venerdì 26 gennaio 2024

Oggi il nostro amato Presidente Mattarella ha ricordato lo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento nazisti. Con parole d'amore e riconoscenza ha ricordato i nomi di molti Giusti che sacrificarono le loro vite per aiutare gli ebrei. Tra questi grandi ha citato anche il nome di un mio amato parente Giovanni Palatucci.

 

Questo giovane è Giovanni Palatucci, nato a Montella il 1909 e morto nel campo di concentramento di Dachau nel 1945, dichiarato dal popolo ebraico "Giusto tra le Nazioni" e Beato dalla chiesa cattolica, salvò dallo sterminio innumerevoli ebrei. Mio parente, il rapporto di parentela nei suoi confronti e in quelli di Monsignor Ferdinando Palatucci me lo specifica in una lettera proprio Monsignor Ferdinando Palatucci già Arcivescovo di Amalfi e nipote diretto di Giovanni Palatucci, fratello con mio padre, autore di importanti pubblicazioni. Alla mia domanda sul perché eravamo parenti, mi scrive: "La tua bisnonna Rachele e mia nonna Maria erano sorelle: .Mia mamma e tua nonna Carmela erano cugine. (Amalfi, 21/1/1989). Questa risposta di Don Ferdinando, (è stato tra l'altro , per tre anni, mio amato insegnante nelle scuole medie di Montella, mi ha aiutato a lasciare il mio paese, dopo la migrazione in America della mia famiglia ) mi dà il senso dell'appartenenza, nonostante ami definirmi figlia del mondo.
Sempre Lui mi portò a Maiori, divenni l'educatrice per i bambini delle colonie estive. La lettera quando mi fu consegnata ebbe per me un' importanza molto relativa, oggi , invece , ritrovatala per caso, mi fa capire da chi mi viene la mia incoscienza o la mia follia (coraggio?) nel lottare a mani nude e da sola contro la camorra e le ingiustizie sociali per un'intera vita, fermo restando che io sono solo una briciola inconsistente rispetto a questi due grandi, ai quali va aggiunto Monsignore Giuseppe Maria Palatucci Vescovo di Campagna che collaborò con Giovanni nel salvare più di 5000 ebrei.
Chi vuole meglio conoscere Giovanni Palatucci, c'è tra le altre pubblicazioni, una meravigliosa opera, 772 pagine di Michele Bianco e Antonio De Simone Palatucci (nipote diretto di Giovanni Palatucci) , prefazione di Camillo Ruini, introduzione di Paolo Salvatore La Scuola di Pitagora editrice.
Giovanni Palatucci, io l'ho scoperto ed amato da adulta, da quando sono stata nel campo di sterminio di Dachau per cercarlo, lì è morto e nella bacheca dei miseri oggetti degli sterminati, c'è anche un logoro orologio da polso che sembra gli sia appartenuto. Oggi sono fiera di avere nel mio sangue anche una sola goccia del Suo.
L'augurio è che la Chiesa vada oltre la sua beatificazione e che Papa Francesco affidi a uomini santi il percorso per la dichiarazione della sua santità.
Carmen Moscariello
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Giorno della memoria. Vi comando queste parole.

 





Scolpite nel vostro cuore.



giovedì 18 gennaio 2024








 Nel solco di Campanella

Intervista a Dante Maffia

Di Gianni Mazzei. Pace Edizione

La prima cosa che salta agli occhi nella sua armonia di colori e immagini è la copertina: ben fatta e molto significativa, si stagliano frontalmente due profili importanti quello di Campanella e quello di Maffia. La forma del viso, la piega delle guance, le labbra fanno pensare che sono due fratelli di sangue.

L’autore dell’intervista, Gianni Mazzei, anch’egli calabrese e amico e conoscitore delle opere di Maffia, sa guidare con maestria e garbo le domande, che alla fine ci danno un quadro completo del grande Autore, dei suoi rapporti con la Calabria, del suo percorrere ab origine tutte le tappe della gloriosa arte di Maffia.  Non ci viene nascosto niente,  né le vittorie, né i dolori. La lotta impari di un uomo che parte dalla sua intelligenza, dalle sue origini umili, che senza l’aiuto di alcuno diviene un Dio della cultura non solo italiana, ma oserei dire mondiale. La recente pubblicazione  dei suoi splendidi haiku che il Giappone ha fatto tradurre e pubblicato testimoniano la sua netta posizione  ai vertici di un sentire che lega i popoli, li innalza nella maestosità dell’arte e della fratellanza.

Si, Maffia è un poeta, saggista, narratore che affascina, ammalia, è un uomo che dialoga con l’infinito, brucia e ti fa sobbalzare con le sue analisi. E’ uno che ha sacro rispetto per gli umili, li ama, li difende , si schiera contro la storia dei potenti e degli imbroglioni, di questi non salva nessuno. E’ irruento, ha nel cuore la lava incandescente, che annienta e purifica. Da quel mare calabro dal quale mai si è distaccato ha imparato ad

 

 

apprezzare anche l’ultimo filo d’erba, a purificarsi al movimento delle onde che lievi si infrangono sulla spiaggia, qui le tempeste lo hanno sorpreso, qui il vento di maestrale bussa di notte alla sua porta. In questi luoghi sacri in cui la cultura greca lo ha nutrito fin da ragazzo, ha dato vita alla sua arte, al suo carattere. L a sua  immensa cultura, il suo carattere dolce, ma anche fermo e tempestoso  emergono  punto per punto con levità e grazie  nell’intervista di Gianni Mazzei.

Dante Maffia nella sua splendida strada ha rilasciato sessanta interviste, molte le conosciamo anche noi, e sempre abbiamo imparato dalle sue parole come tenere la barra dritta, ma ora  questa che stiamo esaminando, è un libro più di cento pagine, ben scritte, sgorgano da quella fonte che ha pubblicato centinaia di opere, senza sosta, non si fa in tempo a finire di leggere una sua recente pubblicazione e già ne sono pronte altre, mai che il tono sia scontato, o che si ripeta, ogni giorno rivoluziona e ribalta, scombina le carte, quasi a volersi mettere alla prova, ricerca  quel mistero, lo afferra come un raggio di luce,  vorrebbe stanarlo, regalarlo al mondo, fare in modo che tutti possano avvicinarsi al mistero delle nostre esistenze, al verbum sacro che chiarifica e lotta per comprendere.  In questo libro ci racconta davvero molte cose della sua vita, delle sue amicizie, dei suoi nemici, del razzismo che invade non solo il mondo, ma la stessa letteratura. Su questo argomento vengono riportate le parole di Borges, quelli del Sud dice il Poeta, sono terroni, puoi aver fatto cose grandiose, queste terre possono aver dato i natali ai più grandi della storia, si rimane terroni  fuori, con divieti d’accesso, sparano a vista a chiunque faccia ombra ai loro  “prediletti”. E’ il potere economico e politico che stabilisce la classifica di chi è bravo nel mondo del sapere e in ogni altro campo. Molto ha da dire anche sulla compilazione delle antologie e delle letterature destinate alla scuola,

 

 

che inseriscono secondo criteri scandalosi gli autori creando classifiche nettamente distinte tra “i minori” e i “grandi autori”. La storia recente ci insegna come poeti immensi come Rocco Scodellaro , Salvatore Quasimodo, Bufalino, Vittorini, Serao, Ortese  e tanti altri grandi autori del Sud sono stati cacciati dalle Antologie scolastiche, né la rivolta di tanti intellettuali del Sud è riuscita a far cambiare idea. La posizione del Poeta contro queste aberrazioni è terribile.  Queste e tante altre cose rabberciate nel mondo della cultura scavano ingiustizie, deviano i percorsi della Grazia.

Nel libro si coglie un solco di dolorosa, lunga amarezza, a volte, quasi di impotenza. Il mondo che si era sperato di cambiare e riportare,  dopo la seconda guerra mondiale, sulla strada della crescita, dell’azzeramento della povertà, della morte delle ingiustizie e del rispetto sociale, ha fatto marcia in dietro. La lotta di Maffia è pari a quella del  fratello di sangue  Campanella, secondo quanto dice nella prefazione Norberto  Bobbio «Maffìa riesce a suscitare nel lettore un senso di meraviglia insistendo sull’infanzia e l’adolescenza del filosofo, sulla miseria della sua terra, sull’apprendimento senza maestri, sulla memoria favolosa». E sembra di vederla, «quella figura tozza» da cui «verità e conoscenza sprizzavano con la naturalezza con cui una polla d’acqua sbuca dal foro di una roccia». Così  allo stesso modo ne parlano in quest’opera Giovanni Pistoia, nella bella e trasparente prefazione  e  Gianni Mazzei,  quest’ultimo con rigore e chiarezza, direi amore fraterno verso l’Amico,   rivendicando  le affinità tra i due grandi.

Noi, come il Poeta, aspettiamo ancora la nascita della Città del sole, Maffia ha riportato Campanella nelle nostre vite, come se fosse anche nostro contemporaneo e conterraneo ridando dignità anche alle sue poesie e vigore al suo pensiero rivoluzionario.

 Il Poeta  in quest’ opera ci rega la sua sofferenza, le sue ansie, i suoi ideali di riscatto, che permangono come nei suoi primi lavori con lo stesso ardore, con la stessa devozione che ha sempre avuto per la cultura e per la bellezza.

 

Riflessioni sull’opera di Carmen Moscariello

venerdì 12 gennaio 2024

Tu sola sei vera

 






Ora che ti ho perduta come una pietra preziosa

so che non ti ho mai avuta né spina né rosa:
non stavi al fondo della cassa che sarebbe bastato
alzare panni e coperte per rivederti a posto
con pena e occhi incerti nella massa delle cose.
Ti portavo addosso con carte e matite e monete
e sapevo di perderti ma non come pietra preziosa,
credevo che tant’acqua poteva levarmi la sete.
Ora, che voglio fare?, guardare dove non c’eri
dove non sei dove non sarai coi tuoi occhi neri.
Rocco Scotellaro

lunedì 8 gennaio 2024

 

Il  profetico senso della vita  nella Poesia di

 Amelia Rosselli


  

 

 Nell’ampio verso e nei ritmi dell’endecasillabo si muove il visionario e profetico senso della vita di Amelia Rosselli. Una polifonia, un ampio doloroso respiro sul suo destino segnato, ancor prima che nascesse, poiché legato a una famiglia, quella dei Rosselli, che fa parte di diritto della storia liberale e democratica del nostro Paese. Sappiamo che prese parte a tutti e quattro gli incontri del Gruppo 63 e di averli trovati alquanto ripetitivi, non congeniali al suo modo di intendere la poesia. È assente quel tecnicismo dal mondo visionario e per certi aspetti violento che riguarda la Rosselli: improvvisi versi esplosivi, una volontà di potenza e di orrore. Non appartiene alla Rosselli la fragilità della quale molti critici parlano (il suo destino è pervaso, piuttosto, dalla lotta contro la fragilità); il suo percorso vitae è molto più complesso, le profezie dolorose vissute dai suoi versi rendono la sua vita e la sua scrittura una intricata analisi anche di molti aspetti della storia del Novecento. A una lettura superficiale di molte sue opere si può dire che il suo linguaggio è ermetico, incomprensibile, un trobar clus: per certi aspetti la sua scrittura fa pensare a una trobairitz, sprezzante, ironica, aspra, suscettibile, oscura; a una erede della lingua d’oc, ma la sua linea di studi è molto più complessa. Per comprenderla davvero bisogna abbandonare la linea del lapsus, niente nella vita e nella scrittura della Rosselli è involontario, anche l’involontario trova una categoria di ordine strutturale ben studiato e architettato. Studiosa di molte letterature, eccellente traduttrice di molti poeti inglesi e francesi, appassionata di teatro, lettrice di Faulkner, Bergson, di Pascal, scriveva e parlava il francese (la lingua della sua infanzia), l’inglese (la lingua di sua madre e anche la sua per aver soggiornato lungamente in Inghilterra e in America) e infine l’italiano, la lingua di suo padre e di sua nonna Amelia Rosselli, donna colta e raffinata letterata e a sua volta scrittrice. Amelia scelse l’italiano per la sua poesia, ma diede a questa lingua un vigore quasi sconosciuto, una timbrica a volte inebriata e inebriante. Non fu semplicemente innovativa, ma sperimentò per suo conto una lingua tria corda che potesse esprimere la complessità del suo sentire primordiale. Il suo verso tessuto dalle assonanze, da strumentali afasie, da gorgoglii, dagli studi musicali (pianoforte e violino) che avevano occupato trent’anni della sua vita, 21 determinano una novità, un rifugio in strutture antropologiche che adattano il verso al suo sentire; dedica ad esso molta cura, ma rimane il fluido sgorgante, impetuoso, sincero, originale. Spesso i versi si presentano come un contorcersi di suoni o grida che lacerano. Amelia Rosselli è un grande poeta antiermetico, autrice che ha scelto una sperimentazione inesausta, del tutto originale e autonoma, frutto di un acceso e appassionato immaginario, di ampi studi letterari e musicali, di scavo psicoanalitico, di una razionalità coniugata all’irrazionale “urgente” e proliferante . La libellula assetata di luce, rimette insieme gli innumerevoli frammenti esistenziali per creare una poetica di prim’ordine, si inerpica la parola in gole senza ossigeno, nel dérèglement avaro e ironico. Il verso volge in anamnesi dell’assurdo, insofferente, primitivo, sgrammaticato, turbolento. Amelia Rosselli è un caso unico nella poesia italiana. Carlo Rosselli, Rocco Scotellaro, Pier Paolo Pasolini, Niccolò Gallo, Dino Campana, Antonio Porta sono nomi che entrano a far parte di diritto nella vita di Amelia Rosselli. Vivente leggenda di incarnazione della poesia come incontenibile forza oracolare. Nata nel 1930 a Parigi dove la famiglia si era rifugiata per sfuggire alle persecuzioni politiche del fascismo, dovette ben presto(immediatamente dopo l’assassinio del padre) lasciare questa città per trovare rifugio prima in Inghilterra e poi in America (1940); qui per sopravvivere svolse anche lavori molto umili. Un episodio importante della sua vita è l’incontro con Rocco Scotellaro, lo conobbe a Venezia nel 1950, durante un congresso partigiano. Il fatto è raccontato in Diario oscuro, pubblicato dalla rivista “Braci”. La poetessa lo ricorda ancora in un’intervista rilasciata a Giacinto Spagnoletti; dice: Quando conobbi Rocco, avevo vent’anni e lui morì tre anni dopo. La nostra fu un’amicizia intensa, molto ricca e naturale, priva di forzature. Mi invitò al suo paese in Lucania, dove stetti una settimana sua ospite e conobbi sua madre. A Pasolini deve la presentazione della sua poesia al grande pubblico e al poeta deve anche un’attenta analisi critica della sua poesia, che si incentra sul concetto di lapsus,  all’uso speciale che la Rosselli fa della parola poetica e del singolare ruolo di consonanti e vocali. Pasolini disse che il lapsus ora finto, ora vero rappresentava una profonda liberazione. Il lapsus consente alla buonora, di liberarsi del peso istituzionale – gravante su tutta la lunghezza dell’anima – e, nel tempo stesso, di rispettarlo. Non c’è molto in forma di lapsus che sia tanto cinico, feroce, ironico, sprezzante che non includa un sostanziale rispetto per la lingua e la istituzione d’uso. E, se mai ve ne fu, la tipica negatività che afferma. Il fondo del libro della Rosselli – sono riuscito a dirlo, malgrado il suo totale rifiuto, la sua pazzesca coerenza che lo salda da tutte le parti come un molle fortilizio – è la grande cultura liberale europea del Novecento. E lo è con uno splendore del tutto eccezionale. Direi che non mi sono mai imbattuto, in questi anni, in un prodotto del genere, così potentemente amorfo, così oggettivamente superbo . Per la poetessa la sua particolarissima grammatica poetica consiste nelle varie possibili formulazioni metriche, mai abbastanza rigorose, da potersi considerare come sistemi filosofici scientifici e storicamente necessari, inevitabili. La poetessa-musicista risente del pentagramma musicale, creando una tecnica che studiata nei particolari s’insedia di prepotenza in tutta la sua opera con vitalità e vigore, a volte con irrazionale casuale violenza, dando vita ad una poesia assolutamente vera e ispirata. Il Mito dell’Irrazionalità (mettiamoci le maiuscole) ha, con le poesie di Amelia Rosselli, negli anni sessanta, il suo prodotto migliore: lussureggiante oasi fiorita con la stupefacente e, casuale violenza del dato di fatto, ai margini del dominio. E il revival avanguardistico – così tetro presso gli eterni apprendisti di Milano e Torino – ha trovato in questa specie di apolide dalle grandi tradizioni famigliari di Cosmpopulis, un terreno dove esplodere con la funesta e meravigliosa fecondità dei funghi atomici, nell’atto in cui divengono forme. Oltre i limiti del risguardo non vado. E aggiungo che il tema dei lapsus è un piccola tema secondario e irrisorio, rispetto ai grandi temi delle Nevrosi e del Mistero che percorrono il corpo di queste poesie: è solo un filo che ho seguito per poter produrre qualche effato su questo splendido testo. I suoi particolari usi sintattici, le sgrammaticature, il lapsus di cui diceva Pasolini, il verso chiuso, la forma cupa l’apolide li chiarisce nello scritto Spazi metrici (1962). Nel dérèglement sono incorporati una consapevole follia, molte nevrosi vissute, analizzate e catalogate. Bisogna con Pasolini, considerare che nella scrittura incise la malattia nervosa, l’assillato studio dell’inconscio, con approfondimenti che si riferivano non solo a Freud; la struttura poetica è data anche dalle molteplici sonorità delle numerose lingue che lei parlava, come pure lo studio della musica (violino e pianoforte), che occuparono gran parte della sua fanciullezza e giovinezza. Ella stessa dice: ha significato per me ritrovare – pur basandomi sulla formulazione metrica definita nel 1958 – il coraggio e forse anche il misticismo di quegli anni adolescenziali: razionalizzandoli fino alle ultime conseguenze. Spesso i risultati sono violenti, i contenuti sono dei veri e propri gridi raggiungendo un equilibrio tra la forma del tutto controllata e contenuto indotto o dedotto, mai automaticamente, ma con grande incidenza dell’inconscio o per provocazione soltanto letteraria, sia nell’insieme raggiunto . In questa poetica, seppur unica e originalissima, potrebbero leggersi lontani echi di Rimbaud, Mallarmé, Kafka, Pound e Montale. La donna e la poetessa convivono nel senso profondo e misterico. L’ironia, l’inconscio, la verità, la provocazione, la visionarietà e la scrittura di un verso molto tecnico creano una poesia senza argini, travolgente e giovane, violenta e amara. 

Carmen Moscariello

venerdì 5 gennaio 2024

 







ANNO NUOVO

Accesa è la speranza

“Buon anno, amica mia e che Dio ce la mandi buona!”

Tremare all’apertura del Nuovo Anno, un subbuglio di paure,

un rotolare di pietre, presagi di attesa o è meglio

non aspettarsi più niente? . In questo silenzio 

di attesa dell’alba del Nuovo Anno

sento l’odore del camino che fuma

nella casa di mia madre e mi parla 

la cenere calda che ha trattenuto

 il fuoco fino al mattino.


Mia madre, lei  si che  ha creduto alla vita.


A quest’ora già si sentiva nella casa il suo passo leggero

e lo sbattere le uova per i panzerotti di castagna.


Sulla piega del  mio uscio filtrava la luce

e lei veniva a bussare alla porta

mi parlava dolcemente e mi chiedeva : “stai scrivendo?”

 

Era un tempo lontano, un’altra vita , mi sembra. Cercavo

ieri  mia madre , come una bimba disperata,

 abbandonata  nel bosco in mezzo ai lupi. Inerme

 l’ho  invocata invano.

 

 Carmen Moscariello. Attendendo Matisse, pg.90