martedì 27 febbraio 2018

La Poesia di Michele Urrasio e gli "scompensi" del cuore.











Con il cuore dolente e l’azzurro nell’anima

a te che già vivi nel futuro
In questo tempio di memorie
- dove ombre e parole racchiuse
nel silenzio ripetono il fremere
delle voci perdute in una nuvola
di gelo - scrivo a te, fragile vena
assettata di vita, con il cuore
dolente e l’azzurro nell’anima.
L’assenza è il sasso in bilico
su questa scogliera in ascolto
sull’abisso e il riscatto
è la forza di negare il nostro
cedere alla furia di questo
vento che piega gli attimi
in respiro e volge in fuoco
il cristallo di una lacrima.
Scrivo a te che, povero di anni,
ignori il calore del focolare
spento, il sibilo della sirena
mordere il buio, il ricordo
del pane farsi ansia e pena
nelle ore insonni
delle nostre tenere stagioni.
Ti scrivo perché la perla
di rugiada – linfa allo stelo
riarso – non diventi goccia
di pianto e il manto infinito
del cielo avvolga di calore
il tuo cuore fanciullo.
Vivi nel turbinio delle piazze
in rivolta, smarrito nell’indifferenza
del domani, nella violazione
cieca del diritto di credere.
Ma hai lo spazio di gridare
la tua libertà, il privilegio
di sperare che il lento calpestio
della notte forzerà il sole
a illuminare i tuoi segreti.
Ti scrivo per esortarti a essere
uomo in ogni espressione.
A inseguire con tenacia
quella parvenza di luna
che trema
e palpita ignara di ogni
minaccia che sale
dall’inquietudine del tuo mondo.
Disperdi con la luce del tuo
credere le nubi trafitte
dai grovigli di ferro pronti
a impigliare il tuo diritto,
e inventa spazi e orizzonti
sepolti dai solchi dell’oblio.
E non sarai solo, mai,
se il tratturo dove lotti
di inventare la vita avrà
barlumi di luce: sarà la foce
smarrita in questo mare
di sguardi pronti ad imprigionare
lampi di gioia nel guscio
vuoto delle nostre mani.

Michele Urrasio
Pubblico su il mio "Levriero" questi versi di Michele Urrasio. Essi sono l'esempio di quanto grande possa essere il cuore di un poeta. Egli viaggia nell'immenso, fa si che ciò che potrebbe essere dolore e perdizioni si può trasformare prima in preghiera e poi in atto d'amore. Sostengo da molto che il mondo ha bisogno della Poesia, non del generico lamento poetico, ma di una poesia che sia ardore e canto che insegni soprattutto alle giovani generazioni, ma a tutti noi e soprattutto a quelli che l'hanno dimenticato, che la poesia è dramma e amore ,è pane, è abbraccio, è natura -uomo-Dio .I versi di Michele Urrasio aprono le porte a un mondo da conquistare, da amare e rispettare, è l'invito a non  chiudere le porte, a sapere apprezzare il profumo del pane e della libertà, beni preziosi per i quali molti eroi sono morti. Pensare, ragionare, capire sono le essenze che ci rendono umani.  

 

È una composizione di Michele Urrasio di ampio respiro. Il poeta abitualmente ama riassumere nel raggio di pochi versi i frammenti del suo sentire.

Nel chiuso del suo studio – dove conserva gelosamente memorie e affetti – Urrasio rivolge la sua parola "con il cuore / dolente e l’azzurro nell’anima", mediante un’efficace sinestesia, a quanti hanno lo sguardo rivolto al domani e già sperano in un futuro migliore.
Scrive perché i giovani conoscano il valore del calore domestico, il prezzo sacro della libertà, le sofferenze e le rinunce che essa è costata: il freddo dei giorni incerti, il timore della solitudine, l’incubo della tragedia, il delirio dell’abisso, l’ansia scontata «nelle ore insonni / delle nostre tenere stagioni».
Vibra in questi versi il desiderio di mettere in guardia e di proteggere i figli, i nipoti, le nuove generazioni dal pericolo che «il turbinio delle piazze / in rivolta» possa costringerci al silenzio e che la luce della speranza e "il sole" non riescano più a «illuminare i nostri segreti». Esortazione accorata a essere se stessi oltre ogni apparenza, a essere uomini in ogni espressione, inseguendo, fermi e decisi, la determinazione a esorcizzare «la minaccia che sale / dall’inquietudine del mondo».
In questo modo, così soltanto, si potranno disperdere «le nubi trafitte / dai grovigli di ferro» – tragica testimonianza di un doloroso passato – e inventare una vita densa «di sguardi pronti a imprigionare / lampi di gioia nel guscio / vuoto delle nostre mani».

Con il cuore dolente e l’azzurro nell’anima è il grido del poeta che conosce gli scompensi del vivere, il peso dell’indifferenza, e auspica che il nostro pianeta abbia "spazi e orizzonti" sempre più liberi, sempre più sereni.

sabato 24 febbraio 2018





Il Parco Storico Sichelgaita, il Club Inner Wheel Paestum "Città delle rose" ,

il Soroptimist Club di Salerno,

presentano



"Cara Matilde"
- la Serao, la scrittura e la vita -
(Kairòs edizioni)
di Lorenza Rocco Carbone

Con l’autrice intervengono Alberto Granese e Marcello Napoli

Indirizzi di saluto: Clotilde Baccari Cioffi, Annamaria Esposito Alfano, Alma Alfano

Letture di Paola Greco (attrice)

Interventi musicali di Paolo Carlo Monizzi






Libreria Imagine’s Book C.so Garibaldi, 142 Salerno - martedì 6 marzo 2018 ore 17:30

domenica 18 febbraio 2018

Titoli di alcune opere di Carmen Moscariello



Proserpina. Tre atti preceduti da un preludio libro




libro   Moscariello Carmen 
edizioni Bastogi Editrice Italiana, 2003

disponibile 3/5 gg

€ 7,00


Giordano Bruno. Sorgente di fuoco libro




libro   Moscariello Carmen 
edizioni Guida collana Lettere italiane, 2011

€ 10,00


Non è tempo per il Messia libro




libro   Moscariello Carmen 
edizioni Guida collana Lettere italiane, 2012

disp. incerta

€ 9,00


Destini sincronici Amelia Rosselli e Rocco Scotellaro. Con lettere di Rocco Scotellaro e Michele Prisco libro




libro   Moscariello Carmen 
edizioni Guida, 2015

disp. incerta

€ 12,00


Ugo Piscopo terra della sera. Visioni libro




libro   Moscariello Carmen 
edizioni Guida collana Pagine d'autore, 2014

€ 7,00


Tunnel dei sogni libro




libro   Moscariello Carmen 
edizioni Il Convivio, 2016

€ 7,00


L'orologio smarrito libro




libro   Moscariello Carmen 
edizioni Guida collana Pagine d'autore, 2014

disp. incerta

€ 7,00


Oboe per flauto traverso. Parole per Ugo Piscopo libro




libro   Moscariello Carmen 
edizioni Guida collana Lettere italiane, 2013

disp. incerta

€ 5,00


Elelonora dalle belle mani. Dialogo segreto tra Eleonora Duse e Gabriele D'Annunzio. Opera drammatica in tre atti libro




libro   Moscariello Carmen 
edizioni Bastogi Editrice Italiana, 2005

disp. incerta

€ 7,00


Gli occhi frugano il vento libro



sabato 17 febbraio 2018

Dal profondo












L'uminescenze dal profondo

acqua ad acque materne corona
… una donna incinta si bagna la pancia nel mare
il feto scalcia per spezzare l’incantesimo

portandomi per aggiungere mare
alle tue acque materne
ti fu tentazione
l’andare oltre nel sole
sprofondare
… tu sola mandrina
del tuo essere madre
né compagno né marito ad assisterti da riva

ero
il tuo piccolo “sì”
ai “no” della vita
cominciando insieme a balbettare il tuo primo
linguaggio di madre
essenziale
al primo battere delle mie vene
… strategia di affondare
agli ultimi gradini e ai limiti estremi
incanti del profondo
per farmeli poi risalire
con il loro coro abissale

- ancora mi fai paragone
con la vita troppo grande
che non poteva starci tutta nel tuo ventre,
al massimo un’imitazione
a miniatura, un’illusione fondata:
ed eccomi

- io cerco un ventre
orgoglioso e umiliato
per morirci teneramente
come ci sono nato



Le poesie (Mondadori, 2015)

mercoledì 14 febbraio 2018

"Ipotetico approdo": la raccolta poetica di Claudia Piccinno, "nomade in viaggio senza soste" alla ricerca dell’invisibile speranza


 
Una poesia in crescendo, sempre più radicata nei vissuti problematici dell’esistenza umana e capace di farsi "ermeneutica" del sentire collettivo e del bisogno di socialità quale orizzonte di neo-umanesimo profondamente necessario nel nostro tempo, ci pare quella contenuta nell’ ultima silloge poetica " Ipotetico approdo", bilingue, italiano-inglese, Mediagraf Edizioni, 2017, di Claudia Piccinno, poetessa di origine pugliese che vive e insegna in Emilia Romagna.
L’autrice, "nomade in viaggio senza soste", cammina sui sentieri della vita con la consapevolezza di non avere certezze ma di poter dire, quasi mutuando il detto cartesiano, "dubito ergo sum", e , così, continuare a credere nel sogno della vita, inerpicandosi "a nuvole mai dome / per afferrare l’invisibile speranza".
Ed è proprio questa "invisibile speranza" che alimenta nell’autrice, mentre si specchia nel vetro della sua coscienza, la necessità di combattere la battaglia della vita, ove spesso tutto è di plastica e costringe a barcamenarsi tra "sorrisi mediatici":
"Residuo di petrolio
nel cuore di un’ameba
si fa plastica nelle strette di mano,
nelle rivalse di comari ignoranti.
Plastica nei sorrisi mediatici
Collaudati per pedrigree.
Plastica nelle strettoie verbali
Per saggiare
L’ingenua di turno.
Plastica, plastica ovunque.
Ed io…resto vetro".
(Nei sorrisi mediatici)
E la Piccinno si affida al verso per ritrovare se stessa e per incamminarsi con una meditazione dolente verso l’"approdo ipotetico" possibile, quello dell’ "humanitas, dell’ "honestas", termine, quest’ultimo, che indica anche bellezza: la bellezza della verità, dell’accoglienza e dell’amore; la bellezza che sa "divulgare /multipli d’amore" e che mantiene la trasparenza della relazione: "…Sono mesi che ho perso il tuo sguardo / l’ho barattato ormai / con una lista interminabile di ciao, come stai, /sei bellissima, sei fantastica, / e via dicendo…"; ed ancora, la bellezza della discrezione che non invade ma sa mettersi in ascolto; la bellezza della pace che ha il nome della giustizia: "Sui fogli bianchi / che mi hai donato, /inchiostro di pace / ho seminato, perché germogli la Provvidenza /proprio per chi / non sa stare senza(…) Rinchiusi nelle celle / del pregiudizio, /muoiono piano / come all’ospizio,/ valori gravidi / di pace e amore, / che della guerra /annullerebbero il vizio (da: "Inchiostro di pace").
"Ipotetico approdo" è una raccolta che conosce le modulazioni di un cuore aperto alla Trascendenza, alla voce di Dio; non il Dio dei filosofi, ma il Dio chiamato "Abbà", Padre, che la poetessa invoca come luce sul sul cammino ("Sia lampada ai miei passi / la tua parola, perché io scopra / nella preghiera / il vero antidoto / all’altrui indifferenza …") e al quale pone i suoi dubbi nel quadro di un rapporto tensionale tra fede e ragione:
"… S’interroga mesta
la mia ragione
consapevole che la tenzone
resterà desta
e senza risposta
finché la mia fede
non verrà ben riposta".
C’è in questi versi la dialettica tra bene e male di un’anima che vive una sofferenza interiore nell’interrogarsi sul perché del male mentre porta i suoi studenti "al cippo di Sabbiuno di Piano / a leggere quei 34 nomi tenendosi(ci) per mano", che ricordano " i caduti in quel 14 ottobre del ’44"; c’è il dolore nel rievocare il tempo sulla "rotaia pigra / tra quesiti esistenziali / e indomiti perché / senza soffocare / irrazionali voglie / e immotivati sguardi, / curiosità remote / e intuizioni accidentali.."; c’è, ancora, la parabola di un crudo realismo che vede i tratti della sofferenza nella poesia dedicata ad un bambino affetto da autismo, nell’urlo silente di una madre che si duole nell’animo del bruciore di un atavico ed immeritato male, e nella desolazione delle Lande che "invocano l’oblio" e delle "distese provate / dalla bufera della follia, / dall’ignavia della razionalità / dall’invidia dei perdenti.." (in "Lande desolate").
Sullo spartito di questa dolente riflessione, Claudia Piccino si dibatte "sul dubbio / alla ricerca del vero", sul perché dell’ingiustizia, delle divisioni, delle menzogne, non piegandosi, tuttavia, a "rancori malcelati", a "bugiardi di turno", a "comode opinioni", a "sorrisi mediatici", ma affidandosi alla compagnia della fede: "…Mi fu compagno / solo l’incauto verbo / e un dì trionfai / specchiandomi nel vetro".
E’ la pace ciò che sta a cuore alla poetessa, non solo quella sua personale, ma dell’umanità, di ogni uomo ( "…Pace in primis nello sguardo di ogni uomo, / nei rapporti interpersonali /, nella convivenza sul pianeta / tra i regni naturali…"; è una pace universale che viene invocata per tutti: le persone, la natura, gli animali, governanti, ospedali, associazioni, perfino per " chi ne parla senza esercitarla".
Quel che caratterizza la versificazione di Claudia Piccino è quella impronta vitalistica che la lega ai fatti, ai ricordi, a figure, analisi, paesaggi, memorie, con una compresenza di livelli di significato che rendono la sua parola polisemica, ricca di grazia musicale e modulata da un ritmo che crea e si fa immagine. E le immagini che scorrono in questa silloge sono spesso taglienti, svelano verità nascoste nel silenzio delle parole, aprono orizzonti ove la costante tensione dialettica tra fede e ragione, finito e infinito, bene e male, luce e buio,
si fa – diremmo con Paul Claudel – "connaissance", cioè "conoscenza" nel senso etimologico francese di "co-naissance", che significa "nascere insieme al mondo", prendere consapevolezza della solidarietà che lega gli uomini gli uni agli altri e al mondo.
E le poesie di Claudio Piccino mirano proprio a sollecitare questa "co-naissance", e a determinare, pur se a livello embrionale, una gnoseologia incarnata nelle contraddizioni dell’esistenza con l’intento di svegliare coscienze assopite e indifferenti di fronte a profughi, emigrati, naufraghi, guerre, ingiustizie, povertà, solitudine.
Quando nella lirica "Parlami Padre", la poetessa chiede a Dio di spiegarle "il peccato / senza veli", di risponderle "di Eva e le sue colpe", essa si fa voce di una domanda collettiva, di un bisogno di conoscenza del mistero del male, del quale l’uomo è stato toccato sin dalle origini del mondo. Quel male che la poetessa stigmatizza nei suoi versi e dal quale auspica la liberazione per tutti nell’ "ipotetico approdo", ove – come dice bene Nazario Pardini – possa essere possibile "rompere con le aporie del contingente".
Ciò che piace di questa silloge poetica è l’armonioso connubio tra ontologia e sensibilità sociale dell’autrice, la quale riesce a " fare approdare" sulla pagina, questa volta non in modo ipotetico, la sua esperienza umana e culturale con versi che, pur connotandosi, in alcuni casi, come rappresentazione diegetica di un realismo interpretato con l’occhio antropologico, sono immediati, agili e capaci di affabulare. La resa poetica non ci sembra omogenea, ma si muove sempre con piglio di forte impatto semantico; a volte prevale la componente descrittivo – allusiva, altre volte quella memoriale, in altri casi si fa spazio il tono lirico-meditativo, ricco di tenerezza e carico di simbolismi.
Certo è, in ogni caso, che Claudia Piccino rifugge dai costrutti retorici abbelliti da preziosismi stilistici, per puntare, volutamente, ad un poetare ove la parola affonda le radici nella quotidianità fatta di incontri, di iniziative, di luci e di ombre, di "fiducia mal riposta", di rinnegamenti e smarrimenti; una quotidianità trasfigurata nei suoi significati e affrontata con coraggio, con forza d’’animo e coerenza interiore:
"Ho spalle grandi che si piegano
pei colpi d’inconcludenza altrui,
ho gambe forti
che percorrono sentieri solitari,
ho cuore lacero cucito e rattoppato
mille volte,
ho mente acuta che s’infervora
di rabbia al tuo cospetto.
Odio l’ignavia,
l’ambiguità latente e la evidente,
odio il silenzio galeotto
e complice del tornaconto.
Ho questi limiti
che gemmano stupore,
io non mi adeguo
a questo mio livore".
( Cuore cucito)
Questi versi si dispiegano quasi come confessioni autobiografiche e non sono, certo, un giuoco di parole, un’alchimia sistemico-razionale, ma l’espressione di un sentire che si fa "parola", linguaggio, sostanza poetica nella quale – direbbe Ungaretti – "l’esperienza individuale diventa verità universale in cui tutti possono riconoscersi".
E, in effetti, in ogni verso della Piccinno c’è la traduzione della realtà in sensazioni che si fanno messaggio, dialogo con se stessa, dibattuta tra il "qui ed ora" e l’oltre , ma anche colloquio con coloro ai quali la sua voce arriva come canto del "nostos", cioè del ritorno, in senso metaforico, nella terra e nell’anima delle proprie origini edeniche.
Per concludere, ci pare di poter dire che "Ipotetico approdo" sia una "silloge in situazione", atteso che i temi che essa affronta si incarnano fortemente nella situazione di malessere della nostra contemporaneità, scavando nella coscienza etica collettiva al fine di invitarla al riscatto della sofferenza e prospettandole una possibilità di ormeggio; ormeggio che l’autrice offre non con intenti gnomici, ma come "urlo" di una creatura consapevole della "propria imperfetta umanità" e che vive "in bilico tra sogno e concretezza".
Domenico Pisana
8 febbraio 2018
Pubblicata sul blog
 
http://www.radiortm.it/2018/02/08/in-punta-di-libro-di-domenico-pisana-ipotetico-approdo-la-raccolta-poetica-di-claudia-piccinno-nomade-in-viaggio-senza-soste-alla-ric

N. PARDINI LEGGE: "IPOTETICO APPRODO" DI CLAUDIA PICCINNO


N. PARDINI LEGGE: "IPOTETICO APPRODO" DI CLAUDIA PICCINNO


Claudia Piccinno. Ipotetico approdo. Mediagraf Edizioni. Noventa Padovana (PD). 2017







Claudia Piccinno si presenta alla scena letteraria con questa  nuova silloge editata per i caratteri di Mediagraf Edizioni nel mese di ottobre dell’anno 2017. Una silloge intensa, vissuta con urgente emozione, dove la vita, con tutti i suoi risvolti, fa da interprete nel percorso vario e articolato di un poema che tocca le magagne e le incongruenze dell’esser-ci: profughi di guerre, emigrati, malati e indifesi, residui di petrolio, guerra, pace, Provvidenza, fede, serenità, tunnel senza sbocchi, cuori rattoppati, amore, solitudine, silenzi sconfinati:



Ho sillabato silenzi sconfinati

nell’azzurro dei tuoi occhi

e ogni parola era un di più

in tanta magia…,



ma soprattutto un  viaggio, un nostos alla ricerca di un’isola che appaghi le irrequietezze del vivere, che ci svincoli dalle ristrettezze della terrenità:



Marmo di lucide fattezze

negava indomite bellezze,

geometrico pensiero

circoscriveva i sogni

in un unico sentiero.

Angusto diventava

quel villaggio

per chi osasse intraprendere

altro viaggio.



Un libro arricchito e reso più ancora prezioso dalle traduzioni a fronte in inglese. Le rime a fine verso e le assonanze danno un senso di piacevole eufonicità alla lettura, che, sostanziata da metaforici simbolismi di esperita connotazione verbale, si distende con plurale e proteiforme simbolismo.

Si inizia dalla poesia eponima Ipotetico approdo con il sottotitolo indicativo pensando al Titanic.



(…)

Jack e Rose non si ritroveranno

nel quotidiano incedere

di pianeti distanti,

ma le loro anime pellegrine

si riconoscono in un ipotetico approdo

al margine di lustrini e vetrine,

sconosciuto ai naufraghi

e a tutti i naviganti.



Naufraghi, naviganti, mare, orizzonti, fari, porti, voglia di andare… tanti termini che ci avvicinano agli intenti di ossimorico abbrivo insediati in un linguismo di euritmica sonorità. Si sa che è umano, fortemente umano il desiderio del viaggio nell’uomo: un viaggio senza posa, senza tregua alla ricerca di un porto difficilmente raggiungibile. Ipotetico approdo, appunto. Forse perché ognuno di noi ha bisogno di staccare, di rompere con la routine quotidiana, con le aporie del contingente. Ma anche perché la Piccinno vede lontano il traguardo della pace e della serenità in un mondo votato all’ingiustizia e alla guerra.  E tante sono le inquietudini che tormentano il nostro soggiorno terreno. E’ là, in un’isola lontana, che la navigazione è diretta, anche senza volere, per natura; ma quanto periglioso il cammino di tale navigazione! Si incontrano trabucchi, tempeste, bonacce, burrasche, e il nostro andare rischia spesso di cozzare in scogli appuntiti e devastanti. Anche se pronti per continuare con i resti del naufragio, anche se con l’occhio e il cuore fissi all’orizzonte, anche se disposti all’azzardo, il nostro cammino si invischia in dubbi e incertezze che ne ritardano l’approdo; una ricerca di luce, di spazi, di aperture verso un faro che illumini una minima parte di un mare senza confini; di un oceano dove è facile smarrire le nostre misure. Quale metafora più appropriata alla vita di quella di una luce spersa nella vastità del mare. Sì, noi continueremo a navigare verso questo ipotetico approdo; impavidi volgeremo lo sguardo  a traguardi difficilmente raggiungibili, ma quello che conta è avere in noi la voglia di andare, di proseguire, di non rinunciare al viaggio. D’altronde essere incerti, essere dubbiosi di fronte al tutto è cosa naturale; ma è già tanto impiegare le forze, tutto il nostro ardire nella ricerca di noi; di quella parte che ci è sconosciuta. Il linguaggio mette  bene in evidenza il supporto iperbolico allusivo che tanto gioca nella significanza dei temi trattati. Una  verbalità che si fa corpo, volume, contenitore di un’anima vòlta  a tramutarsi in una poesia di intrusioni sociali, umane, esistenziali. Tutto scorre su un piano dialettico di ampio respiro. I versi si ampliano, si scorciano,  si allungano, si fanno ora narrativi ora secchi, brevi, per seguire i diversi momenti dell’ispirazione. E quello che  emerge, alla fine, è uno spartito che abbraccia con la sua sinfonicità il bene e il male della vita, ma soprattutto l’inquietudine di sentirci atomi spersi fra cielo e terra: sì, umani con i piedi piantati al suolo e l’anima vòlta ad un azzurro troppo lontano:



(...)

E siamo qui

nel cono d’ombra

delle mie paure,

nella scia luminosa

di una nuova aurora…

ad aspettare

che si esprima il giorno.



Nazario Pardini


Intervista di Fiorella Franchini a Carmen Moscariello : Perchè rieditare "Figli difficili"?


Perché rieditare questo libro di Michele Prisco?

Luigi Pellegrini, nel ripubblicare a distanza di sessantadue anni dalla sua prima Edizione della Rizzoli(1954) quest’opera di eccezionale bellezza ed eleganza, ha sicuramente fatta una scelta editoriale vincente. Nella serata di presentazione a Castellammare sono state vendute in pochi istanti tutte le copie disponibili (ne erano parecchie) . Inoltre, molte importanti case Editrici, come per esempio la Bompiani, hanno di nuovo un occhio attento sui classici-moderni, non a caso negli scaffali della Feltrinelli di Napoli a piazza dei Martiri, venerdì scorso,  ho notato negli scaffali in bella mostra  e ho ricomprato la nuovissima edizione de”Gli indifferenti “di Moravia. Sembra che gli editori abbiano  la memoria corta , ma in verità non rinunciano alla ripubblicazione di libri che segnano la storia della letteratura italiana. Non dimentichiamo che pochi mesi fa è anche uscito l’interessante testo di Simone Gambacorta, sempre dedicato a Michele Prisco, ”Appartenere alle parole” Galaad edizioni,  e, non voglio dimenticare, anche il testo “Destini Sincronici Amelia Rosselli e Rocco Scotellara con lettere inedite di Michele Prisco a Rocco Scotellaro  edito da Guida Editori. Naturalmente gli estimatori di Prisco e gli amanti della bella scrittura e di quei romanzi fascinosi del Nostro che non si limitano a raccontare storie, ma vanno ben oltre, nello scandaglio   delle situazioni, non solo reali, si aspettano, ormai è ora, un “Meridiano” dedicato al grande Maestro.

Perché rieditarlo? L’opera ha al centro una sfera d’ossidiana memoria, ha i profumi e le alchimie del Vesuvio che affonda le sue radici nelle vite delle cittadine che Prisco vorrebbe attraversare come l’acqua sorgiva che penetra la roccia. Il silicio, la polvere della memoria può provocare improvvisi sussulti, non controllabili da alcuno.

E’ un romanzo psicologico o sociologico?

La critica togata ha molto abusato di questi steccati, rigidi ,inautentici. Dare l’una o l’altra di queste definizioni è limitativo. Prisco è nato con la stoffa del grande scrittore, perciò il suo pensiero è dinamico, nessuna rete può contenerlo, anche definirlo scrittore del neorealismo o ancor peggio scrittore napoletano, significa mortificare la sua grandezza e originalità. Certamente la sua arte è astorica come per tutti i grandi, perciò riprendere in mano i suoi libri e leggerli significa coccolare la propria anima e anche imparare a scrivere, poiché il suo logos è un'orchestra di suoni e fiati.
Qual è la modernità di questo test?

Sicuramente è nella  la sua forza di fascinazione , nella capacità di raccontare l’imprevedibile sussulto della natura umana. Il romanzo mi fa molto pensare al Vesuvio, d’altronde nell’opera è sempre presente, anche quando non viene nominato. Ciò che apparentemente  sembra pacifico può pronunciarsi improvvisamente in terremoto e si sa che  i terremoti possono radere al suolo molte cose, soprattutto ciò che la mano dell’uomo ha devastato con le sue incongruenze. Ebbene, Prisco, su queste cose ha giustamente poggiato il piede, senza fare sconti a nessuno. L’opera è modernissima, sembra scritta ieri: con occhi smagati, l’Autore ci mette in guardia dal non causare altri disastri, l’incursione della memoria nella vita di ciascun protagonista  provoca lacerazioni profonde che nemmeno l’apparente chiusura “felice” fa dimenticare ciò che l’opera è effettivamente, a mio parere, una forte denunzia delle debolezze umane che sono causa di molte vite non vissute.

lunedì 12 febbraio 2018






Michele Prisco “Figli difficili” Walter Pellegrini  Editore.



Sfere d’ossidiana memoria Di Carmen Moscariello Articolo pubblicato da "Il Convivio", n 71, pg 4, ottobre dicembre 2017.

Vorremmo  attuare, nell’interpretazione dell’opera di Michele Prisco “Figli Difficili” , l’insegnamento di    Luigi Pareyson nell’”Estetica Teoria della formatività  e,  quella dell’emerito italianista Emerico Giachery, quest’ultimo facendo espresso riferimento a  Payson  nel capitolo de “la Lettura, interpretazione critica “,ci insegna a  “eseguire”  un testo per   conferirgli vita attuale e presenza , ciò si ottiene sia col farne emergere l’anima riposta e” il senso” inteso come sintesi di significato e significante, sia col promuovere “l’epifania vocale”, nell’interpretazione a voce alta.[1]  La vita anche potenziale del testo, il suo porsi, il suo “esserci”, la sua ricchezza di sensi e di senso è centro e motore, alfa e omega di ogni analisi letteraria. [2]Partendo da questo imput abbiamo percorso una strada intima, evitando  secche e frustranti analisi tecniche. Ebbene, ci avviciniamo allo studio di “Figli difficili” con ancora più amore e dedizione, poiché abbiamo avuto il piacere, seppur marginalmente, di conoscere di persona Michele Prisco che spesso era nostro ospite a Formia e a Gaeta;  il ricordo vivissimo che serbiamo, oltre, naturalmente quello di raffinato scrittore,  è  di un gran signore, un nobiluomo rispettoso e amabile con  tutti. Prima del nostro esprimerci vogliamo anche attingere dai testi dedicati a Prisco da  un grande poeta, quale è stato Renato Filippelli, amico del nostro,  egli lo ebbe più volte ospite a casa sua; questi fatti ce li ricorda anche un bel testo “Appartenere alle parole” di Simone Gambacorta[3], che presenta una serie di interviste fatte a nomi importanti del panorama letterario italiano sull’opera di Prisco; il libro è uscito  quest’anno ed è stato  presentato da Francesco D’Episcopo nella Saletta Guida alla presenza di illustre personalità. Filippelli ebbe molta stima dei  due grandi romanzieri napoletani, di  Rea e di  Prisco,  aveva grandi foto nel suo studio. Di Michele Prisco scrive nella splendida Enciclopedia Letteraria che ci ha lasciato[4]: “Nato nel 1920 a Torre Annunziata (Napoli) e morto nel 2003. Egli esordì in pieno Neorealismo, con una raccolta di racconti ambientati nell’entroterra vesuviano. La provincia addormentata (1949) . Il suo intento era la denuncia sociologica, secondo i canoni veristici; ma i risultati portarono allo scoperto , un temperamento di narratore che attuava l’istintiva ricerca del vero, non tanto nell’analisi ideologica delle strutture sociali, quanto nello studio sottile delle atmosfere psicologiche e nelle ricostruzioni Della vita interiore  dei personaggi, specialmente femminili. Pagato , con “Gli eredi del vento” l’ultimo scotto al Neorealismo, Prisco assecondò la sua autentica vocazione all’inchiesta meticolosa sui drammi interiori nel romanzo “fIgli difficili”(1954)dove narrò di una famiglia borghese i cui membri soffrono il contrasto fra l’urgenza delle loro passioni e l’obbligo di conformarsi al gretto convenzionalismo dell’ambiente . La capacità di tradurre in un linguaggio narrativo moderno , assai ricco di sfumature e risonanze poetiche , la lezione del romanzo psicologico ottocentesco, ha consentito a Prisco la realizzazione di prove narrative che sono tra le più interessanti del secondo Novecento…

Noi continuiamo dicendo che si può entrare nel romanzo” Figli difficili” e rimanerci per mesi. Leggerlo, significa  inseguire i mille cunicoli del labirinto della vita, e, poi, riprenderne la lettura  per  perdersi nei percorsi nostalgici dei ricordi che non hanno per i personaggi del libro alcun effetto di catarsi, anzi ricordare, molto spesso, significherà, non altro, che mettere a nudo e rinfacciare le proprie e le altrui miserie. Il lungo romanzo (più di 400 pagine) si popola di personaggi delusi, amareggiati, sconfitti in partenza, poiché nulla fecero affinché i rivoli secchi delle loro esistenze potessero attingere a qualche sorgente, nessun affluente corre parallelo ad essi, attorno è il deserto dell’Essere: è un  non chiedere e un  non avere! Compaiono  aspetti che, purtroppo,  sono propri di certi esseri umani, l’arroganza di Giuditta, per esempio,  che non si è mai posta il problema di cosa fosse davvero necessario per la felicità dei figli. Questo rigido personaggio si erge sugli altri per il suo materialismo, per l’assenza di ogni ideale, quel che si può immaginare di una donna “pratica”, ma anche priva  di un qualsivoglia sentimento, Il suo cuore batte solo a difesa di un’ immagine patinata esterna, quella da mostrare agli occhi della Provincia. Questa figura materna tratteggiata meticolosamente dal Grande Scrittore è la meno poetica della nostra letteratura, la più parsimoniosa di gesti e di parole per i figli, ma anche per il marito che Prisco fa comparire come un’ ombra, già morto ormai, ma che in vita fu, come se fosse morto. E’ questo un romanzo, in certo modo, crepuscolare, di un certo verismo decadente che si regge su uno stato d’animo terribile  che impera sui personaggi: la delusione, la vita che prende altre strade da quelle che sono le attese e le speranze dei personaggi, con le sue  aspettative negate, che  lasciano al lettore  una tristezza senza lacrime, ma, anche, senza alcuna pietà  (la pietas virgiliana è solo dell’autore)per nessuno dei personaggi del libro.   In parte si colloca quest’opera   nell’ Italia del Novecento, non estraneo al racconto, dove sono narrate  forme di vita dimesse, provinciali, borghesi, sono i sentimenti di malinconia, o ,di amore, di tristezza, di gioia, mai troppo intensi o sofferti in modo acceso, ma sempre distaccati e sentiti attraverso il velo del ricordo nostalgico, della melanconia ironica o del giuoco letterari o , anche quando sono  più dolorosi, sono  espressi in una forma , che viene adottata quasi a voler coprire ,  un abito, anche esso dimesso  e usuale, stati d’animo comuni del vivere quotidiano in un salotto borghese.[5]  Il salotto di Prisco è depositario di mestizia, qui  gli ospiti e gli abitanti della casa sfilano i loro ricordi e le loro amarezze che hanno preso dimora stabile nei luoghi e nei cuori delle persone. A quest’opera  la critica ha rimproverato la troppa lunghezza, il rimestare con insistenza in certe malinconie, ma come giustamente asserisce Salvatore Francesco Romano sugli scrittori crepuscolari, l’insistenza fa parte del gioco della parola e della capacità straordinaria di Prisco di saper  intrattenere il lettore oltre ogni misura, coinvolgendolo e immergendolo in quelle vite amare, in quei percorsi enigmatici che non trovano svelamenti certi neanche alla fine del romanzo. Mario Fubini ci insegna   che nella critica “tanti e tutti parimenti legittimi sono i punti di vista”.

 Così la strada tracciata dall’opportunismo e dalle opportunità mancate è travolta dal fango, da un’irrisione truculenta del male che è il solo a incidere segni eterni . Sono le ferite sulla carne gli unici atti eroici che i personaggi possono vantare. Poi, un soffuso eros, sempre schermato dalla finzioni, affinché gli altri non possano sparlare e intromettersi in situazioni davvero larvali. A nostro avviso la lunga scrittura determina, al fine, il  fascino di questo capolavoro che noi interpretiamo come un’orbita misteriosa della vita, un gomitolo grigio, a volte, dolorosamente  sfilacciato , un procedere nelle dimesse vite dei personaggi, naufraghi senza apparente tempesta. Qui, il destino lo si può guardare solo dal di fuori , è una sfera intricata e intrigante di umori, stanchezze, infelicità, dove,  il percorso è segnato da  una noluntas  lacerante. Un portarsi dietro il sacco della vita, apparentemente senza sforzo, ma invece pesa di sofferenze e l’affanno è un respiro impercepibile, le labbra semichiuse raccontano di singhiozzi strozzati nella gola, il fil di voce si rompe, diviene impercepibile; il dolore, le assenze sono statue con orbite levigate, enormi che ci fissano da ogni lato , pietrificano l’osservatore. Un universo piccolo, piccolo di borghesucci, nelle loro vite con piccoli orizzonti, quello che impressiona è l’assenza di ricerca del bene e dell’amore. E’ un romanzo che  ti lascia con la bocca secca al pari dell’Etre et  le Néant  (1943)di Sartre .Questa pietra carnivora che è la vita  e che qui ci appare, invece, come una pietra dura attraversata da mille vene è una  vita solo falsamente apparentata a un vetro vulcanico, ma che invece sembra possedere solo  l’ardore di una lava. Prisco fa vivere i suoi personaggi sotto il Vesuvio, lo si intravvede, “lo Sterminator Vesevo”  mentre descrive il corso della cittadina in cui i personaggi del libro amano passeggiare e in cui molti  fatti si raccontano, e dove la gente che vi abita ha smarrito tutta la forza del fuoco e peregrina vive solo della polverosa, amara silice. Nessun shock  termico, nemmeno il logos perfetto di Prisco è in grado di rianimare la vita. I giorni si snocciolano in traiettorie obbligate,  la guerra scuote quella struggente stanchezza, ma anch’ essa si traduce in un  ripetersi di gesti legati alle case, ai giardini, alle stesse facce, agli stessi umori. Anche chi, come la signora Giuditta , dovrebbe dettar le carte, gestendo arrogantemente la vita dei suoi figli, appare, al fine, una mamma a rebours, anche il suo affetto per i figli sfinisce nelle convenienze, nell’urgenza di cogliere il meglio economicamente. Prisco al pari di Pirandello ci descrive che cos’ è la maschera, qui in una città di provincia, ma ci fa comprendere anche che l’uomo incapace di essere, si affeziona per sempre alla sua maschera e anche quando appare in cenere, non si rassegna, tenta di  reimporsela, né il bruciore della vergogna o della falsità lo condiziona, tutto deve proseguire negli argini convenzionali, né ha importanza l’amore, sia esso filiale, sia quello che lega le persone per sempre. Così la signora Giuditta, deus ex macchina della sua famiglia,  stabilisce chi deve sposare  la figlia Giulia e chi deve sposare il figlio Roberto. La storia è condotta dall’esterno  con una macchina da presa dei ricordi, focalizzata da Andrea, l’ex fidanzato di Giulia, lavorante nella fabbrica della signora Giuditta, innamorato della figlia della padrona, ma non all’altezza del matrimonio, in quanto povero. Nella sfera ossidiana  si vanno così a creare delle bolle , le macchie prima bianche diventano tutte grigie e voler riproporre ciò che è stato impedito dalle convenzioni sociali, si trasforma in un urlo di dolore, nessuno si salva dal tedio, da una malinconia che uccide, da quegli alberi del viale che immette alla casa e al “salotto”, alberi che sembrano gravati da pece, la sfera d’ ossidiana diventa nera, ma non esplode, come, invece, il lettore si aspetta.  Tutto si fa appiccicaticcio: l’animo umano con le sue piccole grettezze, nonostante qualche lieve ribellione, si  propone ai nostri occhi molto vigliacco, molto incapace, anche di esistere. Nella prima lettura dell’opera, nel leggere attentamente le pagine, ci si ritrova in uno stato d’ansia, come a supporre, ad aspettarsi da un momento all’altro,  un suicidio, posto  in qualche anfratto del pensiero e del cuore di qualcuno dei protagonisti. Meraviglioso è il logos che come in un pazle sapiente ci descrive i luoghi e le persone affinché ci possano apparire chiare nella loro mesta quotidianità. Gli incontri e i ritorni sono altre sconfitte che si cerca di nascondere , l’ossidiana, che prima,  apparentemente, poteva sembrare un arcobaleno, divora ogni brillantezza e ci dice quanto sia difficile vivere, anche quando le avversità esterne non sono preponderanti, la guerra è marginale,  non fa che sancire questa astenia. Eppure il romanzo di Michele Prisco  ci avvolge, ci invischia, vai a rivederlo a rileggerlo, affinché non ti sfugga alcun particolare. La struttura dell’opera è  solida, così come  il logos, mentre tutto decade, esso è e rimane  metafisico.  I  feldespat ci consegnano alla fine un’opera di fuoco su cui bisogna a lungo meditare, un lavoro che con gli anni, non ha perso grinta e  rimane, non solo una delle più grandi testimonianze del Novecento, ma si ripropone, con tutto il suo vigore, fortemente attuale, come d’altronde tutta l’opera di Michele Prisco. Walter Pellegrini, nel ripubblicare a distanza di sessantadue anni dalla sua prima Edizione delle Rizzoli(1954) quest’opera di eccezionale bellezza ed eleganza, ha sicuramente fatta una scelta editoriale vincente. Nella serata di presentazione a Castellammare sono state vendute in pochi istanti tutte le copie disponibili (ne erano moltissime) . Inoltre, molte importanti case Editrici, come per esempio la Bompiani, hanno di nuovo un occhio attento sui classici-moderni, non a caso negli scaffali della Feltrinelli di Napoli a piazza dei Martiri  ho notato in bella mostra  e ho ricomprato la nuovissima edizione de ”Gli indifferenti “di Moravia (Anche su di lui è caduto un colpevole silenzio). Sembra che gli editori abbiano  la memoria corta , ma in verità non rinunciano alla ripubblicazione di libri che hanno segnato la storia della letteratura italiana. Non dimentichiamo che pochi mesi fa  è anche uscito l’interessante testo di Simone Gambacorta, sempre dedicato a Michele Prisco, ”Appartenere alle parole” Galaad edizioni,  e, non voglio dimenticare, anche il testo “Destini Sincronici Amelia Rosselli e Rocco Scotellara con lettere inedite di Michele Prisco a Rocco Scotellaro  edito da Guida Editori. Naturalmente gli estimatori di Prisco e gli amanti della bella scrittura e di quei romanzi fascinosi del Nostro che non si limitano a raccontare storie, ma vanno ben oltre, nello scandaglio   delle situazioni, non solo reali, si aspetta, ormai è ora, un “Meridiano” dedicato al grande Maestro.

Perché rieditarlo? L’opera ha al centro, come dicevo,  una sfera d’ossidiana memoria, ha i profumi e le alchimie del Vesuvio che affonda le sue radici nelle vite delle cittadine che Prisco vorrebbe attraversare come l’acqua sorgiva che penetra la roccia. Il silicio, la polvere della memoria può provocare improvvisi singhiozzi, non controllabili da alcuno. In merito poi alle posizioni della critica togata che ha definito questo romanzo a volte un testo psicologico altre sociologico o entrambe le cose, crediamo che si abbia molto abusato di questi steccati, rigidi ,inautentici. Dare l’una o l’altra di queste definizioni è limitativo. Prisco è nato con la stoffa del grande scrittore, perciò il suo pensiero è dinamico, nessuna rete può contenerlo, anche definirlo scrittore solo del tardo neorealismo o ancor peggio scrittore napoletano , significa mortificare la sua grandezza e originalità. Certamente la sua arte è astorica come per tutti i grandi, perciò riprendere in mano i suoi libri e leggerli significa coccolare la propria anima e anche imparare a scrivere, poiché il suo logos è l’assoluto.

La modernità di quest’opera è nella  la sua forza di fascinazione , nella capacità di raccontare l’imprevedibile sussulto della natura umana. Il romanzo mi fa molto pensare al Vesuvio, d’altronde nell’opera è sempre presente, anche quando non viene nominato. Ciò che apparentemente  sembra pacifico può pronunciarsi improvvisamente in terremoto e si sa che  i terremoti possono radere al suolo molte cose, soprattutto ciò che la mano dell’uomo ha devastato con le sue incongruenze. Ebbene, Prisco, su queste cose ha giustamente poggiato il piede, senza fare sconti a nessuno. L’opera  sembra scritta ieri: con occhi smagati, l’Autore ci mette in guardia dal non causare altri disastri, l’incursione della memoria nella vita di ciascun protagonista  provoca lacerazioni profonde che nemmeno l’apparente chiusura “felice” fa dimenticare ciò che l’opera è effettivamente, a mio parere, una forte denunzia delle debolezze umane che sono causa di molte vite non vissute e di danni irreparabili al prossimo e alla società.



























[1] Emerico Giachery, Passione e sintonia. Saggi ricordi di un italianista, Carocci Editore, Roma luglio 2015.
[2] Op. cit. pg 13.
[3] Simone Gambacorta, “Appartenere alle parole”, Gallad Edizione Teramo 2017
[4] [4] Renato Filippelli e Fiammetta Filippelli,L’ Eeredità Letteraria,storia e testi della Letteratura Italiana, volume terzo tomo B, Il Novecento, pagine 336- 337,Simone Editore, Napoli , ristampe: 2005, 2006,2007.

[5] Salvatore Francesco Romano, L’Italia del Novecento,Biblioteca di storia patria, Opera in tre volumi,L’Età giolittiana,  pg 278-279

domenica 11 febbraio 2018






E'
 seduto sull'oceano del cielo

il mio ricordo, quando le ore si stemperano nel dolce

 fluire delle acque taumaturgiche alle mie ferite

 ha una lucentezza insolita, ora

riposa la sorgente di fuoco: si è persa nel firmamento del bene;

si  tramuta in veste sacerdotale di chi

 ha votato la vita alla parola

il silenzio è corda di violino, è nettare per i fiori

assetati. Il deserto si muove doloroso

con i suoi venti polverosi che  tolgono

il respiro già corto. Il tempo della storia

 conosce le  ambasce. Nel naufragio affonderà  il mondo?

Le sabbie desertificano e l’acqua è un amante traditore

 lontano e distratto: non disseta, non rianima, non dà la vita.

E’ un’immobilità inquieta con il fiore artico nodoso

 di gelo gelato all’occhiello di un bottone nero, rallentata  la voce.

La chanson de l’eau ha perso il suo ritmo

 le cose che doveva fare il coraggio  sono lontane.

L’ aspide entrato nel mistero del mondo

 morderà la  mano, né la sorte

ballerina assetata anch’essa, conosce più lo zampillo ardito e gioioso,

né serba rancore per chi ha devastato l’oceano.

La storia del mondo non può essere che la verità

che Apollo sacro donò  alla Pizia

per la durata dei giorni  nel bene o nel male!

Tutti ti temono con gli artigli  vagabondi dei venti

non trovi pace. Assetati di acqua  nell’universo

del pensiero scandito, sbriciolato, ricostruito,

 lanciato nel cielo come un razzo di morte

 anomalo  ormai anch’egli  privo di sostanza

rallenta nella malattia del mondo la linfa

né le acque che furono travolgenti vogliono ripetere

il miracolo della salvezza

Chi  salirà sull’Arca?

Io non ho il potere di soffiare nella creta e il mondo

non riemerge dalle acque .

Il popolo degli esiliati attraversa il deserto, né le acque

coprono la fuga ai dannati.
(Dalla raccolta “ La pizia non dà più oracoli “di Carmen Moscariello, 2018) E' severamente vietata qualsiasi riproduzione. Le prime due foto appartengono a Franco De Luca.)