“Irpinia 1980-2020 Memorie di un terremoto durato 40 anni” di
Giovanni Festa-Giuseppe Iuliano e Paolo Saggese. Delta 3.
E’ questo libro un ottimo esempio di
studi storici, ma in esso c’è anche un’analisi profonda, non solo dei fatti
accaduti, ma anche una capacità di guardare al futuro e rimuovere quelle croste
che la rovina del terremoto dell’80 in
Irpinia si ritrova ancora ad affrontare. Il libro è certamente da ritenere un
atto storico, arricchito da numerose poesie che ricordano in modo ineguagliabile e indimenticabile il dolore e la tragedia che
colpì quei popoli, seminati nelle valli e sui monti della verde Irpinia.
I fatti dolorosissimi del terremoto
dell’80, purtroppo rimangono ancor oggi,
come spine aguzze, che trafiggono
la carne. Con quest'opera siamo di fronte a un’accurata ricerca di fatti e persone che
focalizzeranno per sempre un tratto di storia dell’Irpinia. Gli autori Giovanni
Festa, Giuseppe Iuliano e Paolo Saggese non sono nuovi a queste imprese, hanno ampliato il fiato non solo a quelli che il terremoto
l’hanno subito, perdendo i propri cari e la casa, ma anche a scrittori
importantissimi da Alberto Moravia a
Domenico Rea, al mio amico compianto, Franco Compasso, al mio compagno di
classe, per quattro bellissimi, indimenticabili anni, Salvatore Salvatore, studente del Francesco De Sanctis di Lacedonia,
oggi poeta e brillante giornalista, che in questo libro con i suoi versi ci presenta una natura fredda e indifferente,
fatta di polvere e pietre di pianto; ci
sono a rendere testimonianze, tante altre firme importanti che hanno dato il
loro contributo, affinché il disegno degli autori venisse realizzato.
Nonostante abbia conosciuto fin da subito, le pagine che Domenico Rea scrisse per la mia
terra, non hanno potuto impedirmi di
piangere ancora oggi , poiché quelle parole erano vive allora e ora
sovranamente importanti. Nel dolore di chi racconta c’è il monito su che cosa
attendeva ai sopravvissuti. I danni del terremoto non sono stati solo quelli
provocati in quei pochi attimi, ma il territorio e chi abita i luoghi interessati dal sisma si sono portati dietro una bisaccia troppo piena di dolore e mortificazioni, diciamolo
chiaramente, di abbandono. Domenico Rea il più grande romanziere e giornalista
napoletano pone (uso non a caso questo presente!) l’accento sul significato della casa, o meglio che cosa
significhi per una famiglia del Sud perdere la propria casa. Quali squarci,
quali lacerazioni comportò per molti di quelli che, a volte, per anni, non ebbero
più un tetto per i propri familiari, per
gli animali che in quelle case crescevano e che per essi erano il pane
quotidiano: “le macerie dentro di noi ”. “Che cosa è nel Sud una casa perduta”.
“Nulla, proprio nulla può ripagare un uomo della casa perduta. Si tratterà anche di un casolare e, al limite, di un tugurio, luoghi scomodi
per chi non vi abitava, ma per chi vi ci viveva c’era sempre un punto un angolo,
una sedia o uno scanno un letto di foglie o di paglia in cui raccogliersi e
sentirsi sicuri, nell’agio proprio e ricco della propria intimità” Un testo da
leggero tutto, poiché egli ci racconta i fatti vissuti dall’anima.
E’ quella di Domenico Rea una preghiera per i morti e per i poveri. Interessante rileggere anche Alberto Moravia che la distruzione la osservò dal cielo, quella polvere amara che si innalzava sulle montagne pallide in cui quella sera e quella notte la morte aveva ficcato il suo maledetto rastrello. Quella gente sventurata che piangeva i suoi morti che malediva il cielo. Vorrei ricordare la testimonianza di Manlio Rossi Doria, l’amico di Rocco Scotellaro e poi parlamentare irpino: “Cancellare con la ricostruzione anche i segni dell’antica miseria”. Pose, quest’uomo immenso, l’accento su una questione che in quei giorni non fu focalizzata da molti, ognuno di noi pensava al disastro subito, lui fin da subito guardò lontano! E’ lo scritto più interessante e fattivo che c’è nell’antologia, indica strade da seguire per allontanare la miseria del Sud.
Strade mai seguite.
Ricordo che in quelle zone operarono, subito dopo il terremoto, alcune industrie con nomi altisonanti, che dopo un po’ sparirono nel nulla della polvere; chimere con vita breve che presto presero il volo.
Per le popolazioni fu l’urgenza di emigrare.
Non aver compreso subito che oltre la casa bisognava trattenere
la popolazione in quei luoghi è stato una grande disgrazia, pari a quella che
aveva provocato il cratere. La stessa Lacedonia che nel periodo dei miei studi
appariva per me come la città medicea, con migliaia di giovani che la sera si
riversavano sul corso, per incontrarsi, per ridere, per raccontarsi i propri
sogni, fiduciosi in un futuro possibile, oggi l’ho ritrovata, seppur nella sua
bellezza, quasi deserta. Oltre il terremoto che fu una tragedia immensa,
bisogna con coraggio, senza nascondercelo, parlare dei paesi spopolati. Un’intera generazione,
o, forse, è più giusto dire, più
generazioni, abbandonarono i propri paesi alla ricerca del lavoro e di una vita
più dignitosa.
Siamo grati, molto grati agli autori
che sono stati in grado con un lavoro certosino, dettato dall’amore e dalla
passione per la propria terra, a proporci non solo tante testimonianze importanti, che altrimenti
sarebbero state perdute, ma il testo, soprattutto, ci invita a
riflettere che quel terremoto è durato
40 anni!. Penso che sia un libro da leggere, quelli narrati non sono solo fatti
tragici passati, ma ci aiutano a capire il futuro!. Invito
per questo a leggere, direi a studiare questo testo, a farlo entrare nelle
scuole, trarre da quelle macerie ( anche dalle fotografie raccolte in coda al
libro) che cosa è stata la nostra storia, purtroppo, troppo spesso tessuta anche
dal dolore dell’indifferenza, mi riferisco, soprattutto, al dopo terremoto.
Di Carmen Moscariello
La foto è di Paolo Saggese.
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