L’occasione
di testimoniare il sapore e l’emozione di una stagione storica lontana e
intensamente vissuta è tra i doni più preziosi della senectus. Al tempo, per me e per tanti miei coetanei magico,
dell’aprirsi all’ “Europa dell’incontro” nell’immediato dopoguerra, ho dedicato
con amore parole e pagine: ero vicino al Movimento federalista europeo di
Altiero Spinelli. Qui mi è soprattutto caro ripensare quel tempo nel segno
della poesia.
Nel febbraio del 1945 cominciano a
uscire a Roma, già liberata da mesi ma con una parte d’Italia ancora occupata
dai nazifascisti, i “Quaderni internazionali di Poesia”, diretti da Enrico
Falqui. Il quale scrisse, in apertura al primo quaderno e all’intera serie:
«Sarà la voce dei poeti a soccorrere, quale concreta manifestazione di
fratellanza tra uomini di buona volontà. Mostrò Vico che il mondo nasce, e di
continuo rinasce, come fantasia e poesia. Rifacciamoci dunque a più
ansiosamente cercare nella poesia di ieri, ed in quella che intorno già
ricomincia a parlarci, la sorgente luminosa di ogni nostro orgoglio ed amore ».
Quei quaderni accoglievano, interpolati da scritti sulla poesia, testi poetici
d’ogni paese: accanto alle più significative voci nostrane contemporanee, poeti
francesi della resistenza, poeti russi proletari, poeti cinesi. Tra tanti
altri, Eliot, Machado, Jiménez, Pessoa, Trakl, Cavafis, Arghezi. Ad alcuni di noi quella “Internazionale della
poesia” sembrava ( e non sbagliavamo) il fiore d’una civiltà.
Ero
ancora studente liceale quando mio padre, conoscendo il mio amor di
poesia che risaliva agli anni del ginnasio, mi regalò il primo quaderno.
A torto quella serie di quaderni - ai quali seguì una breve serie dedicata alla
prosa e diretta da Gianna Manzini - è stata dimenticata (tra i pochi a
ricordarla credo sia stato Antonio
Barbuto, nella serie dedicata alle riviste italiane del Novecento). Forse anche
non abbastanza ricordata fu l’importanza che ebbe per i giovani e per i meno giovani l’antologia della poesia
italiana contemporanea di Giacinto Spagnoletti: la prima edizione Vallecchi è
del 1946, la seconda, nelle edizioni Guanda, è del 1950. Molte indicazioni e scelte di
Spagnoletti si dimostrarono in seguito illuminate e appropriate.
«A poche cose ha creduto la nostra giovinezza:
ma, fra quelle cose, certamente alla poesia», scriveva Sergio Solmi,
commilitone di Montale nella prima Guerra Mondiale e autore di poche ma
fondamentali pagine critiche sull’amico poeta. Non pochi della mia generazione,
da giovani, e per fortuna anche dopo, hanno creduto nella poesia. Leggevamo i
poeti stranieri, di solito, nei quaderni bianchi di Guanda o nei volumetti del
“Melograno”. Per i poeti italiani, dominava la memoranda collana dello
“Specchio”, allora nella sua indimenticata prima veste, con l’immagine, al
centro della copertina, di una mano su un libro semiaperto.
Con ansia
aspettavamo la voce di Montale, che tanto amavamo, e che taceva da tempo: per
la mia generazione, in quegli anni tra fine dell’adolescenza e nascente
giovinezza, soprattutto il poeta, che ci
appariva così vivo e nuovo, delle «trombe d’oro della solarità», di Arsenio, di Riviere. Con la raffinata
qualità delle Occasioni, in cui
filtrava il sapore degli anni Trenta percorsi da sommessi presagi apocalittici,
ci sintonizzammo più tardi. Come è noto, le poesie di Finisterre, nucleo del terzo libro, erano state trasportate segretamente a Lugano da Pino
Bernasconi, che le aveva pubblicate nel 1943 in un’edizione di 150 esemplari. Finisterre (quasi finis
terrae come finis Europae, minacciata
fine di una certa Europa umanistica e illuminata in cui Montale si riconosce e
forse si identifica) esce dunque in piena guerra, come «un’appendice alle Occasioni, per gli amici che non
vorrebbero fermarsi e far punto a quel libro». Così ci informa lo stesso poeta.
Il primo assaggio, per il pubblico italiano, del “terzo libro”, è la lirica
intitolata Iride che appare sul
secondo quaderno di “Poesia”, e si porge enigmatica a lettori che non hanno
ancora una chiave per intendere il senso della figura salvifica che vi prende
il volo. La bufera e altro comincerà a circolare soltanto nel giugno del
1956: libro di grande ala, come del
resto l’autore stesso riconobbe. Carlo Salinari, per pregiudizi ideologici,
subito lo stroncò. Aveva ragione il grande critico Harold Bloom, quando affermava che l’ideologia è
nemica dell’arte. Affermazione valida anche a proposito del recente articolo di un celebre critico mio quasi coetaneo (“ma
non correligionario”, per usare un’espressione di Croce a proposito di
D’Annunzio), che dalla Trimurti - da lui
consacrata e offerta ai posteri - dei
classici italiani del Novecento (Fortini, Pasolini, Calvino), esclude Montale
perché “algido”. Attesto che nei numerosi corsi monografici che ho tenuto sulla
poesia di Montale, ripercorrendo con partecipe gioia e attente soste le tappe
del suo cammino poetico, non vi ho mai
notato “algore”.
Un altro fondamentale “terzo libro”, Il Dolore di Ungaretti, era apparso nel
1947 sull’orizzonte dell’Italia del primo dopoguerra generosamente dedita alla
ricostruzione del Paese. Anche di questo libro,come della montaliana Bufera, troviamo un’ anticipazione sul medesimo secondo volume dei “Quaderni internazionali di Poesia”. Si
tratta di tre poesie: Folli i miei passi,
Nelle vene, Tu ti spezzasti. L’ultima delle tre registra alcune varianti, non
vistose ma significative, rispetto alla redazione definitiva, che ci illuminano
sulla sofferta elaborazione di questo testo così intenso e drammatico. Contesto con forza l’affermazione che il grande
Ungaretti è soltanto quello dell’Allegria.
Invito a rileggere, in proposito, la pagine di una delle monografie più
convincenti (anche se molto meno ricordata del dovuto) sulla poesia di
Ungaretti: quella di Glauco Cambon.
Torniamo
al Dolore. Al parlato semplice e
piano di Giorno dopo giorno,
colloquio struggente e tenerissimo col figlio scomparso, seguono le dense
pagine della sezione Roma occupata,
nucleo e cuore del libro. Esse ci restituivano la temperie di nostri
indimenticabili giorni d’ansia: l’insensato vagare per «strade esterrefatte»,
passanti simili a ombre ai piedi di un impassibile Colosseo dalle orbite vuote.
Librata sulla città, quasi araldico emblema di un libro in gran parte “romano”,
la «cupola febbrilmente superstite», lievitata dal sogno eroico del «teso
Michelangelo» nello sconvolto secolo del sacco di Roma. La poesia del Dolore la sentimmo in quegli anni più che mai vicina e “nostra”.
Emerico Giachery
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