sabato 24 settembre 2011

Giulio Marra - Ca’ del Lov

Venezia: Studio LT2 2008, 182 pp. (Paola Irene Galli Mastrodonato ©)




Nella sua seconda prova in veste di scrittore, Giulio Marra ci offre un suggestivo ritratto di un angolo appartato della nostra cultura e, per estensione, della nostra coscienza. Ambientata sull’Appennino del “versante bolognese”, tra Zocca e Castel D’Aiano, durante una breve ma intensa stagione estiva, la storia si dipana tra il passato che ritorna e il presente enigmatico e sfuggente che assediano da vicino i protagonisti della riunione di famiglia all’interno della Casa del Lupo a cui rimanda il titolo in dialetto del romanzo.

L’antica costruzione è nello stesso tempo custode di un segreto sconvolgente che risalirà dalle profondità inesplorate a rivelare l’essenza ultima della ricerca sulle proprie origini portata avanti da Giovanni, e, simultaneamente, rappresenta la “porta” iniziatica verso l’ignoto e la trascendenza che si apre con uno spiraglio inquietante e quella “lingua d’aria fredda” (p. 44) nella consapevolezza dei personaggi femminili più anziani, Alma, Amerina e Graziella, vestali della tradizione e dei valori contadini, e di Nerina, la giovane fidanzata di Giovanni, che a un certo punto viene quasi espulsa dallo spazio simbolico e sostituita dai due personaggi “vincenti”, la bimba Gisella, un elfo biondo e incantevole dall’identità misteriosa,  e soprattutto Dada, la donna amata nell’adolescenza da Giovanni e ormai scomparsa, “allontanata come una cometa lungo un’ellissi sconosciuta e non […] più ritornata” (p. 118).

Docente di letterature anglofone a Ca’ Foscari e massimo studioso italiano del teatro canadese contemporaneo, Giulio Marra ben ha saputo intrecciare in questo suo racconto neo-gotico motivi e spunti tematici che dimostrano la sua perfetta padronanza del grande repertorio narratologico a noi pervenuto dalle tradizioni letterarie più svariate. Chiaro mi appare il riferimento alla haunted house (la casa stregata) di matrice inglese prima (il celeberrimo castello di Udolfo di Ann Radcliffe, anch’esso situato sugli Appennini) e americana poi (la casa di Usher di Poe con Madeline che risale alla superficie dai sotterranei), ma anche la Casa del Lupo quale potente avatar totemico che ci rimanda ad una stratificazione archetipica della nostra cultura, quei lupercalia che in qualche modo uniscono il nostro passato pagano con i riti dei popoli aborigeni dei nostri giorni. E che dire della Ca’ del Lov immersa nei boschi quale rivisitazione della capanna di Baba Yaga che, secondo Propp, “struttura” la nostra interpretazione del reale e dell’immaginario dalla notte dei tempi? Al post-moderno come teoria della revisione di tutti gli assunti si rifà indubbiamente la costruzione dei personaggi, che più che essere dotati di una propria esistenza all’interno di una diegesi, di una sequenza di avvenimenti riconoscibili, sembrano rimandare a figure immanenti e senza tempo, dallo spessore quasi allegorico e che richiamano alla mente la lucida poetica di Alain Resnais de L’année dernière à Marienbad.  

Molteplici, infine, sono i vari espedienti che rendono godibile la lettura del romanzo, dal “manoscritto ritrovato” che articola il codice ermeneutico al quale è legata a doppio filo la soluzione del mistero, al flusso di coscienza reso tipograficamente in corsivo e che esprime l’identità sdoppiata del protagonista, fino all’atmosfera onirica e dal sapore “sublime” (in senso settecentesco!) che la prosa di Marra sa evocare:


[…] della Casa del Lupo, era tanto tempo che Giovanni non ci veniva, ne aveva perso per così dire le tracce, era un essere dal quale s’era gradualmente allontanato. Piuttosto, lo aveva suggestionato l’idea di una bianca figura nel bosco, forse un cane, magari un lupo bianco dagli occhi obliqui e denti di vampiro. […] Vitalità e vita. […] lo sguardo si fermò a lungo tra il nero dei tronchi che, qua e là, mostrava chiazze più chiare, qualche tocco di luna faceva intuire il movimento del terreno. Lo sguardo vagava tra gli alberi, ipnoticamente attratto. Era un buio profondo, abissale quello della montagna. In quel buio si doveva entrare, quel silenzio si doveva ascoltare. (pp. 48-49)

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