Il Traiano e quelli del Traiano hanno
bucato lo schermo a Napoli, in Italia, nel mondo. Anche per loro,
quindi, c’è finalmente un momento di gloria. Al centro
dell’evento, la fine tragica di un ragazzo che non ancora aveva
compiuto diciassette anni e la risposta impetuosa di solidarietà con
lui data da un’insurrezione rionale.
E’ notte avanzata tra venerdì 5 e
sabato 6 settembre 2014. Il quartiere è uno di quelli maggiormente a
rischio dell’intera città. Grave è il malessere, eccitata
l’atmosfera, molti punti al di sopra dell’ordinario. Essa qui è
semplicemente ad altezza di sé stessa, del quartiere, di una
gioventù bruciata che fa della condizione di esasperato malessere un
titolo di distinzione e di orgoglio. Si vuole, perciò, restituire
agli altri, al mondo costituito da tutt’altre tribù con le loro
leggi e le loro consuetudini, una risposta ferma, da “giovani
leoni”, come lascia scritto sul suo facebook Davide, il ragazzo che
finisce tragicamente proprio quella notte, alle tre circa del
mattino. Nell’interpretazione di un ruolo da protagonista della
generalizzata volontà di schierarsi e di essere contro. Contro chi?
Contro tutto e tutti, perché tutto e tutti sono contro il Rione
Traiano, lo vorrebbero calpestare, schiacciare, cancellare dalla
faccia della terra.
E’ un dovere, perciò, resistere, se
possibile rènne ‘a paréglia, cioè restituire pan per focaccia.
Che vorrebbero quelli, invece, cioè gli altri? Mettere e far valere
le loro leggi, tenere qui carabinieri, finanzieri, poliziotti e
compagnia bella? Per fare che? Mantenere l’ordine, essi dicono. Ed
è ordine questo, che tiene in piedi colonie penali, schiavi
incatenati alla povertà e all’abbandono, come quelli appunto del
Rione Traiano, mentre dall’altra parte si pappano le ricchezze del
popolo, a la facc re i fess, e ppo’ canteno e soneno allerament?
Perciò, carabinieri e compagni, se
proprio non vogliono farsi del male, devono starsene buoni, devono
vivere e lasciar vivere. Questa è l’intesa. Vogliono anche fare un
po’ di scena? Vabbè, e chi glielo impedisce? Ma nel rispetto degli
accordi. Passano i ragazzi con motorini senza assicurazione, senza
provenienza, con false intestazioni, e che è? è niente. I ragazzi,
ce l’hanno o non ce l’hanno la patente, è la stessa cosa.
Patente o non patente, casco o non casco, rispetto o non rispetto per
niente e nessuno: sono affari dei carabinieri? Vogliono i giovani
sfrenarsi un po’ a razzi e a gara fra loro nella loro città, nel
loro territorio? Mi pare giusto. E ll’at che vonno, o supierchio?
La vita è la loro e questi qua non devono rompere. Poi, certo, sono
in due, in tre, in quattro sopra lo stesso mezzo? Portano e smistano
‘nno poch’ ‘e rrob? Accompagnano ‘’nno pover Crist, cioè
uno che tiene i conti in sospeso col tribunale o col carcere? E cch
r’è? E’ normale, i giovani fanno esattamente quello che devono
fare, in quanto si devono sfogare e in quanto devono vendicare i
torti patiti dal loro Rione. A ffinale, se proprio si volessero
portare i conti come si deve, giovani e vecchi del Rione, tutta la
gente del quartiere, avrebbero tanto da esigere. Lasciamo stare, è
meglio.
Loro, i carabinieri, per parte loro, se
vogliono fare il loro dovere e vogliono rispettare i patti, non
devono vedere, sentire, parlare, sapere. Rompere il cazzo. Niente di
niente. Per loro, questo non è niente, proprio niente di niente, non
sta succedendo niente, perché niente poi succede, se loro non danno
fastidio. Al più, può esserci un regolamento di conti tra una
famiglia e l’altra, si può ammazzare qualche carognone, qualcuno
che sgarra, che non sa campare o che non vuole campare e far campare
gli altri del Rione: ma questo non è niente, anzi, è la verità,
significa solo fare un po’ di pulizia, come ogni tanto deve
succedere. Non può mancare, è normale. Perché la monnezza va tolta
di mezzo.
Se, proprio, questi carabinieri
eccetera eccetera, e la legge stessa, volessero funzionare come si
deve in questo Rione, dovrebbero dare una mano alla situazione. C’è
tanto da fare. Devono ammanettare e portare al fresco chi dà
fastidio, cioè qualche capuzziello che si vuole mettere in proprio e
sfidare chi comanda: perché comandare veramente è un’arte di
pochi e gli altri si devono solamente stare. Devono calare la testa e
camminare inquadrati e rispettosi. Con gratitudine verso chi di
dovere.
La legge, in pratica, quella vera, è
quest’altra, quella fatta in casa, quella ordinata da chi comanda,
da chi ci ha le palle di comandare nella zona: quell’altra, invece,
quella scritta nei codici, è semplicemente per modo di dire, per
buttare un po’ di polvere negli occhi. E’ cosa che sta sulla
carta. Proprio come quando sulla facciata di un edificio si dice una
cosa, e poi dietro la facciata se ne dice un’altra, quella
concreta, che fa testo. La legge, allora, è quest’altra qua.
Voi, mo’, vorreste sapere qualcosa
del boss o dei boss del Rione. Ma ve lo volete ficcare rint’’a
cerevell che quello, il boss, appartiene al Rione e non si tocca, non
si nomina nemmanco. E voi continuate a scuccià: è uno solo? sono
tanti? sono del quartiere? che intrecci hanno con la politica, con
l’industria, con i commerci e tutto il resto? Beh, queste, amici
miei belli, non sono domande che si fanno, non dovete rompere. Vi
deve bastare che c’è uno che comanda, certo. Magari una famiglia,
che so? Ma a voi che ve ne fotte? Voi forse non calate il capo e
ubbidite come le pecore a chi dovete ubbidire, quando arrivano gli
ordini da lassù, dai poteri forti, o certe paroline dagli amici
potenti e dai compari, certi suggerimenti da chi sa ed è bene
informato? Non mi fate ridere, non ci pigliamo in giro. Tutto il
mondo è paese. E Napoli è più paese di ogni altro. Da noi, sono
tutti rioni e ogni rione è nelle mani di chi sa e può.
E meno male che è così. Che ci sta
uno che indirizza, che ti dà una mano, che ti fa arrivare una cosa
di soldi in mezzo alle difficoltà. Facciamo un esempio, il mio,
quello di casa mia. Io e mia madre, poverella, intanto campiamo,
perché c’è chi ci deve stare, che ci dà un aiuto. Mia madre che
dovrebbe fare? Ma però, da questo momento, scendo io in campo,
ragazzo o non ragazzo. Me la sento, e basta. Allora, la storia è
questa. Mio padre, ad esempio, teneva un buchetto, cioè un
negozietto, così per modo di dire. Perché, serviva a mascherare un
po’ di attività. Mica tu vuoi campare con un piccolo negozio, che
non vende niente. Quello è una finzione, per ammacchiare certi
fatti. Poi il negozietto è fallito: è fallito, così per modo di
dire. Si è chiuso, è stato chiuso, che vi voglio dire? E mio padre
non ha avuto neppure più quella copertura. Allora, si è buttato
allo scoperto e si è messo in giro come ambulante. Lo hanno
acchiappato, questi qua, questi signori che a fine mese vanno a
riscuotere la sfogliatella dello Stato, bella, pulita, sicura. Lo
hanno acchiappato e buttato dentro. Mio fratello, un poco più grande
di me, che è pure sveglio, è uno che se la sa vedere come me, si è
avviato a un po’ di smercio. Beh, sempre questi signori qua, questi
della sfogliatella di Stato, non tenevano nient’altro da fare: mica
loro vanno ad acchiappare quelli che tengono le mani sui grandi
affari pubblici e si spartiscono milioni e miliardi con i furbi e i
furbetti, che si fanno rispettare dal mondo intero, si fanno vacanze
da sultani negli alberghi più costosi del mondo. Sono ossequiati,
riveriti, profumati e si pigliano le meglio femmine, le più fresche
del mercato. Loro sì, se lo possono consentire e, quelle che voi
chiamate le forze dell’ordine, - ordine di che? -, li ossequiano,
gli vanno a baciare le mani, se capita l’occasione, cioè la
fortuna. Invece con mio fratello, che è uno bravo, troppo bravo, non
si sono regolati allo stesso modo: lo hanno acchiappato e fatto
giudicare in tribunale. Seh, ‘o tribbunale, chill ch ffà
ggiustizzia. ‘A ggiustizzia r’’a mamm.
Chill cert funzziona, ma ‘nguoll ai
pover Criste. Quello funziona come vogliono farlo funzionare i
potenti. Quello sta a loro disposizione per colpire i deboli, quelli
che non sanno o non possono difendersi. E’ per questo che bisogna
stringere i denti, essere contro, anche se uno ci deve rimettere la
vita. Perché, la vita che è? ‘a vita è ‘nno muorz e se l’add
magnà chi tène i rient, no cchi no ttene i rient. Pecché
semp’accussì succèr: ‘o Pataterno mann’i biscuott à a cchi
no ttene i riènt. …
“Piano, piano”, lo interrompo io,
“ascoltami un po’…”. “Seh”, mi risponde beffardo
prontissimo lui: “Accussì, essem fà. A la fina, mm’aite
abbencere pe fforza. Vui sapit parlà”. Allora, gli spiego che
forse so parlare un po’, ma che non esiste un solo modo di saper
parlare. Lui, ad esempio, nel suo ambito sa parlare benissimo e mi
può mettere perfino in difficoltà. A ogni modo, se io provassi a
parlare il suo idioma, lui scoppierebbe a ridere, per il mio modo
approssimativo e ridicolo di parlare quella sua lingua. Perciò, vado
dritto su questa argomentazione: “Tu devi ascoltarmi, perché tu
hai parlato e io ti ho ascoltato. Anzi, devi ascoltare con la stessa
disponibilità con cui io ho ascoltato e sto ascoltando te e queste
tue parole terribili, che dentro mi fanno tanto male. Alle spalle di
queste parole, inoltre, ne sento tante altre, un fiume, ancora più
terribili e non credo di sbagliare in questo mio sospetto”.
Interrompo, così, il mio giovane
interlocutore del Traiano e gli racconto di me. Perché, per prendere
contatto con chi ascolta, non c’è nessun miglior canale che
parlare di sé, farsi identificare, far conoscere il proprio vissuto.
Ma alla pari, come fra due che vanno nella stessa barca e remano
insieme, non come uno che sa e vuole fare lezione ad uno che non sa.
Anzi, con l’umiltà di chi ha molto da apprendere dall’altro.
Gli racconto di me. Che non avevo
ancora trent’anni ed ero da poco sposato. Avevo scelto come sede di
lavoro e come luogo di residenza Napoli. La decisione fu un po’
sofferta, perché pensavo a Milano, a Firenze, all’estero per le
mie prospettive letterarie. Avevo scartato in partenza Avellino e
l’Irpinia, di dove provengo, perché le sentivo irrimediabilmente
arruolate in una congrega democristiana, chiusa in sé come in un
infrangibile cerchio magico, non scalfibile neppure in superficie.
Napoli, invece, mi appariva un ottimo terreno di prova, sia perché
aveva un grande passato sul piano artistico e intellettuale, sia
perché, se uno del Sud ha coraggio, deve confrontarsi col Sud e nel
Sud per cercare di dare un contributo al miglioramento delle
situazioni.
Lui fin qua mi ascolta, come annoiato,
distratto e ostentamente paziente. Quando, però, passo a dire dove,
cioè in quale quartiere, e perché avevo scelto di avere casa, mi
comincia a guardare con interesse.
Scelsi, fra tanti quartieri, proprio
Soccavo, nelle vicinanze della stazione della Cumana, al di sotto
della quale inizia il Rione Traiano, un insieme di terreni, allora,
che fino a qualche anno prima erano agricoli e che adesso erano in
attesa di un altro destino, ingabbiati in un reticolo di strade
aperte, larghe, pianeggianti, e di stradine minori. Qua e là,
qualche palazzo nuovo e dignitoso, ma anche tanti edifici popolari e
anche tante costruzioni in via di completamento. Era un cantiere
aperto. Al centro, da est a ovest, era stata tracciata una strada
nuova, imponente tra il Traiano a sud e la vecchia Soccavo a nord ,
che portava, nei suoi svolgimenti successivi, oltre la Montagna
Spaccata, verso Pianura e poi Pozzuoli. Sul suo bordo si erano
impiantati una banca, distributori di benzina, una ariosa farmacia,
una clinica e tanti negozi più che dignitosi, in attesa di
potenziarsi ulteriormente.
La mia casa si affacciava a sud e
guardava verso la ferrovia Cumana, dove passavano i trenini che
portavano verso il Lago Lucrino o tornavano di là, e che erano un
forte motivo di attrazione per i miei figli piccolini. Esultavano,
quando passava il trenino, e richiamavano con gridi di gioia e gesti
di allegria l’attenzione della mamma e del papà. Essi erano
felici, quando li potevo portare al “campetto”, che era nel Rione
Traiano, dove hanno cominciato a muovere i primi passi, a camminare e
a correre.
A questo punto, il mio giovane
interlocutore, alza gli occhi verso di me con simpatia. Io continuo
il racconto. Delle andate graduali oltre il “campetto”, sempre
più giù verso il Traiano, Piazza Giovanni XXIII, la sezione
comunale locale, il consultorio, i palazzoni popolari rivestiti di
mattoncini rossi. Una volta, provammo a spingerci verso la Loggetta e
oltre, arrivammo alla Mostra d’Oltremare, pensavo a Edenlandia. Ma
i miei figli, stanchi si scoraggiarono. Tornammo a tappe a casa. Il
più grandicello dei due, poteva avere tre-quattro anni, corse dritto
a buttarsi sul lettino e cominciò a ridere, a ridere. La mamma gli
chiese perché ridesse tanto, e lui rispose che erano i dolori che
fanno ridere.
Io insegnavo al Liceo, allora VIII
Scientifico, al Parco San Paolo, sul bordo di via Cinthia. I miei
alunni erano tutti della zona (Fuorigrotta, il Traiano, Soccavo).
Qualcuno veniva anche da Pianura e perfino da Pozzuoli. Quando,
presto, passai a dirigere l’Istituto, progettai di trasportare il
Liceo, allocato in un edificio privato, fra la Montagna Spaccata e il
Traiano, perché sentivo che lì era l’asse ideale per lo
svolgimento di un’attività formativa e culturale, che doveva
proiettarsi fuori delle pareti scolastiche, entro un contesto esso
stesso in formazione e in travolgente crescita. Un istituto è un
ganglio che funziona bene, solo se coinvolge sia direttamente, sia
indirettamente il territorio attorno.
Mi rivolsi a quelli
dell’Amministrazione Provinciale, da cui dipendeva l’edilizia
scolastica dei Licei scientifici e degli Istituti tecnici, per il mio
progetto. Mi dissero di sì e cominciarono a studiarsi la proposta.
Ma, la loro offerta, non la potei accettare, perché prevedeva la
riattazione per il Liceo di un edificio costruito per civili
abitazioni. Io volevo un istituto che fosse istituto anche
architettonicamente, per poter accogliere degnamente studenti,
famiglie, professori, tutti e per poter svolgere efficacemente e
modernamente dibattiti, incontri, sperimentazioni e altre attività.
Ma non accettai anche per altre non secondarie ragioni: perché
significava far pagare alla pubblica amministrazione, tra
riattazione, nuovi impianti, fitto dei locali, somme ingenti, che
andavano ai privati, quando, invece, si sarebbe potuto costruire
l’edificio con fondi pubblici, su suolo pubblico, senza pagare poi
alcun fitto a nessuno. Lì attorno, c’era terreno a sbafo. Ma
rifiutai, soprattutto per una ragione di trasparenza. L’edificio da
loro individuato e studiato era stato costruito abusivamente e
abusivo era tutto all’interno e all’esterno. Perfino gli attacchi
all’acquedotto, alle fogne, alla corrente elettrica. Perfino il
viale di accesso con tutto quello che era stato fatto attorno al
corpo di fabbrica era abusivo. L’operazione, se fosse andata in
porto, avrebbe fatto un grosso favore, ma grosso davvero, ad
avventurieri e speculatori, i quali si sarebbero fatte togliere le
castagne dal fuoco con lo zampino del gatto. Per loro sarebbe stato
tutto gratis e la pubblica amministrazione avrebbe sopportato le
spese e le responsabilità, anche quella di far figurare che tutto
era a posto, per collaudi di agibilità staticità sicurezza
antincendio. Vedevo in questo un fatto grave non solo in sé e per
sé, ma per quello che significava: una sporca intesa tra
speculatori, imbroglioni, gruppi di pressione e amministrazione.
Perciò, dissi no, perché dovevo dire fermamente no.
Ma, in cuor mio, cominciai a temere che
quello non fosse un episodio isolato, che una tendenza del genere si
stesse diramando e rafforzando in tutta la zona, con la conseguenza
di imporre un riconoscimento nei fatti di un’alleanza di forze
varie, che potevano egemonizzare quegli spazi e orientare il tutto
verso una degenerazione della vita civile e dell’etica stessa.
Ecco, che si stesse mettendo addosso all’intero quartiere una cappa
pesante e opaca di soffocamento della libertà e dello stesso slancio
vitale. Cominciai a temere che i sogni di gloria per Soccavo, il
Traiano, Pianura fossero in grave pericolo. Che le mie attese di
lievitazione e affermazione di quel territorio e di quella società,
fondate su una ridefinizione degli spazi e degli usi dei medesimi in
senso moderno, sui processi di acculturazione, sull’intervento
delle giovani energie, sulle proiezioni di calcoli riguardo
all’aggravarsi delle contraddizioni sociali complessive, potessero
andare deluse.
I timori, intanto, erano confermati
dall’esperienza politica, che venivo facendo nella zona. Ero
impegnato nella segreteria del Pci, sezione di via Giustiniano. Il
Pci raccoglieva localmente il maggior numero di consensi. Seguivano
rispettivamente la Dc e il Msi. Anche sul piano nazionale, il Pci di
Enrico Berlinguer era in forte crescita, aveva avviato una manovra di
sorpasso, che riuscì splendidamente e clamorosamente. Dal Pci,
allora, anche gli avversari si aspettavano grandi e decisivi
cambiamenti. E in questo partito, come in un fiume ricco di acque
provenienti da vari versanti, scorrevano tensioni molteplici, ma non
dissonanti. Non ancora le logge massoniche e gruppi di pressione vi
avevano messo le mani sopra, cosa che avvenne nel corso degli anni
Ottanta.
Lavoravo gomito a gomito con ragazzi e
ragazze pieni di energia e di speranza, con operai, qualcuno dei
quali mi commuoveva per la propria abnegazione, - uno di questi,
Luongo, sofferente di asma, mi confidò che, se doveva morire, voleva
morire mentre lavorava per il Partito. C’erano impiegati del
Comune, dell’Enel, medici, infermieri, disoccupati, docenti,
bidelli, lavoratori del settore privato. Uscivamo, magari divisi per
squadre, a fare attacchinaggio insieme, a distribuire “l’Unità”
insieme, a fare propaganda porta a porta. Sapevamo a memoria le
situazioni buone e quelle cattive di ogni via, di ogni angolo, di
ogni fabbricato. Personalmente, conoscevo come il fondo delle mie
tasche, via Giustiniano, via Epomeo, Viale Traiano, via Adriano, via
Nerva, via Tullo Ostilio, via Tertulliano, via Cassiodoro, via
Tevere, via Ticino, via Piave. All’angolo, tra via Piave e via
Tevere, in un fabbricato di recente costruzione riuscimmo a
impiantare battagliando un centro polifunzionale, dove si tenevano
dibattiti, proiezioni, mostre, eventi vari. Venivano là a parlare
registi, artisti, designer, critici, attori, politici, sociologi,
psicologi, giornalisti, non solo da Napoli, dell’Università e di
altri Istituti di ricerca e di produzione culturale, ma anche da
Roma, da Torino. Personalmente, da esperto del mondo scolastico, mi
interessai dello sveltimento dei lavori e dell’accelerazione delle
pratiche amministrative per la costruzione e l’avvio della Scuola
media “Pirandello”, che, una volta avviata, presto, per effetto
del boom demografico, si sdoppiò. Conquistai tale una simpatia, che,
quando, nel 1982, fui candidato per il Pci alla Camera, per il
collegio Napoli-Caserta, generai, senza volerlo e saperlo, una certa
gelosia in Federazione. Infatti, nella distribuzione interna dei
quartieri ai vari candidati, insieme con altri tre quartieri, avevo
avuto anche Soccavo. Ma, a seguito di sondaggi, risultò che avrei
“spopolato”, perciò la Federazione corse ai ripari e attribuì
in corso d’opera Soccavo a un altro, a cui era stata garantita
l’elezione al Parlamento. “A te”, mi dissero con grande serietà
in Federazione, “diamo garanzia per le prossime elezioni. Per
queste, devi sacrificarti e portare acqua al mulino”. E portai più
di novemila voti, risultando tra i primi dei non eletti.
Il mio giovane amico del Rione Traiano,
mi guarda compiaciuto, intanto mi segnala che lui non è che abbia
capito tutto quello che ho detto, anche perché lui non è
interessato a tanti problemi, come quelli della cultura e della
scuola. A scuola, per potergli rilasciare la licenza media, è stata
una storia lunghissima. Le sue presenze, si potevano contare sulla
punta della dita. “A ffinale”, mi dice, “hann fatt ‘nno
‘nguacch, e mm’hann licinziat”. Ride, come perdonando ai suoi
professori, che sono stati comprensivi con lui e con altri quasi come
lui. Poi, precisa che ha avuto veramente piacere di sapere che io ho
una conoscenza così precisa delle strade del suo Rione. Infine, mi
lascia proseguire.
E io continuo, anche perché ho
lasciato in sospeso qualcosa. E provvedo subito a metterlo alla luce
del sole. Su questo slancio in avanti collettivo, sul fiorire di
tante speranze mie e di tutti, si allungò qualche ombra anche
dall’esperienza politica, riguardo alle alleanze che si venivano
stringendo sull’uso e sul controllo del territorio e che non
promettevano nulla di buono.
Sul lato della stazione della Cumana,
che si affaccia sul Rione Traiano, appena si esce di sotto al ponte
della ferrovia, in quattro e quattr’otto, lavorando anche di notte,
era stata impiantata una palazzina tutta rivestita in vetro,
vezzosamente moderna. Era per un’esposizione permanente di
automobili dell’ultima generazione e per un ufficio vendite. Noi
della segreteria del Pci prendemmo informazioni e sapemmo che era
tutto abusivo, ma anche che uno dei nostri ci stava dentro e dava
garanzie e che un altro appoggiava l’operazione dall’esterno,
perché gli era stata garantita un’automobile ultimo modello.
Tenemmo una riunione informale, invitando l’uno e l’altro. Il
primo non si fece proprio vedere, l’altro fu presente, però
negava. Presto, intanto, comparve in giro con la sua auto fiammante
e, senza che nessuno glielo chiedesse, ci teneva a precisare, come
scusandosi, che aveva così investito una bella sommetta che la
moglie aveva avuto dalla famiglia.
Sentivo che il nemico avanzava,
servendosi di mezzi subdoli, ma molto persuasivi.
“Sì, però,” mi fa notare il
giovanissimo interlocutore, “si trattava di una semplice palazzina.
Mo’, ammece, è tutt ‘nfett”.
“E’ vero”, confermo io, “
quelli e altri simili erano gli avvisi di uno sconvolgimento, che si
sarebbe abbattuto catastroficamente sul quartiere e non solo sul
nostro quartiere”.
“Ma tutto sto sott’ancoppa”, mi
chiede questo ragazzo tutto casual e crestato alla Hamsik, “comm è
stato pussib-l, si ‘a maggiuranz vulèva j’ a nn’ata parte? Tu
comm’’o spiechi?”.
“Là per là”, rispondo, “non me
lo sapevo spiegare neppure io. Speravo che quelli fossero episodi
passeggeri. Una specie di influenza che poi passava. Ma dovevo
registrare che purtroppo quella tendenza si rafforzava
progressivamente e che tornava comodo a molti, se non a tutti,
restare invischiati in questo processo”.
“Ma nc’eva stà nn’utele rint’a
tutt chest, sinnò erano ‘nfissuti tutt quant?”, osserva lui.
“L’utile, certo, c’era”,
ammetto io. “Ed era che era scattata una solidarietà di massa: io
copro te, tu copri me. Zitto tu e zitto io, mentre, dentro a questa
complicità, si stabiliva un contratto sociale per legittimare
prevaricazioni, imbrogli, ruberie e perfino delitti. Così in basso,
così in alto. In alto, tornavano i padroni, non quelli di una volta,
altri, che erano più volgari, prepotenti e strafottenti di quelli di
prima. A questo punto, me ne andai da Soccavo, dove la situazione era
particolarmente penosa e brutale. E si allontanarono, quasi
contemporaneamente, tanti intellettuali e artisti, amici miei e
conoscenti, che prima con orgoglio provocatorio dichiaravano di
risiedere a Soccavo.
“E non è stato nno ‘ngann, nno
trademient?”, mi chiede lui.
“Non credo proprio”, mi giustifico
io. “Quando si gira il vento e comincia a soffiare da un’altra
parte, non si può fare niente. Ma il vento passa, il fatto è che
nella realtà, quando si sono fatti dei guasti grossi, bisogna fare i
conti con questi guasti, co sto’ scungiglio, come diresti tu”.
“Sì, va bbuo’”, fa lui, “iammo
appriesso, pechhé ncopp’a chesto nce foss ra parlà assaje. Ropp,
nce si’ turnat cchiù a ‘o Traiano?”
“Qualche volta”, riprendo,
“ripassai per Soccavo, ma per trovare un cadavere al posto delle
speranze di prima. Una volta, mi fermai e mi presentai al centro
polifunzionale: volevo dare uno sguardo dentro. Mi bloccarono
all’ingresso, mi dissero semplicemente che non ero gradito. Chiesi
spiegazioni attorno alla gente. Seppi che quello non era più un
centro polifunzionale, ma che i locali erano stati occupati da un
centro sociale che era un bordello e faceva spavento.
Un’altra volta, da ispettore
ministeriale, in una delle mie visite alla Scuola Media “Marotta”,
che è stata la tua scuola, cioè la tua non-scuola, caro mio amico,
perché ti sei rifiutato di frequentarla, e che io all’inizio avevo
auspicato che venisse istituita appunto al Rione Traiano, al centro,
mi sentii distante dal quartiere e da quella scuola come la terra
dalla luna. La dirigente, la Professoressa Dente, molto seria e
coscienziosa, mi aveva parlato, tra gli altri casi difficili e a
rischio, di un ragazzo, il cui padre era in carcere e la cui famiglia
era in una condizione di disagio estremo. Quella volta, al termine
della mia visita, stavo per salutare la preside e andare via, quando
lei mi fece cenno e mi disse in un orecchio che tra le mamme che
stavano all’ingresso, c’era la donna di quel caso difficilissimo.
Io dissi che volevo conoscerla. La preside la chiamò e lei venne un
po’ sorpresa. Io mi presentai e le chiesi se potessi essere utile
per qualcosa. Lei mi rispose senza esitazioni che non c’era proprio
niente da fare nelle sue condizioni. Allora, io intesi di dirle
qualche parola di incoraggiamento, la invitai a non avvilirsi, con
l’auspicio che il marito presto tornasse dalla casa circondariale e
stesse con la famiglia. Lei si irrigidì, fece un passo indietro,
quasi un balzo, e, fissandomi feroce negli occhi, mi dichiarò che
stavo bestemmiando, che le stavo facendo un malaugurio, che, invece,
era bene che quello stronzo del marito se ne stesse per sempre in
carcere e infradiciasse là dentro. Perché, se tornava a casa, era
la fine, lei e i figli avevano finito di campare. Mi sembrava di
essere caduto dalle nuvole e di trovarmi in un mondo non mio.
Certamente, in una realtà, che non mi sarei mai immaginata di tale
violenza. E riconobbi, con me stesso, di non essere più adeguato a
relazionarmi con un rione, per il quale mi ero battuto con fervore in
tante occasioni. Ero io un altro, adesso, o era il quartiere
tutt’altra cosa da quello che era stato fino a una quindicina di
anni prima?”
“Eh, accussì è. Pe cchest, nce vo a
ggent co ‘e pall sott. ‘U bbiri puro tu o no?”, mi chiede
questo baldo ragazzo con cui sto parlando.
“No, no”, faccio io, “non è
questo che ci vuole. Ci vuole, invece, la cultura della legalità. Ci
vuole una società che voglia e sappia rispettare diritti e doveri”.
“E ggià a cultura, sempe sta
cultura. A cultura che r’è? Nui ccà, e io pe primm,
nce sputamm ‘ncopp”.
“Però, per appoggiare un’altra
cultura”.
“Che vene a dicere? Che nc’entra a
cultura cu nnuie?”
“C’entra e come. Sarà un’altra
cultura, in questo caso una cultura contro, ma comunque sempre
cultura è”.
“No ppo’ esse, un me fazz capac. Tu
mo’ mme vulisse fà a mme? Tu ‘un me faie. Nuie, mo’, a
‘o Traiano, essem tene a cultura. E addò ‘a tinimm sta
cos?”
“Dove l’avete? Dentro e fuori di
voi, nel cervello e nelle parole, oltre che in quello che fate e
nelle maniere di fare”.
“Chesto è bbello: j mo’ teng a
cultura cusut ‘nguoll! E che r’è nna cammis? E chi ‘o
ssapeva sso fatt!”.
“Scusami, ma non hai detto poco fa
che ci vuole uno che si faccia rispettare? Da dove ti viene questo
pensiero se non dalla cultura tua e di quelli del Traiano che la
pensano come te?”
“Allora, non ess cummenì pur’j
‘ncopp’a sto fatt?”, dice prontamente lui. “’A primma cosa
ccà è c‘a legg add esse fatt respettà. E ‘nce vo’ chi nce
vo, comme rich’j. E levammo accussì ra miezz sta storia r’a
cultura”.
“No, no”, gli obietto, “come dici
tu è come qua, al Rione Traiano, si vuole che tu dica e pensi. Tu,
semplicemente, credi di dire tu, di parlare tu”.
“E com’essa rìcere? Comm’essa
penzà?”, scatta lui. “Agg capit: essa penzà come rice ‘a
tilivisione, come riceno sti sfaccimm re ggiurnal? A pirifiria, ‘a
razz, e tutt u rièst?”.
“Lasciamo stare”, dico, “sono
effettivamente sciocchezze”.
“Aeh!”, sghignazza, “sciucchézz,
chiacchier, fessarie: so’ cazzate”.
“Magari, cazzatelle”, ammetto. “E’
così, nel mondo d’oggi, parlare di periferie, non ha senso più.
La città moderna ha perduto il centro, è formata da un insieme di
quelle che, in maniera inadeguata, sono ancora chiamate ‘periferie’.
L’idea della razza, poi, è una bestialità, non merita commenti”.
“Pecché nu dicimm pur o rièst? Ca
Napul è munnezz? Ca Napul è sfrantummat? Ca nc n’essem fuje ra
Napule? Ca l’auturità è debbole, co’ nno sciusc va ‘nterra?
Nuie po’ nc l’essem tene tutte ste offese. Comm rìcen ssi strunz
lloc. Tu cch piènz, ca va bbuono accussi?”, incalza lui.
“Io non penso che questo vada bene.
Non va bene. Nient’affatto. Ho sentito pure io queste e altre
stupidaggini. Ma bisogna pure far parlare gli altri. Ognuno, poi,
risponde di quello che dice”.
“Tu ric ca ‘o purpo se coce co
ll’acqua soia stess? ‘O purpo, va bbuono. Ma chest so ‘nfamità,
carugnat, zuzzarìe. Un s’hann permett. L’hann pavà, l’hann
pavà. Vuje at, amméce, a chisti signuri ccà, ‘e ppurtati
‘nchiànta ‘e mano. E accussì vulit ‘mpapocchià ‘a ggènt”.
“Senti, non si può tappare la bocca
agli stupidi. E gli stupidi sono tanti. Poi, se dovessimo parlare di
quanto di sbagliato si fa e si dice nel mondo, non basterebbe una
vita. Piuttosto, parliamo di noi. Parliamo di te”.
“E che bbuliss rìcere ‘nguoll’a
mme?”
“Sul tuo conto non pretendo di dire e
di sapere niente”.
“Meno male pe tte, j stev’aspettann”.
“A te, come ragazzo, però, vorrei
dire qualcosa”.
“Come ragazzo, j’ un songo
ragazzo: ‘un ne ngarr una, rico una, bbona. Certamente, so
gguaglione, pecché so giovene abbastantement. Ma so’ uno tuost,
tuost assaje e pecchésto tenen respetto pe mme”.
“E’ appunto sulla tua durezza e sul
fatto che sei rispettato per comportamenti pericolosi, che vorrei
dire mezza parola”.
“J’, ra principie, sapeva ca ccà
jemmo a fernesc. Un pirdimo tiemp, j’ un tengo tiemp. Chèllo
ch’agg fa, ‘o fazz e bbast, mo’ e sempe”.
“Sempre, è facile a dirsi, ma che
sappiamo noi di noi, che sai tu di te per sempre?”
“Chéste so’ ccose che ricen e
penzen ll’ati. J’ stongo ccà e ccà stong’j’. E nisciun,
manc ‘o Pataterno me smove”.
“Ognuno di noi può in qualunque
momento ripensare e rivedere le proprie decisioni”.
“Ll’at sì, cert, certament, ma
j’no ssongo ll’at. La vita d’’a meja, è d’’a meja. E’
dd’’o Traiano, chi tèn r’asigge arretrat co tutti l’interessi
‘a ll’at. Mo’ è ppejo pe ll’at, pe parlà co tutto ‘o
core. Ccà, dottore bello, siènt a mme, ‘un se po’ penzà comm
ric tu. Ccà è l’infern, nce stann ‘i rannati, e nc’è ppoc
r’abbabbbià, ‘e nzaravoglià. Ccà, amico bbello, nce stann’ e
sfaccimm, a munnezz chi te nn’ha fatt scappà a tte. ‘O Stat cche
ffa? No mmov nnu rit. Si foss p’’o Stat, ‘nce putessm puzzà
r’’a famm. E mmeno mal ca nce sta chi nce penza, chi nce rà nna
man. Tu mm’ha’ nfracetat ‘a cap cu ‘a scola, ‘a cultura.
Ma ‘o ssaje che r’è ‘a scol ccà? Chilli comm’a mme, ‘e
caccen for, pecchè ranno fastirio. ‘E mmenen mmièzz’a via. ‘E
famigl caccen for ‘e figl ca ‘un ncè spazio rint’’a cas. Ai
mascul ricen guagliò truovet ‘a via, accumenza a penzà a tte e a
nnui. A ‘a femmen ricen figlia bella, mo’ accummienz a ccresc,
aggi pacienz e vviri re te varagnà caccos. Ccà tuttt quant, mascul
e femmen, viecchie e ggiuven, c’imm ammentà nna cos minut pe
mminut. E, nna cos pricìs ‘a sapimm: chi nc’imm vindicà. Adda
scorr’o sang”.
Questo, più o meno, il dialogo col
giovanetto del Traiano, che, senza lasciarmi l’opportunità di
ribattere o di aggiungere qualche altra integrazione al discorso,
balza sul suo fiammante motorino e parte a tutto gas, da baldanzoso e
strafottente guappo, e con aria disgustata anche nei miei confronti,
in quanto me ne sono andato pure io via, mentre avrei dovuto restare
là e schierarmi con chi di dovere. Perché la questione di fondo è
schierarsi una volta per sempre, costi quello che costi, con chi però
sa comandare e sa farsi ubbidire senza se e senza ma. Opuramente
s’adda pavà, adda scorre ‘o sang.
A questo punto, mi pongo e pongo
all’eventuale lettore qualche domanda: chi ha ucciso Davide la
notte fra il 5 e il 6 settembre 2014? chi ha tratto vantaggio dalla
sua morte? di fronte a questo caso, è lecito chiamare in questione
il fondamentalismo dell’anticittà di casa nostra? Si badi che le
due ultime due parole suonano volutamente con implicazioni allusive
ad altro, che non è “casa nostra”.