a Napoli presso l’Istituto di Cultura Meridionale, sorprendendo non poco il pubblico, abbiamo utilizzato un aggettivo, in questo caso un sostantivo, che ci è sembrato calzante con la sua ricca e umana personalità, chiamandolo “Aldo Masullo il Perturbante” (termine che è molto piaciuto al Professore, che lo ha meglio definito storicamente al colto pubblico). Noi abbiamo chiarito la ragione di questa scelta: “Nella lettura e studio di alcune delle sue ultime opere come Piccolo teatro filosofico, dialogo su anima verità, giustizia, tempo (Mursia 2012) e Theatrum mentis. Saggi sul pensiero di Aldo Masullo a cura di Giuseppe Cantillo e Dario Giugliano (Mursia 2014, in quest’ultimo libro sono stati raccolti gli interventi dei relatori che si espressero sul pensiero di Masullo qualche mese fa presso l’Accademia delle Belle Arti di Napoli e sono stati aggiunti altri preziosi studi), ebbene anche in considerazione solo di queste due opere, abbiamo fatto notare che Aldo Masullo è perennemente attraversato dall’inquietudine. Intesa questa, come egli stesso ci insegna, come sine quiete. Per esempio i personaggi di Piccolo teatro filosofico sono tra i più inquieti della storia dell’umanità: Giordano Bruno, Amleto, Papa Benedetto (XVI?), Eraclito l’Oscuro e anche “lo Sveglio Orologiaio”, ognuno è espressione d’inquietudine nella loro spasmodica ricerca della verità e nel contempo nell’affermazione della libertà del proprio pensiero: Bruno bruciato vivo perché il suo pensiero non si piegò ai dettami dei giudici della Controriforma; Benedetto (non specifica il Filosofo se si tratti di Benedetto XVI, ma intuiamo che si riferisca proprio a Lui), testimone della fede e della ricerca di una vita spirituale da insegnare anche al prossimo; Amleto nella sua impossibile drammatica scelta di “Essere o non essere”, pragmatismo o spiritualità? Ancora di più incide sull’inquietudine di questi personaggi “l’orologio smarrito” del tempo. Non possiamo dire che il tempo è inquieto, ma più semplicemente sono gli uomini a vivere questo sentimento, o meglio è l’uomo che cerca la verità che è inquieto. Dunque, l’inquieto non è colui che vive agitato, che non ha tempo per pensare, l’uomo del mercato virtuale, colui che rincorre la ricchezza e potere ad ogni costo: si assiste, in questo caso, più che altro allo spettacolo dell’uomo irrequieto, agitato, aggressivo, violento, o più semplicemente anche dell’uomo che si lascia vivere.
Il pensiero di Masullo in merito a quanto sopra si esplica in una dialettica non priva di fascino, in un accorto successorio di logica: “In tal caso inquieto può essere colui che cerca la verità, quindi un senso totale della vita che cerca con la ragione e non lo trova, nella eccezione agostiniana solo in Dio si può trovare questa pacificazione, inquietum io lo leggo come non essere quieto proprio perché la mia stessa soggettività si viene formando producendo questo alter ego dentro di me col quale io mi devo confrontare, che mi appare e mi sfugge e quindi mi inquieta. Poi c’è un terzo significato dell’inquieto, è quello che troviamo in qualche testo medievale, un certo Guigò, un abate, un benedettino francese, il quale scrive un libro di meditazione in cui parla dell’inquietudine in cui dice che è inquieto colui che non è sicuro, sicuro in senso etimologico significa senza cura, senza preoccupazione, quindi colui che non è senza preoccupazioni è inquieto, questa concezione dell’inquietudine si può certamente riportare a quella di Sant’Agostino, cioè io cerco il senso e non lo trovo, quindi sono inquieto, però in quella di Guigò c’è qualcosa di diverso perché non è la ricerca del senso che mi sfugge e quindi mi inquieta, ma è la ricerca della sicurezza che non riesco a realizzare, cioè mentre in Sant’Agostino è la ricerca del senso che dà pienezza alla mia vita, lì viceversa è la ricerca di essere al riparo dalle preoccupazioni, nel senso morale, però c’è una sfumatura diversa rispetto a Sant’Agostino, cioè l’inquietudine è il frutto della mancanza di sicurezza in Sant’Agostino è la mancanza di senso. Quindi sarebbe interessante investigare aspetti dell’interiorità come o fame di senso insoddisfatto o fame di sicurezza insoddisfatta, perché poi potremmo dire maliziosamente che lo spazio dell’interiorità cresce con la compressione della nostra capacità, della nostra capacità di esprimerci nell’oggettività del mondo. Quindi è il rifugio nella interiorità che si sceglie, quando il mondo non mi soddisfa, … si potrebbe dire che l’interiorità è il frutto dell’infelicità”.
È inquietudine, a nostro parere anche vivre en malaisie; la malaisie du vivre in poesia si esprime per esempio nei versi di Sandro Penna in una malinconico non senso della vita che ci sfugge dalle mani come acqua “io vivere vorrei addormentato entro il dolce rumore della vita… la vita… è ricordarsi di un risveglio /triste in un treno all’alba: la luce incerta: aver sentito /nel corpo rotto la malinconia /vergine e aspra nell’alba pungente. L’inquietudine è anche nel canto e nella musica: Nelle Nozze di Figaro di Beaumarchais, ma anche in quelle di Mozart, dello stesso Paisiello (la folle giornata), qui è l’eros a creare inquietudine, il pathos dell’amore o dell’odio può indurci ad atti irrefrenabile. Nel convegno abbiamo fatto riferimento a due fatti di cronaca correlati: alla mostra di Amedeo Modigliani e ses amis (10 ottobre-15 febbraio 2015) a Pisa, al Palazzo Blu, e ad un evento a Napoli il 9 dicembre nella basilica di San Giovanni Maggiore, dove ci sarà un concerto di Patti Smitt. A Pisa sono esposti circa 100 capolavori di Modì provenienti molti dal centro Pompidou e che hanno come protagonista Jeanne Hébuterne, musa e amante del Nostro negli ultimi tre anni della sua vita, in particolare potremo ammirare il “Nudo sdraiato” che ritrae Jeanne Hébuterne, la giovanissima fanciulla dai capelli ramati e dalla pelle bianchissima, morta suicida il giorno dopo la morte di Modigliani (1920). L’altro fatto, come dicevamo, riguarda la presenza di Patti Smitt a Napoli, la sacerdotessa del rock, la poetessa fiammeggiante, l’esempio della umanità lirica, di un maledettismo nell’arte che presenterà nel suo repertorio anche una canzone dedicata a Jeanne Hébuterne Dancing Barefoot (Ballando a piedi nudi), una canzone struggente, inquieta, traboccante di passione che fa riferimento all’amore tragico dei due artisti. Alla luce di questi due episodi potremmo parlare del protagonismo di due tipi d’inquietudine nell’opera d’arte: l’una creativa, l’altra, seppur creativa, mal calibrata che può portare anche al totale annientamento e, nel caso in oggetto, all’autoannientamento di se stessi. Modigliani muore di tisi, ma era già distrutto dall’alcool, Hébuterne, anche bravissima pittrice, si lancia dal quinto piano, subito dopo la morte dell’amato. Sono certamente anche questi due casi riferibili all’inquietudine che potrebbe essere anche considerata, a nostro avviso, madre dell’opera d’arte, ma che porta a volte anche a vivere l’esistenza in uno stato di dolore incontrollato. Anche in questo caso la risposta di Masullo è stata chiara e incisiva: “L’artista è colui che non si piega all’ipocrisia del mondo, è colui che cerca e vive la verità della vita e lotta eroicamente contro il mondo ipocrita, a volte fino a soccomberne”. La tensione emotiva, la ricerca della verità ad ogni costo, diviene dunque tensione etica. Sul suicidio, il Filosofo ha preferito non esprimersi per la delicatezza e il rispetto che tali fatti richiedono.

Molto interessante è stato anche l’intervento di Annella Prisco che nei principeschi luoghi ha accolto insieme all’avvocato Gennaro Famiglietti l’illustre ospite e il raffinato pubblico. L’elegante scrittrice (Figlia d’arte e Presidente del Centro Studi Michele Prisco, promotore anch’esso dell’incontro) ha sottolineato in particolar modo l’uomo della crisi tutto produttività, teso più che altro a confrontarsi con i mezzi virtuali e privo di uno spessore etico essenziale per migliorare i rapporti del vivere. Ha posto l’accento sul tema dell’inquietudine come solitudine dell’uomo moderno, come colui che ha perso la sua humanitas ed è divenuto immagine virtuale dell’apparire in un’efficienza che nulla ha a che vedere con la crescita delle esperienze umani e culturali. Le conclusioni sono venute dall'avv. Famiglietti, che ha insistito nell'interrogare il Professor Masullo sulle condizione attuali della città di Napoli; Masullo ha dato una risposta dolorosa, vedendo le condizioni della città peggiorate nel tempo: “Se prima esistevano due classi sociali, oggi ce ne sono tre: la povera gente, la cosiddetta classe media (moribonda) e la camorra che occupa sempre più spazi”. La possibilità per uscire dall’abisso c’è , questa è da identificare in un ruolo rivoluzionario, rispetto a quello attuale, dell’educazione che deve interessare la formazione dell’uomo fin da bambino”. La povertà di Napoli, come quella di tutto il Paese, è soprattutto una povertà culturale, bisognerebbe attuare un totale cambiamento di rotta, in cui ogni cittadino dovrebbe prendersi le proprie responsabilità.


RADUGA Premio letterario italo-russo per giovani autori


Bando della sesta edizione
Il Premio Raduga è un’iniziativa dedicata alla promozione di giovani narratori e traduttori, sia russi che italiani. Nasce dalla convinzione che vi sia sempre più bisogno di autori che – aprendosi alle mobili strutture del racconto – si pongano in sintonia con il futuro. In tale ottica, il Premio vuole mettere in luce particolarmente quei giovani nelle cui narrazioni sia avvertibile il desiderio di libertà.
Giunto alla sesta edizione, il Premio è sostenuto criticamente da una giuria formata da note personalità della letteratura. L’intento è far sì che i giovani letterati più meritevoli possano entrare in contatto con i settori intellettualmente più vivaci del mondo letterario italiano e russo. Il Premio garantisce oltre che un riconoscimento economico anche la pubblicazione delle migliori opere in un prestigioso volume antologico bilingue.
In Italia il Premio Raduga è organizzato dall’Associazione Conoscere Eurasia e dall’Istituto Letterario A.M. Gor’kij, in collaborazione con il Centro Russo di Scienza e Cultura a Roma (RosSotrudnichestvo) e l’Istituto Italiano di Cultura a Mosca.
Il Premio si svolge con il patrocinio dell’Agenzia Federale per la stampa e le comunicazioni di massa della Federazione Russa (Rospechat’) e con il sostegno di Banca Intesa Russia e TechEdge.

Modalità di partecipazione
per i giovani narratori e traduttori italiani

1. Oggetto del Premio: racconti di giovani narratori italiani (di età compresa tra i 18 e i 35 anni, cittadinanza italiana, residenti in Italia). Le opere, non superiori a cinque cartelle (10.000 battute, spazi compresi), devono essere inedite, non premiate in precedenza, né segnalate in altri concorsi letterari. Ogni partecipante deve inviare un solo testo, scritto in lingua italiana.
2. La periodicità del Premio è annuale e la partecipazione è gratuita.
3. La Giuria del Premio è composta da note personalità della letteratura italiana. La sua
composizione sarà resa nota all’atto della cerimonia di premiazione.
4. Tra tutti i lavori pervenuti, la Giuria sceglierà cinque opere, che verranno tradotte in lingua russa da cinque giovani traduttori russi e pubblicate con testo a fronte nell’Almanacco letterario 6. Ogni opera sarà seguita dalla biografia del narratore, da un’approfondita nota critica e da un ritratto fotografico. Il volume verrà distribuito sia in Italia che in Russia, al fine di far meglio conoscere in entrambi i Paesi il lavoro dei giovani narratori e dei giovani traduttori.
5. Cinque giovani traduttori italiani dalla lingua russa (di età compresa tra i 18 e i 35 anni, cittadinanza italiana, residenti in Italia) saranno scelti tra coloro che avranno inviato una propria prova di traduzione, oltre a un curriculum dettagliato dei propri studi, accompagnato dall’indicazione di nome e cognome, data e luogo di nascita, indirizzo di residenza, cellulare ed e-mail. La prova di traduzione – accompagnata dal testo originale e non superiore a cinque cartelle (10.000 battute, spazi compresi) – andrà svolta su un testo russo pubblicato dopo il 1950 e scelto liberamente dallo stesso traduttore.
 6. Tra i cinque narratori italiani pubblicati nell’Almanacco letterario 6, la Giuria sceglierà “Il giovane narratore dell’anno”, conferendogli un premio pari a 5.000,00 euro. L’annuale cerimonia di premiazione si terrà alternatamente in Russia e in Italia. In tale occasione sarà assegnato anche il premio “Il giovane traduttore dell’anno”, pari a 2.500,00 euro, a uno dei cinque traduttori dal russo.
7. Modalità di presentazione delle opere: i racconti vanno inviati via e-mail con documento salvato sia in Word che in PDF entro e non oltre il 20 gennaio 2015. Su documento a parte va inviata una breve nota bio-bibliografica (non più di 10 righe) con l’indicazione di nome e cognome del narratore, data e luogo di nascita, indirizzo di residenza, cellulare ed e-mail. Su tale documento l’autore dichiara altresì che l’opera è una propria creazione e che è responsabile del contenuto. Ne autorizza dunque la pubblicazione e la diffusione. Ciò vale come espressa cessione del diritto di autore.
8. Le opere in lingua italiana e le prove di traduzione vanno inviate all’Associazione Conoscere Eurasia, all’indirizzo e-mail: raduga@conoscereeurasia.it
9. I nomi dei cinque narratori e dei cinque traduttori finalisti saranno resi noti sul sito dell’Associazione entro il mese di marzo 2015. Entro il mese successivo saranno resi noti i nomi dei due vincitori.
10. La Cerimonia di Premiazione si terrà a Milano in occasione dell’Expo 2015. Per ulteriori informazioni: raduga@conoscereeurasia.it
tel. +39-045-80 20 904 (1), Iryna Shmatco 

giovedì 20 novembre 2014

Giuseppe Napolitano su "Ugo Piscopo. Terra nella sera" di Carmen Moscariello



Ugo Piscopo. Terra nella sera è un piccolo regalo dell'allieva al maestro per i suoi 8o anni (lucidamente portati in piena attività): Ugo Piscopo ha trovato in Carmen Moscariello una attenta lettrice e una testimone appassionata della sua vasta e poliedrica attività creativa e critica. Questo "piccolo regalo" (ben curato nell'edizione Guida) è un libretto composito e ricco - nell'esile densità delle sue pagine - di notevoli spunti per avvicinare e interpretare l'opera letteraria di Ugo Piscopo. Appena due anni fa, l'autrice di queste pagine si era occupata del maestro con affettuosa partecipazione, in Oboe per flauto traverso. L'intensa produzione che ha caratterizzato sempre lo scrittore irpino la costringe a tornare ancora su di lui per seguirne le tappe del lavoro nelle sue sfaccettature. Qui sono infatti presi in esame gli ultimi cinque libri, diversi per temi e stile, dalla poesia al saggio, alla narrativa: dagli haiku "bellissimi" di Oscilla mille ai saggi ironici degli Idilli napoletani e alla Calabria rivisitata "extra e intra moenia", dai sorprendenti racconti di Contrappunti e variazione su tema, al metateatro di Gramsci, chi?. Una delle costanti della scrittura di Ugo Piscopo, che ben risalta nella lettura critica di Carmen Moscariello, è il dolore. Ma un dolore assimilato, filtrato, elaborato, sopportato... poiché Piscopo, come dice nell'ampia intervista che correda questo volumetto a lui dedicato, è "uno tosto" (un "contadino che viene dalle montagne"), che la vita ha reso paziente e scaltro nell'affrontare i problemi e le persone sul suo cammino. Una volta si diceva pure che avessero "cervello fino", quelli come lui... e a lui viene spesso lo "sfizio" (sempre per citarlo) di prendersi gioco del prossimo, del lettore nel suo caso, depistando la sua attenzione e provocandolo con pagine a sorpresa. Tutto questo gioco letterario, umanissimo, comunque, di fine psicologia, nelle pagine di Carmen Moscariello diventa infine un atto di fiducia e quindi anche di comunione, poiché è lei a farlo confessare, a far dire al vecchio maestro - un "chierico laico", a lungo orgogliosamente scettico - di essersi, con l'età, riavvicinato a Dio. D'altronde, "la sua inquietudine si placa solo quando riesce a rubare alla natura il suo divino e a regalarcelo con la sua parola" - parole di una che lo conosce bene, che condivide la sua ricerca e sa che nelle sue "visioni" c'è sempre un "appuntamento di molte vite", almeno la sua e le nostre.

II Edizione Concorso Nazionale di Fotografia-Poesia “Costruiamo il Presepio” 2014

Il primo presepio al mondo fu realizzato a Greccio, un paesino della provincia di Rieti, da S. Francesco d’Assisi, nel 1223. Il santo organizzò un presepio vivente con gli abitanti del luogo, che impersonavano le figure della natività e la gente in adorazione. Da allora, il presepio è diventato una tradizione e ancora oggi, nelle nostre case, si realizza la scena della nascita di Gesù con le statuette, la mangiatoia, la stella cometa sulla grotta. Realizza anche tu un bellissimo presepio, scatta una fotografia, stampala in formato massimo di cm 20x25 insieme ad una tua poesia edita o inedita e mai premiata ai primi posti ispirata al paesaggio presentato in lingua italiana o in vernacolo con relativa traduzione, incolla tutto su un cartoncino colorato o con fantasia natalizia formato A3, piegalo a metà (la foto sulla seconda pagina con breve descrizione del presepio e la poesia sulla terza pagina, realizzato come poster) e partecipa alla

II Edizione Concorso Nazionale di Fotografia-Poesia “Costruiamo il Presepio” 2014

in modo che la fotografia comunichi sentimenti ed emozioni del Natale con la poesia. Il concorso si divide in due sezioni: A) Adulti; B) Giovani fino a 18 anni. Ogni concorrente può partecipare con un solo lavoro in due copie, di cui una di esse deve riportare il nome, il cognome, la città e la provincia. Su un foglio a parte vanno indicate: la sezione partecipante, la poesia, le generalità (per i giovani l’età), l’indirizzo completo, i numeri telefonici, l’indirizzo e-mail e la dichiarazione di autenticità e consenso all’uso dei dati personali per questioni inerenti al concorso. I dati personali acquisiti vengono trattati con la riservatezza prevista dalla legge 196/2003 e saranno utilizzati esclusivamente per l’invio di informazioni culturali e per gli adempimenti inerenti al concorso. I lavori dovranno essere spediti per posta prioritaria al seguente indirizzo: Antonio Nicolò Via S. Michele, 18 81025 Marcianise (CE). Per qualsiasi altra informazione scrivere all’email: costruiamopresepio@libero.it. Per spese di segreteria e di organizzazione si richiede un contributo di (5,00) cinque euro da inviare in busta chiusa unitamente ai lavori. I lavori non conformi alle norme predette non saranno ammessi e dovranno pervenire all’indirizzo sopra indicato entro e non oltre il 15 Dicembre 2014. Si chiede cortesemente agli autori di non attendere l’approssimarsi della scadenza del concorso ma di anticipare, se possibile, l’invio delle opere in modo tale da agevolare il lavoro della segreteria. La Giuria, il cui giudizio è insindacabile ed inappellabile, premierà i primi classificati ed avrà la facoltà di attribuire premi speciali e di menzionare o segnalare le opere più meritevoli. La cerimonia di premiazione avverrà in luogo e in data da stabilire nel mese di Gennaio 2015. Ogni artista, avvisato in tempo debito, dovrà ritirare personalmente il premio attribuitogli, è consentito delegare, per iscritto, qualcuno che intervenga in sua vece. I lavori non verranno restituiti. La partecipazione al concorso implica l’accettazione incondizionata del presente regolamento.
L’Organizzatore del Concorso

poeta acc. Antonio Nicolò

Francesco Sabatini ritira il Premio Cultura Don Giuseppe Morosini

Sabato 22 novembre 2014 si terrà a Ferentino (FR) la XXI edizione del Premio Cultura “Don Morosini” destinato a «personaggi, impegnati nella cultura, nel sociale, nell’imprenditoria, nel giornalismo e nello sport, che portano avanti il messaggio di pace e di libertà». L’Amministrazione Comunale, guidata da Antonio Pompeo, e il Comitato, coordinato da Primo Polletta, attribuiranno il premio a personalità della cultura italiana.

Il programma prevede, a partire dalle ore 9 presso il monumento al Vascello, un omaggio a Don Giuseppe Morosini, prete partigiano, ed un momento di raccoglimento. A seguire, nel salone di rappresentanza del Liceo Martino Filetico, il saluto delle Autorità, la relazione sulla figura del sacerdote, l'annuncio e la presentazione delle personalità premiate a cura dei Comitati di Ferentino e di Avellino. A conclusione, un intermezzo musicale a cura degli studenti degli Istituti Comprensivi cittadini.


Tra i premiati, Francesco Sabatini, magistrato ordinario e tributario ora a riposo, autore di numerose pubblicazioni. Tra le più recenti, il saggio di storia locale “Il giurista Biagio da Morcone, preposito della Chiesa di Atina nella prima metà del Trecento, il suo tempo e le origini della Chiesa atinate” e “Montecassino, Roma, Orvieto, Sansepolcro; quel sottile filo che unisce”, un omaggio all'Abbazia benedettina nel 70° anniversario della distruzione e un testo molto singolare per l'originale interpretazione dei fatti storici.

martedì 11 novembre 2014

Incontro con Aldo Masullo sul tema "L'inquietudine e il nostro tempo"


il 22 novembre all'Istituto di Cultura Meridionale di Napoli


invito/comunicato stampa



L'inquietudine e il nostro tempo” è il tema dell'incontro con Aldo Masullo previsto per sabato 22 novembre a Napoli,
all'Istituto di Cultura Meridionale di Napoli (Palazzo Arlotta, via Chiatamone 63).
A partire dalle ore 10,30 l'insigne filosofo sarà intervistato da Carmen Moscariello e da Annella Prisco,
nel corso di un simposio coordinato da Gennaro Famiglietti, presidente dell'Istituto di Cultura Meridionale,
che ha organizzato l'evento in collaborazione con il Centro Studi Michele Prisco.

sabato 8 novembre 2014

Chi ha ucciso Davide? Ovvero la Rivolta del Traiano - Ugo Piscopo

Il Traiano e quelli del Traiano hanno bucato lo schermo a Napoli, in Italia, nel mondo. Anche per loro, quindi, c’è finalmente un momento di gloria. Al centro dell’evento, la fine tragica di un ragazzo che non ancora aveva compiuto diciassette anni e la risposta impetuosa di solidarietà con lui data da un’insurrezione rionale.
E’ notte avanzata tra venerdì 5 e sabato 6 settembre 2014. Il quartiere è uno di quelli maggiormente a rischio dell’intera città. Grave è il malessere, eccitata l’atmosfera, molti punti al di sopra dell’ordinario. Essa qui è semplicemente ad altezza di sé stessa, del quartiere, di una gioventù bruciata che fa della condizione di esasperato malessere un titolo di distinzione e di orgoglio. Si vuole, perciò, restituire agli altri, al mondo costituito da tutt’altre tribù con le loro leggi e le loro consuetudini, una risposta ferma, da “giovani leoni”, come lascia scritto sul suo facebook Davide, il ragazzo che finisce tragicamente proprio quella notte, alle tre circa del mattino. Nell’interpretazione di un ruolo da protagonista della generalizzata volontà di schierarsi e di essere contro. Contro chi? Contro tutto e tutti, perché tutto e tutti sono contro il Rione Traiano, lo vorrebbero calpestare, schiacciare, cancellare dalla faccia della terra.
E’ un dovere, perciò, resistere, se possibile rènne ‘a paréglia, cioè restituire pan per focaccia. Che vorrebbero quelli, invece, cioè gli altri? Mettere e far valere le loro leggi, tenere qui carabinieri, finanzieri, poliziotti e compagnia bella? Per fare che? Mantenere l’ordine, essi dicono. Ed è ordine questo, che tiene in piedi colonie penali, schiavi incatenati alla povertà e all’abbandono, come quelli appunto del Rione Traiano, mentre dall’altra parte si pappano le ricchezze del popolo, a la facc re i fess, e ppo’ canteno e soneno allerament?
Perciò, carabinieri e compagni, se proprio non vogliono farsi del male, devono starsene buoni, devono vivere e lasciar vivere. Questa è l’intesa. Vogliono anche fare un po’ di scena? Vabbè, e chi glielo impedisce? Ma nel rispetto degli accordi. Passano i ragazzi con motorini senza assicurazione, senza provenienza, con false intestazioni, e che è? è niente. I ragazzi, ce l’hanno o non ce l’hanno la patente, è la stessa cosa. Patente o non patente, casco o non casco, rispetto o non rispetto per niente e nessuno: sono affari dei carabinieri? Vogliono i giovani sfrenarsi un po’ a razzi e a gara fra loro nella loro città, nel loro territorio? Mi pare giusto. E ll’at che vonno, o supierchio? La vita è la loro e questi qua non devono rompere. Poi, certo, sono in due, in tre, in quattro sopra lo stesso mezzo? Portano e smistano ‘nno poch’ ‘e rrob? Accompagnano ‘’nno pover Crist, cioè uno che tiene i conti in sospeso col tribunale o col carcere? E cch r’è? E’ normale, i giovani fanno esattamente quello che devono fare, in quanto si devono sfogare e in quanto devono vendicare i torti patiti dal loro Rione. A ffinale, se proprio si volessero portare i conti come si deve, giovani e vecchi del Rione, tutta la gente del quartiere, avrebbero tanto da esigere. Lasciamo stare, è meglio.
Loro, i carabinieri, per parte loro, se vogliono fare il loro dovere e vogliono rispettare i patti, non devono vedere, sentire, parlare, sapere. Rompere il cazzo. Niente di niente. Per loro, questo non è niente, proprio niente di niente, non sta succedendo niente, perché niente poi succede, se loro non danno fastidio. Al più, può esserci un regolamento di conti tra una famiglia e l’altra, si può ammazzare qualche carognone, qualcuno che sgarra, che non sa campare o che non vuole campare e far campare gli altri del Rione: ma questo non è niente, anzi, è la verità, significa solo fare un po’ di pulizia, come ogni tanto deve succedere. Non può mancare, è normale. Perché la monnezza va tolta di mezzo.
Se, proprio, questi carabinieri eccetera eccetera, e la legge stessa, volessero funzionare come si deve in questo Rione, dovrebbero dare una mano alla situazione. C’è tanto da fare. Devono ammanettare e portare al fresco chi dà fastidio, cioè qualche capuzziello che si vuole mettere in proprio e sfidare chi comanda: perché comandare veramente è un’arte di pochi e gli altri si devono solamente stare. Devono calare la testa e camminare inquadrati e rispettosi. Con gratitudine verso chi di dovere.
La legge, in pratica, quella vera, è quest’altra, quella fatta in casa, quella ordinata da chi comanda, da chi ci ha le palle di comandare nella zona: quell’altra, invece, quella scritta nei codici, è semplicemente per modo di dire, per buttare un po’ di polvere negli occhi. E’ cosa che sta sulla carta. Proprio come quando sulla facciata di un edificio si dice una cosa, e poi dietro la facciata se ne dice un’altra, quella concreta, che fa testo. La legge, allora, è quest’altra qua.
Voi, mo’, vorreste sapere qualcosa del boss o dei boss del Rione. Ma ve lo volete ficcare rint’’a cerevell che quello, il boss, appartiene al Rione e non si tocca, non si nomina nemmanco. E voi continuate a scuccià: è uno solo? sono tanti? sono del quartiere? che intrecci hanno con la politica, con l’industria, con i commerci e tutto il resto? Beh, queste, amici miei belli, non sono domande che si fanno, non dovete rompere. Vi deve bastare che c’è uno che comanda, certo. Magari una famiglia, che so? Ma a voi che ve ne fotte? Voi forse non calate il capo e ubbidite come le pecore a chi dovete ubbidire, quando arrivano gli ordini da lassù, dai poteri forti, o certe paroline dagli amici potenti e dai compari, certi suggerimenti da chi sa ed è bene informato? Non mi fate ridere, non ci pigliamo in giro. Tutto il mondo è paese. E Napoli è più paese di ogni altro. Da noi, sono tutti rioni e ogni rione è nelle mani di chi sa e può.
E meno male che è così. Che ci sta uno che indirizza, che ti dà una mano, che ti fa arrivare una cosa di soldi in mezzo alle difficoltà. Facciamo un esempio, il mio, quello di casa mia. Io e mia madre, poverella, intanto campiamo, perché c’è chi ci deve stare, che ci dà un aiuto. Mia madre che dovrebbe fare? Ma però, da questo momento, scendo io in campo, ragazzo o non ragazzo. Me la sento, e basta. Allora, la storia è questa. Mio padre, ad esempio, teneva un buchetto, cioè un negozietto, così per modo di dire. Perché, serviva a mascherare un po’ di attività. Mica tu vuoi campare con un piccolo negozio, che non vende niente. Quello è una finzione, per ammacchiare certi fatti. Poi il negozietto è fallito: è fallito, così per modo di dire. Si è chiuso, è stato chiuso, che vi voglio dire? E mio padre non ha avuto neppure più quella copertura. Allora, si è buttato allo scoperto e si è messo in giro come ambulante. Lo hanno acchiappato, questi qua, questi signori che a fine mese vanno a riscuotere la sfogliatella dello Stato, bella, pulita, sicura. Lo hanno acchiappato e buttato dentro. Mio fratello, un poco più grande di me, che è pure sveglio, è uno che se la sa vedere come me, si è avviato a un po’ di smercio. Beh, sempre questi signori qua, questi della sfogliatella di Stato, non tenevano nient’altro da fare: mica loro vanno ad acchiappare quelli che tengono le mani sui grandi affari pubblici e si spartiscono milioni e miliardi con i furbi e i furbetti, che si fanno rispettare dal mondo intero, si fanno vacanze da sultani negli alberghi più costosi del mondo. Sono ossequiati, riveriti, profumati e si pigliano le meglio femmine, le più fresche del mercato. Loro sì, se lo possono consentire e, quelle che voi chiamate le forze dell’ordine, - ordine di che? -, li ossequiano, gli vanno a baciare le mani, se capita l’occasione, cioè la fortuna. Invece con mio fratello, che è uno bravo, troppo bravo, non si sono regolati allo stesso modo: lo hanno acchiappato e fatto giudicare in tribunale. Seh, ‘o tribbunale, chill ch ffà ggiustizzia. ‘A ggiustizzia r’’a mamm.
Chill cert funzziona, ma ‘nguoll ai pover Criste. Quello funziona come vogliono farlo funzionare i potenti. Quello sta a loro disposizione per colpire i deboli, quelli che non sanno o non possono difendersi. E’ per questo che bisogna stringere i denti, essere contro, anche se uno ci deve rimettere la vita. Perché, la vita che è? ‘a vita è ‘nno muorz e se l’add magnà chi tène i rient, no cchi no ttene i rient. Pecché semp’accussì succèr: ‘o Pataterno mann’i biscuott à a cchi no ttene i riènt. …

“Piano, piano”, lo interrompo io, “ascoltami un po’…”. “Seh”, mi risponde beffardo prontissimo lui: “Accussì, essem fà. A la fina, mm’aite abbencere pe fforza. Vui sapit parlà”. Allora, gli spiego che forse so parlare un po’, ma che non esiste un solo modo di saper parlare. Lui, ad esempio, nel suo ambito sa parlare benissimo e mi può mettere perfino in difficoltà. A ogni modo, se io provassi a parlare il suo idioma, lui scoppierebbe a ridere, per il mio modo approssimativo e ridicolo di parlare quella sua lingua. Perciò, vado dritto su questa argomentazione: “Tu devi ascoltarmi, perché tu hai parlato e io ti ho ascoltato. Anzi, devi ascoltare con la stessa disponibilità con cui io ho ascoltato e sto ascoltando te e queste tue parole terribili, che dentro mi fanno tanto male. Alle spalle di queste parole, inoltre, ne sento tante altre, un fiume, ancora più terribili e non credo di sbagliare in questo mio sospetto”.
Interrompo, così, il mio giovane interlocutore del Traiano e gli racconto di me. Perché, per prendere contatto con chi ascolta, non c’è nessun miglior canale che parlare di sé, farsi identificare, far conoscere il proprio vissuto. Ma alla pari, come fra due che vanno nella stessa barca e remano insieme, non come uno che sa e vuole fare lezione ad uno che non sa. Anzi, con l’umiltà di chi ha molto da apprendere dall’altro.
Gli racconto di me. Che non avevo ancora trent’anni ed ero da poco sposato. Avevo scelto come sede di lavoro e come luogo di residenza Napoli. La decisione fu un po’ sofferta, perché pensavo a Milano, a Firenze, all’estero per le mie prospettive letterarie. Avevo scartato in partenza Avellino e l’Irpinia, di dove provengo, perché le sentivo irrimediabilmente arruolate in una congrega democristiana, chiusa in sé come in un infrangibile cerchio magico, non scalfibile neppure in superficie. Napoli, invece, mi appariva un ottimo terreno di prova, sia perché aveva un grande passato sul piano artistico e intellettuale, sia perché, se uno del Sud ha coraggio, deve confrontarsi col Sud e nel Sud per cercare di dare un contributo al miglioramento delle situazioni.
Lui fin qua mi ascolta, come annoiato, distratto e ostentamente paziente. Quando, però, passo a dire dove, cioè in quale quartiere, e perché avevo scelto di avere casa, mi comincia a guardare con interesse.
Scelsi, fra tanti quartieri, proprio Soccavo, nelle vicinanze della stazione della Cumana, al di sotto della quale inizia il Rione Traiano, un insieme di terreni, allora, che fino a qualche anno prima erano agricoli e che adesso erano in attesa di un altro destino, ingabbiati in un reticolo di strade aperte, larghe, pianeggianti, e di stradine minori. Qua e là, qualche palazzo nuovo e dignitoso, ma anche tanti edifici popolari e anche tante costruzioni in via di completamento. Era un cantiere aperto. Al centro, da est a ovest, era stata tracciata una strada nuova, imponente tra il Traiano a sud e la vecchia Soccavo a nord , che portava, nei suoi svolgimenti successivi, oltre la Montagna Spaccata, verso Pianura e poi Pozzuoli. Sul suo bordo si erano impiantati una banca, distributori di benzina, una ariosa farmacia, una clinica e tanti negozi più che dignitosi, in attesa di potenziarsi ulteriormente.
La mia casa si affacciava a sud e guardava verso la ferrovia Cumana, dove passavano i trenini che portavano verso il Lago Lucrino o tornavano di là, e che erano un forte motivo di attrazione per i miei figli piccolini. Esultavano, quando passava il trenino, e richiamavano con gridi di gioia e gesti di allegria l’attenzione della mamma e del papà. Essi erano felici, quando li potevo portare al “campetto”, che era nel Rione Traiano, dove hanno cominciato a muovere i primi passi, a camminare e a correre.
A questo punto, il mio giovane interlocutore, alza gli occhi verso di me con simpatia. Io continuo il racconto. Delle andate graduali oltre il “campetto”, sempre più giù verso il Traiano, Piazza Giovanni XXIII, la sezione comunale locale, il consultorio, i palazzoni popolari rivestiti di mattoncini rossi. Una volta, provammo a spingerci verso la Loggetta e oltre, arrivammo alla Mostra d’Oltremare, pensavo a Edenlandia. Ma i miei figli, stanchi si scoraggiarono. Tornammo a tappe a casa. Il più grandicello dei due, poteva avere tre-quattro anni, corse dritto a buttarsi sul lettino e cominciò a ridere, a ridere. La mamma gli chiese perché ridesse tanto, e lui rispose che erano i dolori che fanno ridere.
Io insegnavo al Liceo, allora VIII Scientifico, al Parco San Paolo, sul bordo di via Cinthia. I miei alunni erano tutti della zona (Fuorigrotta, il Traiano, Soccavo). Qualcuno veniva anche da Pianura e perfino da Pozzuoli. Quando, presto, passai a dirigere l’Istituto, progettai di trasportare il Liceo, allocato in un edificio privato, fra la Montagna Spaccata e il Traiano, perché sentivo che lì era l’asse ideale per lo svolgimento di un’attività formativa e culturale, che doveva proiettarsi fuori delle pareti scolastiche, entro un contesto esso stesso in formazione e in travolgente crescita. Un istituto è un ganglio che funziona bene, solo se coinvolge sia direttamente, sia indirettamente il territorio attorno.
Mi rivolsi a quelli dell’Amministrazione Provinciale, da cui dipendeva l’edilizia scolastica dei Licei scientifici e degli Istituti tecnici, per il mio progetto. Mi dissero di sì e cominciarono a studiarsi la proposta. Ma, la loro offerta, non la potei accettare, perché prevedeva la riattazione per il Liceo di un edificio costruito per civili abitazioni. Io volevo un istituto che fosse istituto anche architettonicamente, per poter accogliere degnamente studenti, famiglie, professori, tutti e per poter svolgere efficacemente e modernamente dibattiti, incontri, sperimentazioni e altre attività. Ma non accettai anche per altre non secondarie ragioni: perché significava far pagare alla pubblica amministrazione, tra riattazione, nuovi impianti, fitto dei locali, somme ingenti, che andavano ai privati, quando, invece, si sarebbe potuto costruire l’edificio con fondi pubblici, su suolo pubblico, senza pagare poi alcun fitto a nessuno. Lì attorno, c’era terreno a sbafo. Ma rifiutai, soprattutto per una ragione di trasparenza. L’edificio da loro individuato e studiato era stato costruito abusivamente e abusivo era tutto all’interno e all’esterno. Perfino gli attacchi all’acquedotto, alle fogne, alla corrente elettrica. Perfino il viale di accesso con tutto quello che era stato fatto attorno al corpo di fabbrica era abusivo. L’operazione, se fosse andata in porto, avrebbe fatto un grosso favore, ma grosso davvero, ad avventurieri e speculatori, i quali si sarebbero fatte togliere le castagne dal fuoco con lo zampino del gatto. Per loro sarebbe stato tutto gratis e la pubblica amministrazione avrebbe sopportato le spese e le responsabilità, anche quella di far figurare che tutto era a posto, per collaudi di agibilità staticità sicurezza antincendio. Vedevo in questo un fatto grave non solo in sé e per sé, ma per quello che significava: una sporca intesa tra speculatori, imbroglioni, gruppi di pressione e amministrazione. Perciò, dissi no, perché dovevo dire fermamente no.
Ma, in cuor mio, cominciai a temere che quello non fosse un episodio isolato, che una tendenza del genere si stesse diramando e rafforzando in tutta la zona, con la conseguenza di imporre un riconoscimento nei fatti di un’alleanza di forze varie, che potevano egemonizzare quegli spazi e orientare il tutto verso una degenerazione della vita civile e dell’etica stessa. Ecco, che si stesse mettendo addosso all’intero quartiere una cappa pesante e opaca di soffocamento della libertà e dello stesso slancio vitale. Cominciai a temere che i sogni di gloria per Soccavo, il Traiano, Pianura fossero in grave pericolo. Che le mie attese di lievitazione e affermazione di quel territorio e di quella società, fondate su una ridefinizione degli spazi e degli usi dei medesimi in senso moderno, sui processi di acculturazione, sull’intervento delle giovani energie, sulle proiezioni di calcoli riguardo all’aggravarsi delle contraddizioni sociali complessive, potessero andare deluse.
I timori, intanto, erano confermati dall’esperienza politica, che venivo facendo nella zona. Ero impegnato nella segreteria del Pci, sezione di via Giustiniano. Il Pci raccoglieva localmente il maggior numero di consensi. Seguivano rispettivamente la Dc e il Msi. Anche sul piano nazionale, il Pci di Enrico Berlinguer era in forte crescita, aveva avviato una manovra di sorpasso, che riuscì splendidamente e clamorosamente. Dal Pci, allora, anche gli avversari si aspettavano grandi e decisivi cambiamenti. E in questo partito, come in un fiume ricco di acque provenienti da vari versanti, scorrevano tensioni molteplici, ma non dissonanti. Non ancora le logge massoniche e gruppi di pressione vi avevano messo le mani sopra, cosa che avvenne nel corso degli anni Ottanta.
Lavoravo gomito a gomito con ragazzi e ragazze pieni di energia e di speranza, con operai, qualcuno dei quali mi commuoveva per la propria abnegazione, - uno di questi, Luongo, sofferente di asma, mi confidò che, se doveva morire, voleva morire mentre lavorava per il Partito. C’erano impiegati del Comune, dell’Enel, medici, infermieri, disoccupati, docenti, bidelli, lavoratori del settore privato. Uscivamo, magari divisi per squadre, a fare attacchinaggio insieme, a distribuire “l’Unità” insieme, a fare propaganda porta a porta. Sapevamo a memoria le situazioni buone e quelle cattive di ogni via, di ogni angolo, di ogni fabbricato. Personalmente, conoscevo come il fondo delle mie tasche, via Giustiniano, via Epomeo, Viale Traiano, via Adriano, via Nerva, via Tullo Ostilio, via Tertulliano, via Cassiodoro, via Tevere, via Ticino, via Piave. All’angolo, tra via Piave e via Tevere, in un fabbricato di recente costruzione riuscimmo a impiantare battagliando un centro polifunzionale, dove si tenevano dibattiti, proiezioni, mostre, eventi vari. Venivano là a parlare registi, artisti, designer, critici, attori, politici, sociologi, psicologi, giornalisti, non solo da Napoli, dell’Università e di altri Istituti di ricerca e di produzione culturale, ma anche da Roma, da Torino. Personalmente, da esperto del mondo scolastico, mi interessai dello sveltimento dei lavori e dell’accelerazione delle pratiche amministrative per la costruzione e l’avvio della Scuola media “Pirandello”, che, una volta avviata, presto, per effetto del boom demografico, si sdoppiò. Conquistai tale una simpatia, che, quando, nel 1982, fui candidato per il Pci alla Camera, per il collegio Napoli-Caserta, generai, senza volerlo e saperlo, una certa gelosia in Federazione. Infatti, nella distribuzione interna dei quartieri ai vari candidati, insieme con altri tre quartieri, avevo avuto anche Soccavo. Ma, a seguito di sondaggi, risultò che avrei “spopolato”, perciò la Federazione corse ai ripari e attribuì in corso d’opera Soccavo a un altro, a cui era stata garantita l’elezione al Parlamento. “A te”, mi dissero con grande serietà in Federazione, “diamo garanzia per le prossime elezioni. Per queste, devi sacrificarti e portare acqua al mulino”. E portai più di novemila voti, risultando tra i primi dei non eletti.
Il mio giovane amico del Rione Traiano, mi guarda compiaciuto, intanto mi segnala che lui non è che abbia capito tutto quello che ho detto, anche perché lui non è interessato a tanti problemi, come quelli della cultura e della scuola. A scuola, per potergli rilasciare la licenza media, è stata una storia lunghissima. Le sue presenze, si potevano contare sulla punta della dita. “A ffinale”, mi dice, “hann fatt ‘nno ‘nguacch, e mm’hann licinziat”. Ride, come perdonando ai suoi professori, che sono stati comprensivi con lui e con altri quasi come lui. Poi, precisa che ha avuto veramente piacere di sapere che io ho una conoscenza così precisa delle strade del suo Rione. Infine, mi lascia proseguire.
E io continuo, anche perché ho lasciato in sospeso qualcosa. E provvedo subito a metterlo alla luce del sole. Su questo slancio in avanti collettivo, sul fiorire di tante speranze mie e di tutti, si allungò qualche ombra anche dall’esperienza politica, riguardo alle alleanze che si venivano stringendo sull’uso e sul controllo del territorio e che non promettevano nulla di buono.
Sul lato della stazione della Cumana, che si affaccia sul Rione Traiano, appena si esce di sotto al ponte della ferrovia, in quattro e quattr’otto, lavorando anche di notte, era stata impiantata una palazzina tutta rivestita in vetro, vezzosamente moderna. Era per un’esposizione permanente di automobili dell’ultima generazione e per un ufficio vendite. Noi della segreteria del Pci prendemmo informazioni e sapemmo che era tutto abusivo, ma anche che uno dei nostri ci stava dentro e dava garanzie e che un altro appoggiava l’operazione dall’esterno, perché gli era stata garantita un’automobile ultimo modello. Tenemmo una riunione informale, invitando l’uno e l’altro. Il primo non si fece proprio vedere, l’altro fu presente, però negava. Presto, intanto, comparve in giro con la sua auto fiammante e, senza che nessuno glielo chiedesse, ci teneva a precisare, come scusandosi, che aveva così investito una bella sommetta che la moglie aveva avuto dalla famiglia.
Sentivo che il nemico avanzava, servendosi di mezzi subdoli, ma molto persuasivi.
“Sì, però,” mi fa notare il giovanissimo interlocutore, “si trattava di una semplice palazzina. Mo’, ammece, è tutt ‘nfett”.
“E’ vero”, confermo io, “ quelli e altri simili erano gli avvisi di uno sconvolgimento, che si sarebbe abbattuto catastroficamente sul quartiere e non solo sul nostro quartiere”.
“Ma tutto sto sott’ancoppa”, mi chiede questo ragazzo tutto casual e crestato alla Hamsik, “comm è stato pussib-l, si ‘a maggiuranz vulèva j’ a nn’ata parte? Tu comm’’o spiechi?”.
“Là per là”, rispondo, “non me lo sapevo spiegare neppure io. Speravo che quelli fossero episodi passeggeri. Una specie di influenza che poi passava. Ma dovevo registrare che purtroppo quella tendenza si rafforzava progressivamente e che tornava comodo a molti, se non a tutti, restare invischiati in questo processo”.
“Ma nc’eva stà nn’utele rint’a tutt chest, sinnò erano ‘nfissuti tutt quant?”, osserva lui.
“L’utile, certo, c’era”, ammetto io. “Ed era che era scattata una solidarietà di massa: io copro te, tu copri me. Zitto tu e zitto io, mentre, dentro a questa complicità, si stabiliva un contratto sociale per legittimare prevaricazioni, imbrogli, ruberie e perfino delitti. Così in basso, così in alto. In alto, tornavano i padroni, non quelli di una volta, altri, che erano più volgari, prepotenti e strafottenti di quelli di prima. A questo punto, me ne andai da Soccavo, dove la situazione era particolarmente penosa e brutale. E si allontanarono, quasi contemporaneamente, tanti intellettuali e artisti, amici miei e conoscenti, che prima con orgoglio provocatorio dichiaravano di risiedere a Soccavo.
“E non è stato nno ‘ngann, nno trademient?”, mi chiede lui.
“Non credo proprio”, mi giustifico io. “Quando si gira il vento e comincia a soffiare da un’altra parte, non si può fare niente. Ma il vento passa, il fatto è che nella realtà, quando si sono fatti dei guasti grossi, bisogna fare i conti con questi guasti, co sto’ scungiglio, come diresti tu”.
“Sì, va bbuo’”, fa lui, “iammo appriesso, pechhé ncopp’a chesto nce foss ra parlà assaje. Ropp, nce si’ turnat cchiù a ‘o Traiano?”
“Qualche volta”, riprendo, “ripassai per Soccavo, ma per trovare un cadavere al posto delle speranze di prima. Una volta, mi fermai e mi presentai al centro polifunzionale: volevo dare uno sguardo dentro. Mi bloccarono all’ingresso, mi dissero semplicemente che non ero gradito. Chiesi spiegazioni attorno alla gente. Seppi che quello non era più un centro polifunzionale, ma che i locali erano stati occupati da un centro sociale che era un bordello e faceva spavento.
Un’altra volta, da ispettore ministeriale, in una delle mie visite alla Scuola Media “Marotta”, che è stata la tua scuola, cioè la tua non-scuola, caro mio amico, perché ti sei rifiutato di frequentarla, e che io all’inizio avevo auspicato che venisse istituita appunto al Rione Traiano, al centro, mi sentii distante dal quartiere e da quella scuola come la terra dalla luna. La dirigente, la Professoressa Dente, molto seria e coscienziosa, mi aveva parlato, tra gli altri casi difficili e a rischio, di un ragazzo, il cui padre era in carcere e la cui famiglia era in una condizione di disagio estremo. Quella volta, al termine della mia visita, stavo per salutare la preside e andare via, quando lei mi fece cenno e mi disse in un orecchio che tra le mamme che stavano all’ingresso, c’era la donna di quel caso difficilissimo. Io dissi che volevo conoscerla. La preside la chiamò e lei venne un po’ sorpresa. Io mi presentai e le chiesi se potessi essere utile per qualcosa. Lei mi rispose senza esitazioni che non c’era proprio niente da fare nelle sue condizioni. Allora, io intesi di dirle qualche parola di incoraggiamento, la invitai a non avvilirsi, con l’auspicio che il marito presto tornasse dalla casa circondariale e stesse con la famiglia. Lei si irrigidì, fece un passo indietro, quasi un balzo, e, fissandomi feroce negli occhi, mi dichiarò che stavo bestemmiando, che le stavo facendo un malaugurio, che, invece, era bene che quello stronzo del marito se ne stesse per sempre in carcere e infradiciasse là dentro. Perché, se tornava a casa, era la fine, lei e i figli avevano finito di campare. Mi sembrava di essere caduto dalle nuvole e di trovarmi in un mondo non mio. Certamente, in una realtà, che non mi sarei mai immaginata di tale violenza. E riconobbi, con me stesso, di non essere più adeguato a relazionarmi con un rione, per il quale mi ero battuto con fervore in tante occasioni. Ero io un altro, adesso, o era il quartiere tutt’altra cosa da quello che era stato fino a una quindicina di anni prima?”
“Eh, accussì è. Pe cchest, nce vo a ggent co ‘e pall sott. ‘U bbiri puro tu o no?”, mi chiede questo baldo ragazzo con cui sto parlando.
“No, no”, faccio io, “non è questo che ci vuole. Ci vuole, invece, la cultura della legalità. Ci vuole una società che voglia e sappia rispettare diritti e doveri”.
“E ggià a cultura, sempe sta cultura. A cultura che r’è? Nui ccà, e io pe primm, nce sputamm ‘ncopp”.
“Però, per appoggiare un’altra cultura”.
“Che vene a dicere? Che nc’entra a cultura cu nnuie?”
“C’entra e come. Sarà un’altra cultura, in questo caso una cultura contro, ma comunque sempre cultura è”.
“No ppo’ esse, un me fazz capac. Tu mo’ mme vulisse fà a mme? Tu ‘un me faie. Nuie, mo’, a ‘o Traiano, essem tene a cultura. E addò ‘a tinimm sta cos?”
“Dove l’avete? Dentro e fuori di voi, nel cervello e nelle parole, oltre che in quello che fate e nelle maniere di fare”.
“Chesto è bbello: j mo’ teng a cultura cusut ‘nguoll! E che r’è nna cammis? E chi ‘o ssapeva sso fatt!”.
“Scusami, ma non hai detto poco fa che ci vuole uno che si faccia rispettare? Da dove ti viene questo pensiero se non dalla cultura tua e di quelli del Traiano che la pensano come te?”
“Allora, non ess cummenì pur’j ‘ncopp’a sto fatt?”, dice prontamente lui. “’A primma cosa ccà è c‘a legg add esse fatt respettà. E ‘nce vo’ chi nce vo, comme rich’j. E levammo accussì ra miezz sta storia r’a cultura”.
“No, no”, gli obietto, “come dici tu è come qua, al Rione Traiano, si vuole che tu dica e pensi. Tu, semplicemente, credi di dire tu, di parlare tu”.
“E com’essa rìcere? Comm’essa penzà?”, scatta lui. “Agg capit: essa penzà come rice ‘a tilivisione, come riceno sti sfaccimm re ggiurnal? A pirifiria, ‘a razz, e tutt u rièst?”.
“Lasciamo stare”, dico, “sono effettivamente sciocchezze”.
“Aeh!”, sghignazza, “sciucchézz, chiacchier, fessarie: so’ cazzate”.
“Magari, cazzatelle”, ammetto. “E’ così, nel mondo d’oggi, parlare di periferie, non ha senso più. La città moderna ha perduto il centro, è formata da un insieme di quelle che, in maniera inadeguata, sono ancora chiamate ‘periferie’. L’idea della razza, poi, è una bestialità, non merita commenti”.
“Pecché nu dicimm pur o rièst? Ca Napul è munnezz? Ca Napul è sfrantummat? Ca nc n’essem fuje ra Napule? Ca l’auturità è debbole, co’ nno sciusc va ‘nterra? Nuie po’ nc l’essem tene tutte ste offese. Comm rìcen ssi strunz lloc. Tu cch piènz, ca va bbuono accussi?”, incalza lui.
“Io non penso che questo vada bene. Non va bene. Nient’affatto. Ho sentito pure io queste e altre stupidaggini. Ma bisogna pure far parlare gli altri. Ognuno, poi, risponde di quello che dice”.
“Tu ric ca ‘o purpo se coce co ll’acqua soia stess? ‘O purpo, va bbuono. Ma chest so ‘nfamità, carugnat, zuzzarìe. Un s’hann permett. L’hann pavà, l’hann pavà. Vuje at, amméce, a chisti signuri ccà, ‘e ppurtati ‘nchiànta ‘e mano. E accussì vulit ‘mpapocchià ‘a ggènt”.
“Senti, non si può tappare la bocca agli stupidi. E gli stupidi sono tanti. Poi, se dovessimo parlare di quanto di sbagliato si fa e si dice nel mondo, non basterebbe una vita. Piuttosto, parliamo di noi. Parliamo di te”.
“E che bbuliss rìcere ‘nguoll’a mme?”
“Sul tuo conto non pretendo di dire e di sapere niente”.
“Meno male pe tte, j stev’aspettann”.
“A te, come ragazzo, però, vorrei dire qualcosa”.
Come ragazzo, j’ un songo ragazzo: ‘un ne ngarr una, rico una, bbona. Certamente, so gguaglione, pecché so giovene abbastantement. Ma so’ uno tuost, tuost assaje e pecchésto tenen respetto pe mme”.
“E’ appunto sulla tua durezza e sul fatto che sei rispettato per comportamenti pericolosi, che vorrei dire mezza parola”.
“J’, ra principie, sapeva ca ccà jemmo a fernesc. Un pirdimo tiemp, j’ un tengo tiemp. Chèllo ch’agg fa, ‘o fazz e bbast, mo’ e sempe”.
“Sempre, è facile a dirsi, ma che sappiamo noi di noi, che sai tu di te per sempre?”
“Chéste so’ ccose che ricen e penzen ll’ati. J’ stongo ccà e ccà stong’j’. E nisciun, manc ‘o Pataterno me smove”.
“Ognuno di noi può in qualunque momento ripensare e rivedere le proprie decisioni”.
“Ll’at sì, cert, certament, ma j’no ssongo ll’at. La vita d’’a meja, è d’’a meja. E’ dd’’o Traiano, chi tèn r’asigge arretrat co tutti l’interessi ‘a ll’at. Mo’ è ppejo pe ll’at, pe parlà co tutto ‘o core. Ccà, dottore bello, siènt a mme, ‘un se po’ penzà comm ric tu. Ccà è l’infern, nce stann ‘i rannati, e nc’è ppoc r’abbabbbià, ‘e nzaravoglià. Ccà, amico bbello, nce stann’ e sfaccimm, a munnezz chi te nn’ha fatt scappà a tte. ‘O Stat cche ffa? No mmov nnu rit. Si foss p’’o Stat, ‘nce putessm puzzà r’’a famm. E mmeno mal ca nce sta chi nce penza, chi nce rà nna man. Tu mm’ha’ nfracetat ‘a cap cu ‘a scola, ‘a cultura. Ma ‘o ssaje che r’è ‘a scol ccà? Chilli comm’a mme, ‘e caccen for, pecchè ranno fastirio. ‘E mmenen mmièzz’a via. ‘E famigl caccen for ‘e figl ca ‘un ncè spazio rint’’a cas. Ai mascul ricen guagliò truovet ‘a via, accumenza a penzà a tte e a nnui. A ‘a femmen ricen figlia bella, mo’ accummienz a ccresc, aggi pacienz e vviri re te varagnà caccos. Ccà tuttt quant, mascul e femmen, viecchie e ggiuven, c’imm ammentà nna cos minut pe mminut. E, nna cos pricìs ‘a sapimm: chi nc’imm vindicà. Adda scorr’o sang”.

Questo, più o meno, il dialogo col giovanetto del Traiano, che, senza lasciarmi l’opportunità di ribattere o di aggiungere qualche altra integrazione al discorso, balza sul suo fiammante motorino e parte a tutto gas, da baldanzoso e strafottente guappo, e con aria disgustata anche nei miei confronti, in quanto me ne sono andato pure io via, mentre avrei dovuto restare là e schierarmi con chi di dovere. Perché la questione di fondo è schierarsi una volta per sempre, costi quello che costi, con chi però sa comandare e sa farsi ubbidire senza se e senza ma. Opuramente s’adda pavà, adda scorre ‘o sang.
A questo punto, mi pongo e pongo all’eventuale lettore qualche domanda: chi ha ucciso Davide la notte fra il 5 e il 6 settembre 2014? chi ha tratto vantaggio dalla sua morte? di fronte a questo caso, è lecito chiamare in questione il fondamentalismo dell’anticittà di casa nostra? Si badi che le due ultime due parole suonano volutamente con implicazioni allusive ad altro, che non è “casa nostra”.

Carmen Moscariello - copertina libro "Argonautiche"


Prefazione a Terre nella sera di Manitta

Scrivere sull’opera di Ugo Piscopo non è compito semplice, perché significherebbe tracciare un percorso poetico, critico, teatrale e narrativo di ampio respiro. È arduo, dunque, riuscire ad orientarsi nelle opere di un autore complesso, perché in esse bisogna considerare molteplici punti di vista che vanno dalla visione filosofica alle raffinatezze stilistiche, dal sostrato autoriale al senso di una scrittura all’interno del panorama letterario, che sembra aver perso punti di riferimento sia ideologici sia letterari. Il tema affrontato dall’agile libro di Carmen Moscariello (che si avvale di una stesura magmatica, che cattura l’attenzione e coinvolge nelle sue figurazioni) è, però, abbastanza specifico: l’autrice s’immerge nei meandri e nelle maree delle ultime opere letterarie del Nostro, in prosa e in poesia: Oscilla mille (2013), Contrappunti e variazioni su tema (2013), Gramsci, chi? (2013), Idilli napoletani (2012), Calabria extra e intra moenia (2012). Ne emergono nuclei tematici e filosofici di rilevanza particolare che, inclusi in un primo capitolo del libro, sono individuabili nell’ossimoro, nel legame con la natura e le arti visive, in una dimensione esperienziale che va oltre i limiti autoimposti, in una ricerca non comune, capace di oltrepassare le mete e gli ostacoli, ma allo stesso tempo di rubare alla natura la sua essenza divina e di riportarla nell’arte della parola.
Un ragguaglio più specifico avviene in un secondo capitolo, in cui l’autrice offre una disamina delle opere pubblicate tra il 2012 e il 2013. Il pensiero, così come emerge dal commento a Contrappunti e variazioni, sfoglia le possibilità del libero arbitrio, ma allo stesso tempo le inquietudini contemporanee. Esse sono sia storiche che esistenziali, conseguenza di una necrosi del sociale e del letterario. Indubbio viene indicato il dinamismo di Piscopo, in prosa e in poesia. Inoltre, la complessità del frammento, e prova compiuta ne è Oscilla mille, può indire unità di intenti e di visioni, permettere di cogliere l’unicità del pensiero. Si tratta di uno scrittore che ha una dose di teatralità poco consueta, intendo la capacità pirandelliana di essere fluido, cangiante, arguto, ma soprattutto di tessere una ragnatela costituita da tanti punti focali. Si giunge così ad uno stadio straniante per il lettore, ovvero alla presentazione di scorci reali, o possibilmente realistici, che ora sono chiaramente delineati ora s’immergono nella costruzione mentale di una scenicità vicina al fantasioso e magico mondo di Cavacchioli, Bontempelli, Savinio, Stefano Landi ecc… Questi tratti sono possibili in quanto Carmen Moscariello parla di un contemporaneo che esce fuori dal coro del ‘talqualismo’, che ha maturato l’esperienza critica e artistica in generale: un intellettuale, in poche parole. Ovvero una personalità che, semplicemente, pensa quando scrive e scrive quanto pensa: dono raro nella corsa ad un successo sfrenato di cui molti pseudo-scrittori vanno alla ricerca. E da questa indole affiora un senso di ‘sospensione’, che si realizza nel frammento e nella visione metaforica del reale: perché il mondo è come Napoli, anzi la città di Napoli è per lo scrittore degli Idilli napoletani la metafora e l’amplificazione del mondo. Avviene un transfert, il medesimo che interessò Sciascia e la sua amata Sicilia.
Non bisogna dimenticare che ci troviamo di fronte ad uno sperimentatore, uno di quei pochi, però, che è riuscito a sintetizzare le ricerche avviate negli anni Sessanta e, in un percorso assolutamente originale che lo contraddistingue, l’essenza di una tradizione letteraria che si è protratta nel Novecento. Non è difficile ritrovare in Oscilla mille, ad esempio, echi e riscontri pascoliani. E il riferimento al poeta di San Mauro non è casuale, perché in esso si reperisce una delle più proficue fucine ‘musicali’ della poesia italiana. Difatti, l’opera di Piscopo è musicale, oltre che sperimentale. Il riscontro critico che si delinea per Oscilla mille ha una portata non indifferente: sintesi di una tradizione orientale, che è l’haiku, di una ricercatezza letteraria e linguistica italiana, del plurilinguismo di estrazione sperimentale. Perfettamente condivisibile, dunque, l’indicazione che Marcello Carlino ha dato nella prefazione a questa silloge poetica: egli atomizza, attua un processo pittorico non dissimile a quello di Seurat. Il frammento è, dunque, unitario, ma allo stesso tempo variegato e molteplice.
L’ossimoro e la vitalità magmatica del dettato nascono alle volte dalla lacerazione e dalla complessità, dalla duttilità che un intellettuale deve possedere di fronte alla ‘sua’ realtà. È questo il senso, a nostro modo di vedere, di una delle tante ammissioni dell’autore, presente nell’intervista che si pubblica in esergo alle considerazioni di Carmen Moscariello: «L’individuo e l’intellettuale, nel mondo moderno, hanno ragioni più stimolanti per esserci e per affrontare le dure prove, che li attendono, ma devono operare secondo nuovi modelli di duttilità, di creatività, e anche di scaltrezza, partendo da una lucida consapevolezza delle dinamiche generali in atto». Per più versi il personaggio Piscopo, presente in ogni creazione, si avvicina a quello di Gramsci in Gramsci, chi?. Se nell’opera teatrale sono attori, regista e personaggi a ‘cercare’ Gramsci e ad inquadrarne questa sua assenza, che poi per assurdo è presenza assoluta, nella produzione letteraria l’ossimoro di cui parla la Moscariello si identifica proprio in questa dialettica assenza-presenza dello stesso artefice, nel suo procedere (si vedano in questo caso gli haiku di Oscilla mille) per frammenti e sospensioni, interruzioni e volute.
Leggendo queste pagine, si ha l’impressione che le induzioni critiche dell’autrice, o visioni come lei stessa ammette, dirigano lo sguardo su un uomo dal complesso atteggiamento filosofico, che si delinea progressivamente nella pluralità ‘dicendi’. In questo diorama immaginativo e riflessivo, egli diventa la fucina del contemporaneo. Dai versi, dalle divagazioni teatrali e dal procedere narrativo, Piscopo ci offre il suo sguardo sul mondo, anche quando affronta le ‘piccole cose’ al di qua dei grandi temi. È in questo sguardo che dobbiamo ricercare la vera essenza della scrittura, uno sguardo che sta in limine, ma la cui acutezza, se osserviamo attentamente, è perforante e indicativa per la società intellettuale di oggi.


Giuseppe Manitta