martedì 18 maggio 2021

Emerico Giachery: "...testimoniare il sapore e l'emozione di una stagione storica lontana"



 

L’occasione di testimoniare il sapore e l’emozione di una stagione storica lontana e intensamente vissuta è tra i doni più preziosi della senectus. Al tempo, per me e per tanti miei coetanei magico, dell’aprirsi all’ “Europa dell’incontro” nell’immediato dopoguerra, ho dedicato con amore parole e pagine: ero vicino al Movimento federalista europeo di Altiero Spinelli. Qui mi è soprattutto caro ripensare quel tempo nel segno della poesia.    

Nel febbraio del 1945 cominciano a uscire a Roma, già liberata da mesi ma con una parte d’Italia ancora occupata dai nazifascisti, i “Quaderni internazionali di Poesia”, diretti da Enrico Falqui. Il quale scrisse, in apertura al primo quaderno e all’intera serie: «Sarà la voce dei poeti a soccorrere, quale concreta manifestazione di fratellanza tra uomini di buona volontà. Mostrò Vico che il mondo nasce, e di continuo rinasce, come fantasia e poesia. Rifacciamoci dunque a più ansiosamente cercare nella poesia di ieri, ed in quella che intorno già ricomincia a parlarci, la sorgente luminosa di ogni nostro orgoglio ed amore ». Quei quaderni accoglievano, interpolati da scritti sulla poesia, testi poetici d’ogni paese: accanto alle più significative voci nostrane contemporanee, poeti francesi della resistenza, poeti russi proletari, poeti cinesi. Tra tanti altri, Eliot, Machado, Jiménez, Pessoa, Trakl, Cavafis, Arghezi.  Ad alcuni di noi quella “Internazionale della poesia” sembrava ( e non sbagliavamo) il fiore d’una civiltà.

Ero ancora studente liceale quando mio padre, conoscendo il  mio amor di  poesia che risaliva agli anni del ginnasio, mi regalò il primo quaderno. A torto quella serie di quaderni - ai quali seguì una breve serie dedicata alla prosa e diretta da Gianna Manzini - è stata dimenticata (tra i pochi a ricordarla  credo sia stato Antonio Barbuto, nella serie dedicata alle riviste italiane del Novecento). Forse anche non abbastanza ricordata fu l’importanza che ebbe per i giovani e  per i meno giovani l’antologia della poesia italiana contemporanea di Giacinto Spagnoletti: la prima edizione Vallecchi è del 1946, la seconda, nelle edizioni Guanda, è del  1950. Molte indicazioni e scelte di Spagnoletti si dimostrarono in seguito illuminate e appropriate.  

 «A poche cose ha creduto la nostra giovinezza: ma, fra quelle cose, certamente alla poesia», scriveva Sergio Solmi, commilitone di Montale nella prima Guerra Mondiale e autore di poche ma fondamentali pagine critiche sull’amico poeta. Non pochi della mia generazione, da giovani, e per fortuna anche dopo, hanno creduto nella poesia. Leggevamo i poeti stranieri, di solito, nei quaderni bianchi di Guanda o nei volumetti del “Melograno”. Per i poeti italiani, dominava la memoranda collana dello “Specchio”, allora nella sua indimenticata prima veste, con l’immagine, al centro della copertina, di una mano su un libro semiaperto.

      Con ansia aspettavamo la voce di Montale, che tanto amavamo, e che taceva da tempo: per la mia generazione, in quegli anni tra fine dell’adolescenza e nascente giovinezza, soprattutto il  poeta, che ci appariva così vivo e nuovo, delle «trombe d’oro della solarità», di Arsenio, di Riviere.  Con la raffinata qualità delle Occasioni, in cui filtrava il sapore degli anni Trenta percorsi da sommessi presagi apocalittici, ci sintonizzammo più tardi. Come è noto, le poesie di Finisterre, nucleo del terzo libro, erano state   trasportate segretamente a Lugano da Pino Bernasconi, che le aveva pubblicate nel 1943 in un’edizione di 150 esemplari. Finisterre (quasi  finis terrae come finis Europae, minacciata fine di una certa Europa umanistica e illuminata in cui Montale si riconosce e forse si identifica) esce dunque in piena guerra, come «un’appendice alle Occasioni, per gli amici che non vorrebbero fermarsi e far punto a quel libro». Così ci informa lo stesso poeta. Il primo assaggio, per il pubblico italiano, del “terzo libro”, è la lirica intitolata Iride che appare sul secondo quaderno di “Poesia”, e si porge enigmatica a lettori che non hanno ancora una chiave per intendere il senso della figura salvifica che vi prende il volo. La bufera e altro  comincerà a circolare soltanto nel giugno del 1956:  libro di grande ala, come del resto l’autore stesso riconobbe. Carlo Salinari, per pregiudizi ideologici, subito lo stroncò. Aveva ragione il grande critico Harold  Bloom, quando affermava che l’ideologia è nemica dell’arte. Affermazione valida anche a proposito del  recente articolo  di un celebre critico mio quasi coetaneo (“ma non correligionario”, per usare un’espressione di Croce a proposito di D’Annunzio), che  dalla Trimurti - da lui consacrata e offerta ai posteri -  dei classici italiani del Novecento (Fortini, Pasolini, Calvino), esclude Montale perché “algido”. Attesto che nei numerosi corsi monografici che ho tenuto sulla poesia di Montale, ripercorrendo con partecipe gioia e attente soste le tappe del suo cammino poetico,  non vi ho mai notato “algore”.

Un  altro fondamentale “terzo libro”,  Il Dolore di Ungaretti, era apparso nel 1947 sull’orizzonte dell’Italia del primo dopoguerra generosamente dedita alla ricostruzione del Paese. Anche di questo libro,come della montaliana Bufera, troviamo  un’ anticipazione sul medesimo secondo volume  dei “Quaderni internazionali di Poesia”. Si tratta di tre poesie: Folli i miei passi,  Nelle vene, Tu ti spezzasti. L’ultima delle tre registra alcune varianti, non vistose ma significative, rispetto alla redazione definitiva, che ci illuminano sulla sofferta elaborazione di questo testo così  intenso e drammatico. Contesto  con forza l’affermazione che il grande Ungaretti è soltanto quello dell’Allegria. Invito a rileggere, in proposito, la pagine di una delle monografie più convincenti (anche se molto meno ricordata del dovuto) sulla poesia di Ungaretti: quella di Glauco Cambon.

Torniamo al Dolore. Al parlato semplice e piano di Giorno dopo giorno, colloquio struggente e tenerissimo col figlio scomparso, seguono le dense pagine della sezione Roma occupata, nucleo e cuore del libro. Esse ci restituivano la temperie di nostri indimenticabili giorni d’ansia: l’insensato vagare per «strade esterrefatte», passanti simili a ombre ai piedi di un impassibile Colosseo dalle orbite vuote. Librata sulla città, quasi araldico emblema di un libro in gran parte “romano”, la «cupola febbrilmente superstite», lievitata dal sogno eroico del «teso Michelangelo» nello sconvolto secolo del sacco di Roma. La poesia del Dolore la sentimmo  in quegli anni  più che mai vicina e “nostra”.

 Emerico Giachery

 

 

 

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