domenica 10 novembre 2013

"Gramsci,chi?", Opera teatrale di Ugo Piscopo, prefazione di Rino Mele, Plectica Ed.2013






La nona aurora
Recensione
Di Carmen Moscariello

Qui il tempo è intrecciato come code di cavalli armeni….e la storia è mossa dal profeta delle ceneri che scava le tombe e da esse riaffiora la passione di vivere un’ idealità eroica, spaiata dal mondo; eroismo e decadenza si fronteggiano in un duello senza vincitori, solo con tante vittime; Il dover essere che è meteora luminosa lontanissima dal mondo, lucentezza d’un sogno che sopravvive alla cancrena del male. L’opera con struttura da apparente metateatro-pirandelliano, vive di improvvisi apparimenti nella platea buia, è impossibile attribuire le voci a un attore; sul palco a reggere i fili c’è “il regista” che dovrebbe ordire, tessere lo spettacolo, dare una conduzione alla tragedia e permettere che Gramsci diventi personaggio; si aspetta durante la “rappresentazione” dell’intera opera, che finalmente si senta la voce di Antonio Gramsci, che finalmente riprenda ad essere guida di eroismo per i derelitti, o quantomeno che si lamenti delle torture del carcere che lo condussero alla morte, ma le ombre (come nell’inferno dantesco) affiorano ,testimoniano ,accusano e si reimmergono nel buio, a volte si percepisce una certa fangosità della platea, le anime morte” finito il loro ruolo si sottraggono alla storia. L’autore dell’opera, pur ponendosi apparentemente super partes rispetto alle voci-ombra, fa trasparire una sua urgenza: restituire a Gramsci un ruolo di paziente eroe, ma anche di furioso e generoso paladino del popolo operaio e del popolo contadino di colui che sacrificò la propria famiglia e la vita per eliminare le sudditanze, le ingiustizie.
Ingiustizie che fanno si che gli uomini schiaccino gli uomini, che i potenti uccidano le speranze e annientino le famiglie e soprattutto, fa tremare l’orrore dei totalitarismi che molte vite hanno divorato. Raspa l’angoscia e nel teatro tetro emergono fiati che bussano dall’oltretomba, che non trovano pace, poiché troppo è stato il dolore. L’opera di Piscopo ha un solo protagonista, ben tratteggiato in ogni suo aspetto ed è il dolore. Questo dramma emozionante e infernale ci consegna nella sua integrità Tonino Gramsci, il piccolo uomo che sulle sue spalle poteva portare il mondo (così ci insegna Piscopo).
Fremente è la scrittura: non si può uccidere la vita, non si può massacrare un uomo e la sua idealità, affossandolo in tanti modi e con tanti coprotagonisti: il carcere, l’esilio, le privazioni d’ogni genere, il fascismo, Stalin, e ancora “l’amico” Togliatti”. Un mondo della storia e quello familiare si muove intorno al grande politico- filosofo, dalla madre, alla moglie e alle sorelle della moglie, da Stalin a Togliatti e le belle e luminose figure di altri perseguitati dagli stessi “confratelli”, come Giordano Bruno o Padre Pio. Come loro , Gramsci fu rinnegato, anche dallo stesso fratello Mario, che aderì al partito fascista. E incombe un contorto corridoio che parte da Pirandello, passa per Gramsci e arriva all’Autore , percorsi che affondano in cloache che hanno il nome del carcere di Regina Coeli, dell’ esilio a Ustica, del carcere di San Vittore e della casa penale di Turi, degli ospedali in cui Tonino fu più volte ricoverato in condizione penose.
L’opera si legge d’un fiato.
La porta è semiaperta.
Sembra che il” Regista” voglia non essere troppo impegnato,(ha paura di essere travolto? ), ironizza , definisce gli schemi dello spettacolo, ma poi le atmosfere si appalesano simili a quelle dell’Hotel Baquet a Oporto, corridoi bui ,fantasmi del teatro bruciato il 21 marzo del 1888 si affacciano nelle camere degli avventori dell’albergo senza aver smesso i loro abiti di scena. E’ un buio inquieto che domina il dramma. Non ricostruisce Piscopo solo la storia di Gramsci, ha finalità superiori, indaga sul le grandi utopie che hanno dato ossigeno al mondo senza salvarlo dalla morte. Una strage ,come per le api di Aristeo, uccise tutte per vendetta e l’accanimento è contro l’eroe, massacrato fin quando la nona Aurora non lo ridona a noi nella sua purezza, nella sua eternità. La nona aurora con i soli gialli e verdi, ma anche in mezzo il sole nero della morte in cui le api rinacquero per ricostruire il mondo, operose e sagge.
Fortunato fu Aristeo che riebbe dagli dei, nonostante i suoi torti, il suo alveare; fugace Gramsci, sulla scia del vento, spirito dimenticato, aleggia come polvere. Il Fantasma dell’opera non trova approdo, né futuro. Per lui la nona aurora fu l’ utopia di un mondo giusto!

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