domenica 29 gennaio 2012

Omaggio a Ugo Piscopo - "Presenze preesistenti", di Angelo Mundula


Pagg. 86-87

A leggere le innumerevoli quantità (è di questa che bisogna ormai parlare) di libri di poesia, che affollano le nostre giornate, si dovrebbe avere almeno l’impressione di un’estrema varietà di temi e di motivi oltre che di stili diversi e invece l’impressione dominante è sempre più quella di una sorta di generale appiattimento, di generale omologazione. Questo per dire che è davvero raro leggere un testo di poesia che abbia il pregio dell’originalità e che impegni il lettore alla scoperta di un mondo (poetico) veramente prodotto (ma stavo per dire creato) da un’alta fantasia, ossia da quella capacità di invenzione poetica che sembra troppo spesso bandita dai libri di poesia. Con qualche eccezione, per fortuna nostra e dell’autore. Che, questa volta, si chiama Ugo Piscopo, poeta ormai laureato oltre che narratore e autore teatrale, ma anche finissimo critico e studioso di vasti interessi. Piscopo, ancor prima che di un’originale capacità d’invenzione, ha dato prova, nella sua opera poetica, soprattutto in questa, crediamo, di una raffinata capacità di ascolto: del mondo animale, di cui è ben viva espressione quel Quaderno a Ulpia la ragazza in mantello di cane e di quello vegetale che ha trovato espressione in quei fulminanti Haiku del loglio e d’altra selvatica verzura, di cui non s’è persa la memoria, e ora, perfino quel mondo delle pietre, di quelle Presenze preesistenti (Guida Editore, anno 2007) che denunciano, fin dal titolo, una sorta di inquietanti, ma subito anche invoglianti “corrispondenze”. E, del resto, come non avvertirne “il movimento”, se quelle pietre parlano, innanzi tutto, il linguaggio antico dell’Irpinia, ne sono la sua voce più resistente, più familiare (“La pietra è radice / perduta e trovata”) e stanno, mallarmeanamente, non solo “dove un colpo di dadi le ha gettate”, ma fin dove il loro costituirsi in paese, ne perde, nello stesso tempo, l’identità, vivendo di vita autonoma, che non ha più un nome o l’ha avuto o l’avrà o non l’avrà mai più. Più di ogni altro ne è consapevole il poeta che ne parla e ne è a tal punto coinvolto da sentirsi partecipe della stessa storia, anzi, si direbbe, dello stesso destino. Sono infiniti i fili che sapientemente si legano (o si slegano) in questa poesia coltissima: e Piscopo ne tiene in mano i capi, li unisce e li separa, con la sua sapienza, prima di tutto linguistica, plurilinguistica e sarebbe il caso di aggiungere, sull’esempio alto di Zanzotto, prelinguistica. Piscopo ne segue, con occhio attento le sorti, i movimenti, le direzioni, le origini, ma per trasformarli poi in qualcosa d’altro, come infinite linfe che alimentino la sua vena poetica, come tessitura da cui, appunto, nasce il testo. Così si compie la vera funzione del poeta: nelle sue mani (nella sua mente, nel suo cuore e, ancor di più, nelle sue parole) anche le pietre si trasformano, diventano altro da sé, partecipano di un altro, grande destino che, a sua volta, si compie e si celebra in interiore homine. Lo sguardo lungo di Piscopo (la sua doppia vista di poeta) vede, infine, dentro di sé, la vita che nasce, ancora una volta dove la vita sembra naturaliter impossibile, perduta per sempre. Ed è la vita delle pietre e nello stesso tempo la vita del poeta, di cui la pietra, come ben dice Marcello Carlino, è l’allegoria. E il poeta rilegge, nelle “sue” pietre la sua stessa direzione di marcia, il senso della propria vita, la via di una possibile salvezza: e la poesia gli nasce proprio nel luogo dove tutto ciò che si potrebbe dire non può più essere detto o deve cercare sempre nuove vie, nuove faglie tra pietre e pietre.

"Oltranza" e "inquieto sentire" nella produzione poetica di Ugo Piscopo



La produzione poetica di Ugo Piscopo, infaticabile intellettuale del nostro tempo, comprende un cinquantennio di vera poesia (1957-2008). Saggista, giornalista, critico d’arte, pedagogista, autore di pièces teatrali, traduttore: la poesia è sempre stata per lui, in primo piano, e viene intesa coma una “sfida” all’interno della sua vasta produzione. […]
Piscopo parte dalla sua terra d’origine con la prima raccolta Catalepta (Napoli, 1963), dal titolo vistosamente virgiliano, raccogliendo poesie scritte tra il 1957 e il 1963, con un’intonazione “fortemente elegiaco-intimista”. Lo stile richiama quello di Ungaretti e Quasimodo e la poesia-racconto di Pavese. Il mondo incantato dell’infanzia è sempre nella sua memoria, ma è visto in una lontana dissolvenza di immagini, perché comprende una stagione della vita, perduta irrimediabilmente. L’Irpinia con la fatica delle “nonne ancor vaghe fanciulle” rappresenta lo sradicamento dell’ “arcade” che incarna attese e paure. Queste nuage costituiscono un punto di partenza, prima della stagione sperimentale e della “linea meridionalista”. Serra è nella mente di chi avverte l’inconciliabilità tra civiltà contadina e società dei consumi: una poesia che disvela, sin dagli esordi, “associazioni analogiche di idee” e “libero flusso di coscienza”, calamitando la nostra attenzione per alcune peculiarità di rilievo: l’originale figuratività delle immagini, la musicalità del verso, la palpabile evocazione delle cose. […]

Estratto dalle pagg. 407-442

Giovanna Bergamasco - La maschera viola



I racconti di questo libro non sono tecnicamente né favole né fiabe, né animazione moraleggiante né trattenimento fantastico. Sono piuttosto storie immaginose che, attraverso i destini delle vite evocate, persone animali cose, restituiscono alla presenza le emozioni, i vissuti, sepolti tra le sottrazioni del passato, oppure suggeriscono ancora intatte possibilità emozionali, sempre pronte, sulla mobile soglia del tempo, alla prova del futuro verso cui tutti irresistibilmente corriamo.
Testimoniare la vita e l’incessante inseguimento di un senso, che ne acquieti l’affanno, scoprire nell’esistenza l’arduo ma decisivo esercizio a “ben vivere”, sono le profonde motivazioni dell’Autrice.
In fondo le tre storie di questo libro sono una sola, la storia di un’esistenza, la storia della narratrice che ella soltanto può narrare dall’interno, trasfigurata e trasparente della sua verità, non finzione di fabula, ma vita vissuta che nelle parole finalmente si libera dal lungo silenzio patito, poesia.
Ogni volta che la vita si libera in parole, è come se anche le “parole perdute” – tutte quelle “dette in modo sbagliato o soffocate dai silenzi o rimaste sepolte nell’anima” perché altri non hanno avuto il coraggio di ascoltarle – finalmente redente si ritrovassero vive.


Raccolte di poesie


Opere di Ugo Piscopo






venerdì 27 gennaio 2012

Essere Poeti alle soglie del Tremila - di Ninnj Di Stefano Busà

“Essere poeti è faticoso...”, diceva il grande poeta Dario Bellezza, e aggiungeva: “ vi è qualcosa di tremendamente masochistico nell’indossare le varie maschere...”

E’ vero, lo confermo appieno, perché fare poesia, autogestirla, pubblicarla, porla alla mercé della critica, o tenerla semplicemente in cassetto, sotto chiave, è esattamente la stessa cosa. Il poeta non rincorre il successo, più di quanto non lo incalzi il “fatto poetico” in sé, che è innato, si può definire - un vizio di forma -, oserei dire di “natura” una deformazione in nuce, perché risponde alla chiamata del genio o della scintilla ispirativi proprio in funzione di quel contagio d’anima che avviene tra poesia e inconscio, tra questi, due fattori metafisici interviene una massiccia dose di mistero, qualcosa che si può paragonare solo all’inferno, perché tale è il territorio visitato dal poeta, da lì, origina la voce che lo interroga, lo chiama, lo nutre, lo incanta e lo disillude. Egli risponde al proprio dèmon come alla madre che lo chiama.

Se mi posso permettere la comparazione, il poeta ama la poesia più di se stesso, lo esalta, lo consola, lo annoia, lo autodefinisce, lo ama, lo odia, proprio con le stesse caratteristiche di una madre amorevole o di una matrigna, a seconda delle circostanze.

Credo che poeti si nasca, per destino, e che, una volta avviati su quel sentiero aspro e forte, non se ne scorga più la luce nel fondo...

Una volta scoperto il velo di Maya che tiene la poesia raccolta in petto, il poeta ha davanti a sè la pagina bianca, tutta da scoprire, da decifrare, da decriptare. Ma la Poesia sfugge, è altro da sé, altro da qualsiasi forma di arte, tenta di non farsi imbrigliare, raggiungere, mentre il poeta la rincorre tutta la vita, senza raggiungerla,

Perciò si dice che la migliore poesia è quella che non è ancora stata scritta, perché il poeta lungi dall’afferrarla, ne viene invece come catapultato sull’altra sponda opposta e travolto da un’onda tzunamica in un mare tempestoso e beffardo che si prende cura di sbatterlo tra i frangenti e le rapide di un corso d’acqua in pieno delirio, in continuo subbuglio.

Vi è una grande maggioranza di poeti che fa poesia a freddo, a tavolino, manovrando in assoluta libertà, assemblando le parole come in un puzzle. Ma non parliamo di essi, questi non faranno mai poesia alta, grande, immortale, quelli che intendo io sono, poeti riservati, nascosti, misconosciuti, amano l’ombra, non le luci della ribalta; scrivono in silenzio, di notte, lottano coi loro demoni che li assillano, li inseguono, li tormentano, li fomentano....la felicità di questi poeti è darsi interamente alla Poesia, ascoltarne il suono, la melodia, amarla, esercitarla ogni giorno come una religione, una fede.
In conclusione, dunque è giusto quel che affermava Dario Bellezza. Indossare le svariate maschere è faticoso, si corre il rischio di essere spersonalizzati, mai riconoscibili. Eppure, tentati da un “genietto” che è l’assoluto arbitro della tua psiche, ti padroneggia e ti domina ti vincola tra le spire di un sogno inafferrabile, che ti fa suo schiavo di un piccolo genio perverso che ti suggerisce all’interno della personalità lirica la tracciabilità del tuo destino: “sarai da quel momento solo poeta....” ti sussurra all’orecchio, ed è per sempre.....

mercoledì 25 gennaio 2012

L'amore - di Ninnj Di Stefano Busà

Purtroppo, la facoltà di amare, la necessità di un procedimento psicologico di crescita, di condivisione con l'altro di noi, di affiatamento con qualcuno che ci affianca, ci accompagna, o vive con noi, è una capacità attitudinale non naturale che non tutti possiedono.
Amare, poi è una cosa talmente difficile, così, rara e portentosa da divenire col tempo un 
privilegio, qualcosa che abbiamo o non abbiamo, quasi facente parte del DNA di appartenenza.
E non è escluso che si scopra nel tempo, che l'amore è un enzima., magari una sorta di ormone. Di recente hanno scoperto che l'innamoramento porta un'accelerazione e un aumento della melatonina: un ormone che si trova nel nostro sistema organico e che sovraintende alla scelta della persona di cui ci si innamora. Perché non potrebbe essere altrettanto anche in amore?.
Vi sono meccanismi oscuri che ci dominano, complicatissimi filamenti, accessi o collegamenti più o meno palesi che ci fanno essere diversi gli uni dagli altri, dentro un patrimonio genetico, all'interno di un tessuto umano, spirituale, morale, affettivo, logico, emozionale, che è difficilissimo da comprendere e altrettanto impossibile gestire, far confluire, armonizzare a nostro piacimento.
La parte più intima del nostro generatore intellettuale, la massa intellettiva del nostro cervello, quella più profonda, deputata ai sentimenti, al raggiungimento della felicità accanto ad un altro essere umano è quella più difficile da gestire. Ritengo perciò che sia sempre una crescita intellettiva, qualcosa che mettiamo in gioco quando siamo più responsabili, più maturi interiormente.
Cresce con noi, di pari passo, o non ci sfiorerà mai, se non l'aiutiamo a venir fuori, divenendo un tutt'uno con la nostra capacità di amare, all'interno di un sistema interiore di condivisioni e di rapporti interpersonali difficilissimi da comprendere , ma ancora più difficile da realizzare. Il successo o l'insuccesso dipendono da molte ragioni, non ultimo l'ambiente in cui siamo vissuti fino a quel momento, le crisi che ci hanno attraversato, le esperienze devastanti o felici che ci hanno fatto crescere o degenerare in atteggiamenti di difesa, di chiusura, di egoismi, di assuefazioni, di rifiuto.
Non vi è al mondo materia più difficile e più maledettamente imponderabile e incomprensibile della mente umana.
Dentro di noi è come se coabitassero mille persone diverse: una miriade di suggestioni, di atteggiamenti, di reazioni, di emozioni, alle quali bisogna aggiungere, di necessità, anche il passato delle persone che ci hanno accompagnato, che ci sono vissuti a fianco dall'infanzia fino alla maggiore età: più esattamente e presumibilmente genitori, parenti, figli, fratelli, sorelle, amiche. E' come se, vivendoci accanto, ci lasciassero dei segni, delle escoriazioni, delle ferite, oppure ci orientassero più felicemente ad intuire le regole dell'amore, ce ne indicassero gli orientamenti, o più in generale c'insegnassero a saper cogliere l'AMORE con la Maiuscola, quello vero, profondo, autentico, non distruttivo, non infelice e arido, non devastante e paranoico, non instabile e nevrastenico. SEMPLICEMENTE L'AMORE.
Ma  anche a saperlo individuare non è facile, come non lo è saperlo gestire, farlo crescere e progredire... Occorrono, senza ombra di dubbio, intelligenza, dosi massicce  di autoconsapevolezza, di autocontrollo, di equilibrio. Non è facile per nessuno amare e restare con lo stesso indice di gradimento per sempre. Intervengono fattori esterni, estranei al sentimento, che demoliscono ogni giorno le certezze, rimuovono la stima,  deludono, irritano. Non si può essere sempre come rocce adamantine dentro un mare in tempesta, vi sono momenti oscuri, esigenze diverse, tempi diversi e diversi modi di sentire lo stesso sentimento, che ci deviano, ci confondono. Ma basta essere maturi, cresciuti nell'orbita di un sentire che non vuole a nessun costo giungere a situazioni irreversibili, avere il privilegio della logica, della comune ragionevolezza, per non arrivare a passi estremi di autolesionismo e di intolleranza.
Saper riportare tutto nella normalità, di un percorso comune, adulto, ragionato, educato alla tolleranza, alla comprensione, duttile, per poter progredire, crescere, perdonare, vedere le cose attraverso lenti bifocali di autodisciplina e cultura interiore, che è diversa da quella della preparazione dei corsi di studio. Si possono avere, in tal senso, due lauree ed essere analfabeta in -amore- analfabeta in tatto, in comportamento. in educazione, meritare zero in disciplina morale e in sinergia intellettuale.
Tutto ciò è delle menti eccelse, non per comuni mortali (ci sussurriamo all'orecchio) invece non è così. Chiunque può accedere alla grazia di un Amore grande, basta non lasciarsi condizionare fa fatti estranei, da esperienze che se hanno segnato i genitori, i fratelli, gli amici, non è detto che debbano coinvolgere e travolgere anche noi. Bisogna avere la mente lucida, iperattiva, in grado di discernere il bene dal male autonomamente e sapersi dire, ogni giorno, davanti allo specchio: io sono un essere razionale, ho un indice di media intelligenza, non voglio essere plagiata o suggestionata da chicchessia, voglio agire da solo, voglio sbagliare o avere esperienze autonome che mi fanno crescere, senza implodere in me stesso come un allocco.
Questo dovete fare cari amici e amiche. Ognuna delle esperienze di chi ci è stato vicino ha invece seminato zizzania nei nostri cuori, ha eluso la nostra sorveglianza intellettiva, ci ha condizionato, ha lasciato un segno, una traccia dentro di noi, ha manomesso la parte più delicata del nostro sentire, generando nei meandri più oscuri della coscienza una sorta di allarme, una sorta di (in)compatibilità col mondo esterno, con l'altrui.
Mi spiego meglio: nessuno di noi vive solo, isolato in cima all'Everest, indipendentemente dall'amore o dall'affinità con l'altrui, siamo tutti legati gli uni agli altri, in una catena di sentimenti più o meno falsati, più o meno contraddittori, conflittuali con il nostro prossimo: ambienti lavorativi, rapporti interpersonali con colleghi, amici, vicini, viaggi, la nostra professione ci portano ad intrecciare volenti o nolenti rapporti con il prossimo.
Può capitare che la persona che ci viva accanto lasci involontariamente dentro di noi un segno indelebile che non si cancellerà mai più. I genitori ad es. che sono stati i primi protagonisti della vita precedente vissuta in famiglia, hanno lavorato nel nostro subconscio quanto non osiamo neppure supporre. Il loro esempio nell'età giovanile, o nei primi anni di vita, quando la coscienza non è adulta, ma è virtualmente recettiva, fattibile, plasmabile, ondivaga, può essere determinante per una soluzione felice da parte di chi ha vissuto serenamente l'ambiente familiare, ma può anche essere un disastro per l'infelice adolescente che diventando uomo o donna si trovi sbalzato fuori, senza avere potuto imparare nulla. Si, amici, avete capito bene. 
L'amore s'impara, come a scuola la lezione di latino. Nulla si deve lasciare al caso e chi è analfabeta o non ha frequentato lezioni non può essere il primo della classe, perché gli manca il nozionismo atto a fargli scattare l'intelligenza, gli è del tutto estraneo o assente il meccanismo di penetrazione, di discernimento, di articolazione del bene e del male, in poche parole, tutta quella complessa struttura abilitata ad apprendere la cultura dell'amore, proprio come si apprendono le nozioni, le regole della matematica, delle lingue straniere, della fisica.
La serenità vissuta accanto può essere determinante nel suo sistema di crescita e può pregiudicare tutto l'impianto psicologico del bambino, che sarà il futuro adulto. 
Per l'infelicità, poi ci serviamo da soli. Quando abbiamo vissuto carenze di affetti devastanti, quando abbiamo dovuto superare solitudine, incubi notturni, castighi immeritati, esperienze shock, che ci lasciano defraudati dall'enzima amore, al resto pensiamo con la nostra carica di crudeltà, d'indifferenza, di egoismo, di cattiveria. Ma davvero vogliamo peggiorare le situazioni? Se appuriamo che, qualcosa non va nel nostro organismo, andiamo dal dottore, se qualcosa non va nella nostra sensibilità, nel nostro organico sentimentale, siamo tentati di guarire da soli. No. bisogna lasciarsi aiutare, perché il cervello, l'anima, lo spirito sono di gran lunga la materia più difficile in assoluto, da controllare, da curare per non rimanere coinvolti in una infelicità complessiva, devastante per se stessi e per gli altri.

lunedì 16 gennaio 2012

BANDO DEL PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE DI POESIA E NARRATIVA

“L’INTEGRAZIONE CULTURALE ATTRAVERSO LA LETTERATURA”

Il “CEACM” Centro Ecuatoriano de Arte y Cultura a Milano ed il Consolato Generale dell’Ecuador a Milano bandiscono il 2° Premio Letterario Internazionale “L’Integrazione Culturale Attraverso la Letteratura”, aperto a tutti gli autori italiani e stranieri, senza distinzione alcuna. Il premio si articola in 4 sezioni e puó partecipare ogni genere letterario (noir, thriller, horror, rosa, fantasy, storico, poliziesco, religioso, narrativa per bambini, ecc...). I testi possono essere in lingua italiana, inglese o spagnola. Questo premio nasce dalla responsabilità civica che come cittadini immigrati avvertiamo fortemente, ed è il segno che si può vivere in un’altra società facendone parte a tutti gli effetti, a partire dall’io più intimo e non solo come forza lavoro. Per far questo abbiamo utilizzato uno dei maggiori mezzi espressivi, “la Letteratura”, come linguaggio universale nel quale si avvertono i migliori segnali dell’esigenza culturale e si esprime la capacità del dialogo più universale.

LA PARTECIPAZIONE È GRATUITA –  SCADENZA 17 MARZO 2012

Sezione A – Poesie edite o inedite a tema libero.

Sezione B – Libro edito di Poesia.

Sezione C – Libro edito di Narrativa.

Sezione D – Libro edito di Narrativa per bambini. (fiabe, favole, racconti)

GIURIA Ci teniamo a precisare che il premio è senza fini di lucro, e il costo del medesimo è autofinanziato grazie alla collaborazione degli sponsor che sostengono l’integrazione culturale.

Presidente del premio è Guamán Allende, Addetto Culturale in Italia, che coordinerà i lavori della giuria presieduta dalla Prof.ssa Ninnj di Stefano Busà e dai componenti: Prof.ssa Sveva Casati Modignani, Prof. Maurizio Cucchi, Dr. Corrado Calabrò, Prof. Alessandro Quasimodo, Prof. Michelangelo Camelliti, Prof. Franco Loi, Don Alessandro Vavassori, Prof. Haidar Hafez.

 REGOLAMENTO

Art. 1 -  Sezione “A” Poesia edita o inedita a tema libero: si partecipa inviando massimo 2 poesie in 3 copie, una delle quali dovrà essere corredata dalle generalità dell’autore. Oltre al cartaceo, si dovranno fornire via e-mail le 2 poesie per l’eventuale pubblicazione a: premioletterarioga@hotmail.com



Art. 2 - La partecipazione comporta il contributo/acquisto anticipato di almeno una copia dell’antologia del premio del valore di 15 euro ciascuna (é garantita la presenza dei CV di 10 righe all’interno dell’antologia di tutti i partecipanti). I contributi saranno donati per il 50% al CEACM per l’acquisto di materiale scolastico per gli alunni che frequentano i corsi del CEACM presso l’Istituto Leone XIII di Milano, e l’altro 50% sará invece destinato all’acquisto di testi scolastici per bambini, che saranno donati a una biblioteca scolastica delle zone rurali dell’Ecuador.

Art. 3 - Le opere di ogni sezione devono essere inviate in tre copie. I dati anagrafici dell’autore (nome, cognome, luogo e data di nascita, indirizzo, telefono, ed e-mail) saranno accompagnati da una dichiarazione firmata, della proprietà e originalità della propria opera, nonché dell’autorizzazione all’eventuale pubblicazione senza richiedere compenso alcuno, e del consenso al trattamento dei dati personali, nell’ambito del premio, ai sensi dell’art. 11 del D.Lgs. 192/03.

Art. 4 - Inviare un breve curriculum vitae di 10 righe a: premioletterarioga@hotmail.com

Art. 5 - Tutte le opere dovranno essere inviate entro e non oltre 17 marzo 2012 (farà fede la data del timbro postale) accompagnate della ricevuta di versamento di 15 euro, con causale “contributo antologia 2012”, versato sul C/C EXTRABANCA Via Pergolesi, 2/A – 20124 Milano IBAN: IT60X0339901600000010101292.   Pacco postale “PIEGO DI LIBRI” intestato a:

CEACM Premio Letterario

c/o Consolato Generale dell’Ecuador a Milano

Via Vittor Pisani, 9  -  20124 Milano – Italia



Art. 6 - Sono previsti premi in denaro per i primi classificati di ogni sezione, nonchè trofei, targhe e menzioni d’onore. I premi dovranno essere ritirati personalmente o da persona munita di delega e non è previsto nessun tipo di rimborso spese per i premiati.



Art. 7 - Possono aderire autori italiani e stranieri con testi in lingua italiana, inglese o spagnola, è possibile partecipare a più sezioni e con più opere.

Art. 8 - Gli autori, per il fatto stesso di partecipare al premio, cedono il diritto di pubblicazione all’interno dell’antologia del premio, senza avere nulla da pretendere come diritto d’autore. Tutti i diritti rimangono dei singoli autori.



Art. 9 -  Gli scritti non dovranno contenere frasi o riferimenti offensivi verso, persone, enti o istituzioni varie.

Art. 10 - Le opere edite pervenute, non saranno restituite, rimarranno alla biblioteca del CEACM, catalogate e messe a disposizione dei lettori.

Art. 11 - Il giudizio della giuria sarà inappellabile e insindacabile, gli autori premiati saranno avvisati tramite e-mail e telefonicamente entro il 26 aprile 2012, saranno pubblicati sul sito www.ecumilan.org www.guamanallende.com www.agorafutura.net e inviati alle riviste e ai quotidiani nazionali. La cerimonia di premiazione si terrà a Milano, sabato 26 maggio alle ore 15:30 in luogo da stabilire.

mercoledì 11 gennaio 2012

La poesia di Giuseppe Napolitano

a cura di Ninnj Di Stefano Busà

 
Il poeta, se è vero poeta, conosce bene la formula personale con cui presentarsi, a cui improntare i suoi versi, come ad una sorta di identificazione all'io più profondo, deputato a dare immagini di sé al mondo.

Non fa eccezione Giuseppe Napolitano. Un poeta che ha saputo imprimere al suo percorso lirico una trama d'ineludibili aperture verso l'esterno, in una più complessa vicenda letteraria che s'innesca nel solco della moderna poesia e tutta l'attraversa.

Il filo conduttore di Giuseppe Napolitano spesso non è nuovo a tendenze neorealistiche del paesaggio d'anima, reso in un contorno di colori e di abissi, di chiaroscuri e di luci spesso ineludibili dalla sua personalissima identità.

Vi è nel sottofondo di questa poetica, e si evince dal riverberato nucleo interpretativo, un forte spessore classico, ma volutamente sfumato e interpretato in tono mai elegiaco, di forte impronta moderna, attraverso un diluvio di immagini, di impasti quasi sonori o insonorizzati da parole -chiave: Prendi la mia voce/ portami nell'eco/ prendi la mia immagine/ portami nella tua ombra/ Sul paese del sogno io/ sono una nube solitaria/ là dove tu sei un luogo per ritrovarsi."

Versi che ti lasciano all'intensa emozione che suscitano.

La lucida analisi dei fonemi lascia dietro di sé un'indagine che scaturisce dalla commozione o emozione.

Da una composizione all'altra e sotto diversi titoli, assistiamo ad un procedimento di postmodernità della poesia, ad un realismo mai asfittico o insincero, che contiene quasi sempre un palpito nuovo, mai banalizzato o sterile. Ma, seppure scostata dal solco della tradizione, e non allineata a criteri di ordine classicheggiante, questa poetica sa dare lauti frutti, sa planare alla caduta negli abissi, sa rinnovarsi nel solco di un tirocinio verbale tra i più alti. 

Es. in "Apparenza di certezza"

 
Solo se riesci a toglierla poi scopri

di avere un'altra maschera sul volto:

il tuo che più non ricordavi fosse

somigliante così tanto a quel che sei.

 
Magnifico esempio di esclusione metrica, che pure sa imprimere con assoluto nitore un verso che lascia il segno.

Nella poesia di G. Napolitano emergono i segnali di due momenti a confronto: l'uno nel solco della tradizione, che si sforza di rimanere in limine, l'altro che puntualmente verifica e cerca un modulo linguistico e l'orientamento ad un verso nuovo, asciutto, scarno, conformato al quotidiano, guidato da una sapienza scrittoria che vuole imporsi ai tempi, alle logiche demodé, a forme liriche obsolete.

G. Napolitano è se stesso fin nelle più intime fibre e nel testo "Quanto di te" datomi in omaggio a Formia nella circostanza di un occasionale incontro al Premio Tulliola, lo dimostra:

Non ho più rifugio

Mi rifugiavo

in me

quando non essere

con te

volevo.

Nudo senza più questo

bisogno

non so rifugi

di cui parlarti ancora.

C'è da chiedersi se il testo è rivolto al dono della poesia o se vi è una figura femminile in sottofondo ad ispirarlo.
L'ambiguità di cui accennavo, resta, poiché tutta o quasi la produzione di Napolitano è improntata a quest'atmosfera rarefatta, quasi una sorta di fedeltà alla precarietà del dire, al doppio significato dell'essere, che si mostrano in tutta la loro splendida ambiguità, come si addice alla vera, alta poesia di tutti i tempi. 

lunedì 9 gennaio 2012

Recensione all’opera: “L’Assoluto Perfetto” - Il pentagramma triplo nella Poesia di Ninnj Di Stefano Busà

Di

Carmen Moscariello

Non si smorza il fuoco, la cenere non prevale su una scarnificazione lucida del dolore, non inciampa il Poeta nel lento canto gutturale che a goccia a goccia penetra l’incanto, bussa alla porta di Dio il verbum affinché gli sia aperto.
Sono cento i componimenti della raccolta, canti danteschi nella loro perfetta simmetria; passi lenti avanzano con lucida mente, battono la strada della vita che è percorso nel Silenzio . Ostinata nella ricerca dell’armatura di chiave per dare corda a un orologio di battiti umili , ma perseveranti . Si procede nell’ascesi in chiave in “re” e il deserto si presenta con la sua flebile sabbia, il vento è silente e la neve avanza nel lento canto di gigli.

Dove va il Poeta?

Nel mercato dei giorni, nel lungo filo della memoria, nelle stimmate di una processione solitaria, nel solitario ripetersi dell’atto doloroso della via crucis dell’esistenza confusa con quella di Cristo. Il Poeta può innalzarsi a un colloquio preferenziale, può chiedere a Cristo ragione del dolore, esaminare la cancrena del male e rimanere in attesa della salvezza.

La parola poetica si muove sulle note di un pentagramma triplo su un rigo musicale adiastematico, capace di contenere il singhiozzo. Lei parla a Cristo con voce bassa, ma alla pari il “Tu”  nasce dalla comune croce portata con grande fatica.

E’ un pentagramma per archi e fiati che nella notte riporta la strada del nulla per poi fiorire in neve candida in note semplici per voce umana.

Il Poeta centellina, ma avanza, c’è un fine preciso: l’incontro con Dio.

Tutta la raccolta vive questa meta, la racconta giorno dopo notte e vulnera i cieli stellati e le notti senza luna, le appaia in percorsi di silenzi che sono l’unica strada che La porta all’altare di Dio.

La morte lucida osserva implacabile anche lei il percorso e sembra procedere di pari lena verso l’attesa del compenso. Finalmente: sudato meritato, lavato di dolore.
Ed ecco le noti gravi della pedana, l’organo ha musica d’accompagno, si aprono in chiesa gotica i canti del Poeta e dell’uomo che chiede a Dio la casa della luce e il distacco non fa più male.