mercoledì 6 giugno 2018


Con questa poesia ho vinto il premio della Giuria :Premio "Capri per Pablo Neruda"



Rabdomante (un'ombra cullata e piano franta)[1]

Venne il rabdomante, portò con sé tuoni e lampi

aveva anche una piccola frusta

che in prossimità della casa vibrò come un serpente

mi disse: “qui c’è l’acqua”.

Felice feci scavare. Volevo un pozzo uguale

a quello della casa di mia madre

dove una fata refrigerava le mie attese. Mio padre

d’estate vi calava un cesto ricolmo

io restavo lì per ore a guardarlo dondolare,

contavo le formiche dei bordi

che sfidavano i punti estremi  e

 mai cadevano, restavano  lì a pettinarsi l’un l’altra

  ascoltavo il lieve gorgogliare della sorgente

e i raggi del sole  filavano un manto d’argento

dai  riflessi vocianti. Sentivo bambina la nostra casa già

ammantata di crepuscolo, né la mia trepidante attesa

mi apriva gli enigmi del di girasole.

Un giorno una negromante uscì dalla porpora del papavero

e cosparse l’acqua di veleni,

io lottai, lo dissi a mia madre,

ma non mi credette

tremolava l’acqua e io

mi specchiai più giù, a fondo

sulla bocca del pozzo

nelle sue viscere.

Carmen Moscariello




 L'opera è del Maestro Ernesto D'Argenio, donatami per il mio pensionamento dalla scuola. Anche il Pittore è di origine irpina, ha vissuto a lungo a Parigi.










[1] Ungaretti

martedì 5 giugno 2018

Matilde Serao.


Due donne  allo specchio .

MATILDE SERAO, la donna che sapeva amare

Di Carmen Moscariello

Leggere  “Cara Matilde”,  opera di Lorenza Rocco Carbone, ci  ha messo dentro una gioia, un senso di appartenenza e di orgoglio  nell’essere e nel sentirsi  donna.  Questo mondo femminile oggi più che mai offeso e vilipeso  aveva bisogno di questa riflessione così ampia, così fiammeggiante, così piena di possibilità positive e di svolte, è una iniezione di fiducia e anche di coraggio, affinché le energie di tutte le donne e in particolare di quelle grandi che hanno fatto la storia, ci affianchino ci guidino, e certamente ad esse appartiene la possibilità di salvare il mondo. Già in Profili di donne la Rocco- Carbone  ci aveva donato non solo pagine di storia, ma viole profumate di bene ,  di grazia di grandezza, di irrepetibili  svolte coraggiose. Lorenza Rocco ci ha già presentato e fatto amare Elsa Morante,  Annamari a Acherman (che carezza le pagine a lei dedicate!) ,la Pimentel De Fonseca e  per la stessa Matilde che in questo altro libro è assoluta protagonista. L’autrice ci guida con mano sicura nella  biografia umana, letteraria e storica della grande giornalista; è fulgida interprete dell’appassionata scrittura e delle opere grandi che la Serao compie per Napoli, per l’Italia, per l’Europa . La Serao e Lorenza sono due sorelle che hanno condiviso molto, entrambe giornaliste e scrittrici, avvolte da un incedere deciso, frontale, aperto, senza infingimenti o ipocrisie. Beati, beate chi ha potuto godere  e gode della loro amicizia:  Eleonora Duse fu protetta e amata dalla grande scrittrice e chissà quanti hanno  conosciuto il sostegno l’impegno, la capacità di dire e di proporre che non conosce freno di Lorenza Rocco Carbone . Belli anche i congiungimenti proposti tra le Pagine di Michele Prisco e quelle di Matilde: diverse, importanti entrambe che ci fanno rivivere brividi e sofferenze provocate dallo sterminator  Vesevo;  quelle di Prisco, nella loro fascinosa eleganza,                                               ci catturano e coinvolgono nello smovimento della natura che è gravida dei colori amari del cielo per inabissarsi nelle strade e nelle case degli uomini;  quelle di Matile sono testimonianza svelata dai suoi occhi attenti, posati su quelle laceri genti che sono vissute da una paura corale, un urlo che si alza a Dio per chiedere aiuto. Matilde Serao è la donna che sapeva amare: amò il suo uomo, la sua famiglia, Napoli tutta, e quel genere umano , quegli stessi  lazzari,  di cui ci narra nei suoi articoli la Pimentel De  Fonseca, confusi, abbarbicati alla mala sorte, vittime non solo della natura , ma anche di  un mondo troppo malato. La Serao va a vedere in quei bassi in quei vicoli di Napoli e descrive  ogni particolare, ci conduce con lei nei miasmi di tante vite sfortunate. Ella fu anche politicamente grande e , soprattutto,  in questo campo per lei  fu  un perenne resistere. Non è solo coraggiosa l’unica  donna che firma il Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Croce e firmato da Einaudi , Corrado Alvaro, Giovanni Amendola, Eugenio Montale, Emilio Cecchi,  Guido De Ruggiero, Giustino  Fortunato, Marino   Moretti , Gaetano Salvemini, e… Matilde. Donna che, in questo momento, non ha più al suo fianco   il suo, ormai ex adorato, amato marito Edoardo Scarfoglio ,dal quale  si era separata  nel 1902. Né aveva alle spalle Il Mattino  fondato con Scarfoglio  e che aveva lasciato nel 1903.  Il manifesto di Croce è un atto d’accusa grave, soprattutto perché rivolto al fascismo che era già sulla strada della violenza  e della costituzione di un regime contro gli oppositori. Nella contestazione al Manifesto gentiliano si legge:”un incoerente e bizzarro miscugli d’appelli d’ autorità e di demagogismo, di proclamata riverenza alle leggi e di violazione delle leggi, di concetti ultramoderni, e di vecchiumi muffiti, di atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamenti alla chiesa cattolica, di abborrimenti della cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle sue premesse , di sdilinquimenti mistici e di cinismo“

per gravi denunzie.

Né la Serao firmò senza sapere che cosa le sarebbe capitato, lei abituata saggiamente a non fare il secondo passo senza aver meditato sul primo.

 Ma chi era questa donna al centro della cultura  non solo napoletana, ma europea?. Aveva amici da tutto il mondo, la lodavano, la stimavano l’adoravano, anche Croce ha parole bellissime per lei..

La Serao  intesse un rapporto carnale con Napoli e i suoi cittadini, infiammando con i suoi scritti ogni vicolo, ogni piazza o salotto culturale di Napoli. Ha occhi che scrutano che sanno guardare e sanno leggere. Nonostante le ferite di questa città, nei suoi articoli brilla la lucentezza , la forza, il fascino, il mistero di Napoli che ama e della quale chiede a gran voce il riscatto. Il nero labirinto del Ventre di Napoli  ce lo fa percorrere con la sua parola abile , la sua ebbra vitalità, il suo canto che a volte si fa sinfonia . La sua parola è sfuggita alla morsa del freddo, si fa positiva, diventa carezza, e lì nei vicoli di Napoli l’amore trova il diritto di permanenza. ”Matilde Serao induceva nei romanzi, nelle novelle e fin nelle cronache dei suoi giornali una schietta e cantante passionalità mediterranea, che è come l’ampliamento di una canzone napoletana in un poema sinfonico, tutto intento a svolgere i nuclei di quei semplici temi in estrose variazioni .[1]Si infiamma la sua parola in un febbrile verticalismo che neanche la terribile inchiesta Saredo  (si conclude nel 1902), riesce a scalfire, anzi proprio in questa occasione riceve il più alto segno d’amore dal marito Scarfoglio che la difende dalle accuse infamanti e esalta pubblicamente  il suo coraggio, la sua dedizione totale al giornale e alla città di Napoli. Ella aderì alla religione della libertà che fu anche scelta etica e sociale. Gli intellettuali ,ossia i cultori della scienza e dell’arte , se, come cittadini esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere di attendere con l’opera dell’indagine e della critica e le creazioni dell’arte, a innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale affinché con effetti sempre più benefici , combattano le lotte necessarie . Varcare questi limiti dell’ufficio assegnato , contaminare politica e letteratura per patrocinare deplorevoli violenze e sopprimere la libertà di stampa.[2]

Lo stesso Montale nell’esame accorto che fa dei saggi e delle cronache di Di Giacomo esalta la Serao, portandolo ad affermare: sul piano della felicità espressiva siamo lontani dai migliori esempi della Serao[3]

A novant’anni dalla morte della Serao, l’opera di Lorenza Rocco Carbone ci immette nella sua vita, coralmente, come i personaggi degli scritti della Serao, scorriamo con le parole di Lorenza la sua vita e la sua arte vivamente ispiratrice . Questo ultimo aspetto è molto bene esaltato dall’opera Cara Matilde di Lorenza . La bravissima giornalista con la passione e le capacità letterarie che la caratterizzano pone l’accento sulla scrittura e sulla vita della grande Serao, ce la fa amare, ci porta insieme a lei a scrutare il bello e il dolore che caratterizzarono  questa esistenza, senza nulla trascurare, nè la donna napoletana, né quella cosmopolita, né gli aspetti profondamente umanitari che percorrono ininterrottamente la vita della Serao.

Fu donna di pace e si oppose con tutte le sue forze alla grande guerra, alla quale pure affidò i suoi figli e condivise con le mamme napoletane le ansie e le attese. Lei che scelse come sua religione il cristianesimo, fu mater amabilis di  un’epoca sulla quale incise positivamente con le sue idee da protagonista. L’immagine della Serao del” vero” non uccide gli ideali , non detta lontananze, non giudica, non inasprisce, non cade nel becero sentimentalismo, lei sa raccontare, poiché si cala nei cuori affamati d’amore ,li apre come una reliquia affinché anche gli altri si inchinino alla sopportazione delle troppe miserie alle quali la vita ci mette di fronte, nessuno escluso. I vinti della Serao non sono immagini sfocate di una fotografia d’epoca, le sue donne sono dignitose, seppur sconfitte ,rimangono personaggi indimenticabili, perturbanti.

Donne che scrivono di donne: che esperienza solare, solidale, sociale! Tutto questo trova approdo armonico, quale sinfonia nell’opera Cara Matilde.

“Cara Matilde” di Lorenza Rocco, Kairos editore. Articolo pubblicato sulla rivista culturale “Il Convivio” trimestre di Poesia Arte Cultura, Direttore responsabile Enza Conti, Direttore Editoriale Angelo Manitta,n.72.



[1] Francesco Flora, Storia della Letteratura italiana, Mondadori.
[2] L’eredità letteraria, Il Novecento di Renato e fiammetta Filippelli.
[3] Eugenio Montale, Sulla Poesia a cura di Giorgio Zampa, A. Mondadori

lunedì 4 giugno 2018


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Marcello Carlino Il regionale delle sei e quarantatré, Biblioteca del Vascello, Robin Edizione.

Rilettura dell’opera di Carmen Moscariello

Le saboteur tranquille

Un senso fortissimo di fastidio gli aveva stretto lo stomaco in quell’oretta seguita al risveglio; perché Erdogan era Erdogan ma era più di Erdogan. Se li ricordava bene, ne aveva fatto altre esperienze, i manifesti formato lenzuolo con il furbone di turno che ti si presenta che renidet usque quaque; il furbone, l’utilizzatore di turno, ora aviatore, ora operaio con l’elmetto, ora più ora meno sempre furbescamente forte del potere economico che tutto sbianca e non c’è bisogno d’urina, come gli suggerivano quei frammenti di latinità di cui conservava memoria, sbiadita memoria è bene precisare. Ma non si trattava solo di averne conferma che il denaro può tutto, che tutto decide, una storia vecchia come il cucco questa ;…..

Siamo a pagina 13 del libro e se il lettore si mette bello comodo per assaporare un romanzo e rilassarsi, ha sbagliato libro, nonostante l’autore si sforzi in quarta di copertina di darci una  trama, siamo di fronte a un uragano insolito e incontrollabile come mai si può fare con gli uragani. In verità, non voglio dire  che l’inizio della rilettura mi abbia sconvolto, ma certamente mi ha molto incuriosito. Nei primi periodi di descrizione di certi ambienti cimiteriali in cui la vita ci costringe a vivere, sembra di sfogliare qualcuna delle opere di René  Magritte, ma anche affondare le fauci in certi ambienti paranoici di Salvator Dalì. Si sa, Marcello Carlino è un grande esperto e conoscitori di molteplici linguaggi,(anche linguaggi mediali), di tutta l’arte del Novecento dalla pittura alla musica, senza contare la Letteratura del Novecento, l’ ha esplorata in lungo e largo con particolare predilezione per Gadda (Le lettere a Tecchi) e per Landolfi (Landolfi il fantastico); ha studiato, prediligendoli,  soprattutto i linguaggi dello sperimentalismo, dell’ avanguardismo, del futurismo, intervenendo su una lunga serie di autori e di opere strettamente contemporanei, e dedicando speciale attenzione a Savinio e  a Dante, esplorato questo con studi di grande rilievo culturale e attribuendogli una funzione di centralità di importanza a livello mondiale: del grande Fiorentino ci indica i punti più salienti del suo Essere (poeta-Filosofo-conoscitore dell’umano destino): La modernità del messaggio dantesco risiede nella sua estrema varietà, e quindi nella capacità che la sua poesia ha di costruire una rete amplissima di significati. Si tratta di un poema che mette insieme linguaggi e culture diverse. È un’opera fondamentalmente multiculturale; è un poema che interviene su grandi questioni di carattere filosofico e scientifico, inserite all’interno di pagine di straordinaria liricità. Si tratta, insomma, di una poesia a 360 gradi, che tra l’altro ha delle immagini di straordinaria modernità: io ricordo il XXV canto dell’Inferno, che sembra persino anticipare alcune scene di film horror attuali. […] È anche un’opera che consente, volta per volta e frammento per frammento, di godere di elementi, di rappresentazioni, di riflessioni, che sono di fondamentale valore. […] la Commedia, proprio per questa sua ricchezza di proposte, si presta esattamente all’esercizio della conoscenza……. Quanto detto, non va inteso come proemio alla rilettura dell’opera, ma come parte integrata e integrante di quanto scriverò. Non vi è ombra di dubbio che nella narrazione in oggetto,  le Avanguardie fremono con tutte le loro forze telluriche, sconvolgono tutte le strutture del perbenismo; la parola ben detta e ordinata secondo le grammatiche di tutte le lingue classiche e moderne che l’autore conosce in sommo grado, ha improvvisi frullamenti, è una “  scrittura in  stato d’assedio”, con colori ben separati come un cuba libre preso all’Avana. Carlino, dall’apparenza quieto, raffinato, elegante professore, che con le sue mani delicate,  quelle mani che fin da neonato hanno scritto e raccontato,  sempre in movimento e che  sembrino  accarezzare  le parole e affascinare gli ascoltatori, qui, al contrario,  si scatena in un linguaggio amaro, consortile, quasi non voglia creare differenza tra le parole e il suo popolo disperato e vittima di cui ci racconta. Soprattutto, il linguaggio vive in  un atto nuovo della scrittura e anche i contenuti, che vanno a perlustrare fino in fondo, in fondo quando l’uomo può essere piccolo e meschino, degradato, offeso, derubato, sono come un porta bandiere che sfida i venti affinché si comprenda ciò che siamo o che siamo diventati!. Emerge, insomma, una energia nuova, crescente nell’opera: i samaritani li vedi pure, per quel poco che c’è da vedere nella nebbia, che rimbrottano, magari con una semplice occhiata in tralice che è più difficile da vedere per chi narra nella nebbia, rimbrottano i curiosi divertiti e un po’ irridenti(oggi a me domani a te, chiosa di suo e promette mal augurando il narratore, che prende le parti pure il pronome di prima persona dei derelitti attesi dai cessi).Insorgono pure e quasi minacciano busse allo sferzatore con sferza di lingua, che correndo, e assecondandoli, e dando fiato sul collo, e quasi facendo le mosse di spingerli con mani premute sul didietro, sollecita i signori in processione: che si diano una mossa, che non facciano i lavativi, che corrano che tanto più che debbano correre al cesso e al cesso da che mondo è mondo si corre, che bisogna completare la marcia su uffici e ministeri ed enti di diritto pubblico che ci hanno il loro cartellino da timbrare; e quando li recuperi i ritardi che si mangiano le ferie?

Dal punto di vista strutturale sembra di essere nel linguaggio dei futuristi, la parola è dinamica e la punteggiatura è utilizzata come un motore acceso, fiammeggiante è la parola di chi racconta.  Per i contenuti,  sfido chiunque, se questo non fa pensare a un girone dell’Inferno dantesco (lui, il grande conoscitore di Dante!), dove  le anime dannate traghettate lì (non si sa dove, né da dove) da un maledetto treno, debbono soddisfare i bisogni di evacuare, tutto si svela nella nebbia  in situazioni grottesche. Il narratore è lui, il Professore che fruga in ognuno di loro tutte le miserie, che sono anche le sue! Cosa ci si può aspettare da un mondo defraudato e defraudante? Ma, parlare solo di narrativa o racconto non ci permetterebbe nemmeno di accedere alla conoscenza vera dell’opera. Egli applica quegli “espianti pittorici” che sono abituali nelle sue opere critiche, che non conoscono confini tra la parola poetica- letteraria, quella pittorica, o lo spartito musicale  (tutti campi in cui il Nostro è grande ). Egli è molteplice e molteplici sono le sue letture che non conoscono limiti predefiniti, anzi la grandezza è proprio in questo convergere, quasi lo straripare delle acque del letto di un fiume nel mare, in quel punto dove non è possibile distinguere le appartenenze. Nel momento in cui il popolo dei vagoni si agita e cerca conforto nell’urlo, nell’espletare i bisogni corporali, nelle giocate a carte, nelle maledizioni fragorose, il lettore dimentica di essere al cospetto di un romanzo e le immagini si susseguono in sequela come in un museo all’aperto, anch’esso anarchico e rumoroso. Insomma è come visitare una mostra di Ligabue e uscire dalle sale del Maschio Angioino   con gli urli della tigre di Sandokan nelle orecchie e negli occhi!. Sono effetti particolari, difficili da descrivere, anche perché non  ci sono sbalzi tra i diversi piani di atmosfere, essi sono tutti metafisici, non direi astratti, né allucinogeni, tutt’altro, ma vissuti su più dimensioni: in ripiani di suoni, di immagini, di parole con un  luogo  fisso: i binari del treno. Scenografia  che senza quella freschezza e dinamismo di linguaggi, che sono propri dell’autore, non solo di quest’opera, leggere, infatti, un testo di critica dell’Autore è una Beatitudine. Questa fissità, dicevamo,  potrebbe divenire monotonia in qualsiasi altro scrittore, poiché dopo le prime pagine di incontri dell’autore con la  chiesa e di qualche altro palazzo malato di morte del nostro tempo, non si incontrano i paesaggi soliti di un romanzo: i monti, i fiumi, gli alberi per esempio. L’attenzione del lettore si concentra su Frankenstein e su quella vocina del professore saputello e pedante , come solo i professori sanno essere, con il loro perpetuo ruolo di insegnare e far comprendere e perché no, difendere, che analizza anche il quantitativo di urina che ciascuno ha da pigiare. Forse il libro fa anche ridere; io l’ho letto anche di notte e due o tre risate fragorose non le ho potuto contenere.  E’ un teatro, dove la vita balbetta, non ha direzionale e ognuno si perde in un’attesa snervante che non porterà mai a soluzione. Analizzare il proprio percorso di vita? Non sembra! Piuttosto sono fenditure su ferite aperte e incancrenite, anche la politica è coinvolta in primo piano in questo gioco al massacro che, ormai, non guarda più in faccia a nessuno, se non al denaro e al potere. L’opera si snerva, a sua volta,  come in teatro, ognuno fa la sua parte e il bricolage è spettrale, putrido. Non se ne può più di tanta ipocrisia! E poi c’è la vecchiaia: non ci sono somme da tirare. Non si tira, si affonda.
L'articolo è tratto da "Cultura e Prospettive", gennaio marzo 2018, n 38, pg 186-190.