di Carmen Moscariello
“Minimale” sembra la parola d’ordine. Un altrove asintomatico di tratti in bianco e nero, sporadico il rosso. Vertigini costruite in un mare senza azzurro, un ritorno all’infanzia del mondo a un non pensiero per trovare nel labirinto di linee crepuscolari un filare minuzioso in gomitoli esemplari di ricerca.
Il laboratorio esclude il decoro e dove è presente il mito che viaggia scarno, fino ad apparire duro, non commestibile in sabbiosa neometafisica vissuta nell’assoluta originalità della forma.
Opere su cui,dice l’artista, ha lavorato centinaia di ore, quasi un intarsio seghettato, unghiato con ricamo senza orli, ma che tira dritto verso una severa essenzialità.
Il Mediterraneo nelle sue linee è einfalle elegante, scrupoloso: aforismi per cultori senza vela, ma il cielo e il mare vivono un abbraccio indissolubile e i pesci vagano in staticità d’alloro.
Una promiscuità non solo di cielo e mare, ma anche di uomo e mito, di uomo-pesce, un universo antropologico che nega le distinzioni, carburato solo dal tratto: orizzontale, verticale, spezzato eppure componente un solo tracciato ,un solo canto. E’ un Cristo che si è fermato ad Eboli, senza braccia, ma con gli occhi che vedono chiaro la condizione del cosmo.
Spalancano, le opere le porte dell’Erebo, ma Euridice rimane sorda, lontana, non vive l’incanto e anche l’artista non nutre illusioni, il canto è refrattario non subisce malie.
Mutos e logos anch’essi sopravvivono grazie al tratto “minimale” per permettere alle speranze dell’uomo una impossibile sopravvivenza.
Schiarisce il sogno in alcune opere, quasi placide, in approdo al bello, ma la sorgente dell’alba presto è prosciugata.
L’arte di Mario Piccolino è una disperata richiesta d’amore, si allontana dal mondo in
pulviscoli, la salvezza non appartiene ai suoi desideri.
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