di Carmen Moscariello
Quasi un testamento, i Canti ultimi
di David Maria Turoldo non hanno interrotto il colloquio intenso e inquieto del
Salmista con il suo interlocutore preferito.
Nei versi Dio è inseguito e amato,
penetra ogni respiro, eclissando talvolta nel Nulla, per riaffiorare più forte
nella speranza e nella instancabile ricerca.
Sapere, conoscere, indagare,
scoprire il divino nella delicatezza dei fiori, nella voce dei fiumi, nel
silenzio dell’anima è per il “servo di Maria” (Padre David appartenne
alla congregazione dei Servi di Maria e più tardi fondò insieme a Padre
Camillo de Diaz “La Corsia dei Servi”) fine principale della sua poesia e
dell’impegno sociale e religioso che animò la sua esistenza.
La precisa essenzialità del verso
racchiude la realizzazione catartica del Bene in quella “vita che non finisce
mai” (Ultima Omelia di Padre David) e come un fiume si congiunge pur sempre al
mare. A partire dalle sue prime pubblicazioni da Una casa di fango
(1951), Tempo dello spirito (1966) e più tardi Il diavolo sul
pennacolo (1968), fino a O sensi miei (1990), opera che racchiude il
meglio delle sue poesie, si coglie un misticismo che ha dello sconvolgente, in
quanto conserva in sé una tempesta d’amore che invade ogni cosa al suo
contatto e in contemporanea una temerarietà di ricerca, un tormentato porsi del
suo Essere di fronte al mondo e alla Deità.
Padre David, negli ultimi due anni
di vita (1990-1992), nonostante il suo corpo fosse divorato dal cancro, ha
donato alla poesia una scrittura escatologica che è emersa chiara, quasi un
miracolo, nelle sue due ultime pubblicazioni: Anche Dio è infelice e Canti
ultimi.
Quest’ultima opera è un
testamento di fede e di vita partecipata: le due voci senza contrapporsi
generano un’ansiosa purificata sofferenza, un dilagare del Nulla, che non
riveste più i segni del “Dio Negativo”, ma il semplice scorrere del verso
che permette il coinvolgimento non solo degli addetti ai lavori, ma “in primo
luogo alla sete di anime disposte a trarne illuminazione e conforto. Per questo
possiamo dire che la sua opera sia destinata oggettivamente a un pubblico assai
più vasto che il pur eletto pubblico della poesia” (Giovanni Giudici,
prefazione a Canti ultimi).
Così la densità dell’amore è
attraversata da un’inquietudine vogliosa di abbracciare il suo Dio: “…da
tutta una vita:/ solo silenzio/ e ancora di più/ a cercar di immaginarlo/ per
dispormi/ all’atteso incontro” (così da tutta una vita pag.64)
Il tono pacato diaristico dei versi
non attenua la bramosia di Dio: il lettore se ne sente partecipe, quasi nutrito
da un cordone ombelicale, senza che la paura per l’oceano nero del Nulla
scompaia: “Non un nome non un volto/ gli conviene; e il salmista/ si
strazia e grida “mostrami il tuo volto/ il tuo volto io cerco signore”
(E lui che incombe pag 62).
Ma non solo il cuore del Santo
delira la deità, anche il corpo s’inebria nella ricerca di Dio. Questi Canti
di congedo dal mondo determinano una prospettiva nuova che il poeta, il
saggista, il commentatore di testi sacri Turoldo consegna temporaneamente al
lettore e al suo Dio.
Il salmista “sopra il tumulto
mentale” canta con il fervore dei grandi mistici, ma il canto e troppo spesso
rotto da singhiozzi e il dolore si fa così grande che investe anche il divino:
“Tu non sei quello che noi crediamo: insieme, Tu e noi infelici,
(Salmodia prima, pag 67).
E a questo punto è giusto
chiedersi “…se l’angelo di questa appassionata teomachia turoldiana sia
veramente l’alata presenza del Divino o al contrario e in definitiva
l’inquietante (e il meno che si possa dire) aleggiare del Nulla” (Luciano
Erba, in Poesia, Crocetti, marzo 1992, pag 61).
L’interrogativo
si fa più interessante nel poemetto eretico Prorsus et versus (Canti ultimi,
pag 67), che in un misto di prosa e versi pone l’accento sul terrestre spirito
euclideo, nel disperato sforzo di rigenerare il creato “dal Caos al mondo
delle forme”.
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