La
nona aurora
Recensione
Di
Carmen Moscariello
Qui il tempo è
intrecciato come code di cavalli armeni….e la storia è mossa dal
profeta delle ceneri che scava le tombe e da esse riaffiora la
passione di vivere un’ idealità eroica, spaiata dal mondo;
eroismo e decadenza si fronteggiano in un duello senza vincitori,
solo con tante vittime; Il dover essere che è meteora luminosa
lontanissima dal mondo, lucentezza d’un sogno che sopravvive alla
cancrena del male. L’opera con struttura da apparente
metateatro-pirandelliano, vive di improvvisi apparimenti nella
platea buia, è impossibile attribuire le voci a un attore; sul palco
a reggere i fili c’è “il regista” che dovrebbe ordire, tessere
lo spettacolo, dare una conduzione alla tragedia e permettere che
Gramsci diventi personaggio; si aspetta durante la
“rappresentazione” dell’intera opera, che finalmente si senta
la voce di Antonio Gramsci, che finalmente riprenda ad essere guida
di eroismo per i derelitti, o quantomeno che si lamenti delle torture
del carcere che lo condussero alla morte, ma le ombre (come
nell’inferno dantesco) affiorano ,testimoniano ,accusano e si
reimmergono nel buio, a volte si percepisce una certa fangosità
della platea, le anime morte” finito il loro ruolo si sottraggono
alla storia. L’autore dell’opera, pur ponendosi apparentemente
super partes rispetto alle voci-ombra, fa trasparire una sua
urgenza: restituire a Gramsci un ruolo di paziente eroe, ma anche di
furioso e generoso paladino del popolo operaio e del popolo
contadino di colui che sacrificò la propria famiglia e la vita per
eliminare le sudditanze, le ingiustizie.
Ingiustizie che fanno si
che gli uomini schiaccino gli uomini, che i potenti uccidano le
speranze e annientino le famiglie e soprattutto, fa tremare l’orrore
dei totalitarismi che molte vite hanno divorato. Raspa l’angoscia e
nel teatro tetro emergono fiati che bussano dall’oltretomba, che
non trovano pace, poiché troppo è stato il dolore. L’opera di
Piscopo ha un solo protagonista, ben tratteggiato in ogni suo
aspetto ed è il dolore. Questo dramma emozionante e infernale ci
consegna nella sua integrità Tonino Gramsci, il piccolo uomo che
sulle sue spalle poteva portare il mondo (così ci insegna Piscopo).
Fremente è la scrittura:
non si può uccidere la vita, non si può massacrare un uomo e la sua
idealità, affossandolo in tanti modi e con tanti coprotagonisti: il
carcere, l’esilio, le privazioni d’ogni genere, il fascismo,
Stalin, e ancora “l’amico” Togliatti”. Un mondo della storia
e quello familiare si muove intorno al grande politico- filosofo,
dalla madre, alla moglie e alle sorelle della moglie, da Stalin a
Togliatti e le belle e luminose figure di altri perseguitati dagli
stessi “confratelli”, come Giordano Bruno o Padre Pio. Come loro
, Gramsci fu rinnegato, anche dallo stesso fratello Mario, che aderì
al partito fascista. E incombe un contorto corridoio che parte da
Pirandello, passa per Gramsci e arriva all’Autore , percorsi che
affondano in cloache che hanno il nome del carcere di Regina Coeli,
dell’ esilio a Ustica, del carcere di San Vittore e della casa
penale di Turi, degli ospedali in cui Tonino fu più volte ricoverato
in condizione penose.
L’opera si legge d’un
fiato.
La porta è semiaperta.
Sembra che il” Regista”
voglia non essere troppo impegnato,(ha paura di essere travolto? ),
ironizza , definisce gli schemi dello spettacolo, ma poi le atmosfere
si appalesano simili a quelle dell’Hotel Baquet a Oporto,
corridoi bui ,fantasmi del teatro bruciato il 21 marzo del 1888 si
affacciano nelle camere degli avventori dell’albergo senza aver
smesso i loro abiti di scena. E’ un buio inquieto che domina il
dramma. Non ricostruisce Piscopo solo la storia di Gramsci, ha
finalità superiori, indaga sul le grandi utopie che hanno dato
ossigeno al mondo senza salvarlo dalla morte. Una strage ,come per le
api di Aristeo, uccise tutte per vendetta e l’accanimento è contro
l’eroe, massacrato fin quando la nona Aurora non lo ridona a noi
nella sua purezza, nella sua eternità. La nona aurora con i soli
gialli e verdi, ma anche in mezzo il sole nero della morte in cui
le api rinacquero per ricostruire il mondo, operose e sagge.
Fortunato fu Aristeo che
riebbe dagli dei, nonostante i suoi torti, il suo alveare; fugace
Gramsci, sulla scia del vento, spirito dimenticato, aleggia come
polvere. Il Fantasma
dell’opera non trova
approdo, né futuro. Per lui la nona aurora fu l’ utopia di un
mondo giusto!
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