LEGGERE LA POESIA
Per una volta lasciatemi fare il
battitore libero, l’anarchico, il vagabondo che legge poesia e non segue i dettami dei critici, non
ottempera alle regole suggerite (quasi sempre imposte) per entrare nel mondo
segreto dei versi.
Occorre una guida per godere il
sole, per tuffarsi nel mare, per fare l’amore, per mangiare un piatto di
spaghetti, per sentire cantare un usignolo? Cioè occorre uno che impone il
suo punto di vista, le sue “ragioni” e
il suo modo di sentire e di vedere? E’ diventato così, per merito o demerito
soprattutto della scuola che, o trascura la poesia o ne dà “spiegazione”, cioè ne
racconta un succo, un riassunto che si riduce a fatterello?
Comprendo le necessità
scolastiche, la pretesa o l’ingenuità, la sprovvedutezza (che altro è?) degli
insegnanti che si accaniscono a “spiegare” i versi riducendoli a notizie,
a momenti descrittivi, a enunciati et
similia, ma si tratta di necessità fuorvianti che mettono sullo stesso piano la
parlata di un presentatore televisivo, il commento della partita di calcio e il
primo Canto dell’Inferno di Dante Alighieri. Non sarebbe più opportuno e più
onesto, adopero onesto in senso sabiano, dire ai ragazzi di leggere e di
“vivere” ciò che leggono, o di allontanarlo?
Mi domando se è il caso di fare
seguire o anticipare note, codicilli , postille, clausole e appendici a
qualsiasi poesia scritta da chi è nato a Mosca, a Parigi, a New York, a Praga o
a Roma. Le atmosfere, se è poesia vera e universale, il lettore le vive
con il suo apporto, che non è mai
legato, in senso geografico, a quello realmente prodotto dagli ambienti
offerti. Non adopero di proposito il verbo descrivere. La poesia, ovunque sia
inventata, ovunque sia stata scritta e di qualsiasi cosa parli, è sempre al di
sopra del “particulare”. Il “particulare” ha senso se si parla di storia e di
politica.
Questa premessa per ribadire la
mia ostilità a dare, ad assegnare etichette alla poesia, soprattutto per
evitare che diventi “notizia”, specie se non lo è; che diventi vicenda, romanzo e, da qualche tempo, scialbo
fotoromanzo.
Ho notato, specie negli ambienti
dove conta l’editoria, per intenderci a Milano, che per poter avere, almeno per
una stagione, voce in capitolo, essere protagonista e primo della classe, il
poeta s’inventa la sua corrente, sigilla
una scuola, crea una poesia con un aggettivo. Al limite, se l’intasamento delle
correnti e delle scuole è esagerato, il
poeta s’inventa una sua lingua e così i cattedratici, i filologi, i linguisti,
i grammatici e gli schedatori avranno materiale per storicizzare. Perché
l’importante è essere storicizzati e non letti e goduti, non amati dai lettori.
Anche perché i lettori eventuali di poesia sono quasi tutti poeti o aspiranti
tali, figuriamoci! Però che beffa, se il poeta, non importa perché, riesce a
pubblicare con le sigle editoriali che contano, resterà poeta anche se ha
scritto sciocchezze, banalità, barzellette che non fanno ridere. E saranno
assegnate tesi di laurea nelle Università per discutere quanto conta una pausa,
lo sviluppo d’uno sbadiglio di vocale o di consonante, quanto pesa e che grande
svolta ha dato alla poesia chi è andato a capo con la coda, chi adopera il
punto ma non fa seguire la maiuscola.
Una cosa da non dimenticare è che
la poesia nasce in qualsiasi lingua e regge anche nelle traduzioni, anche in
quelle approssimative se è il miracoloso coagulo di pensiero, immagine, musica,
accensione, abbaglio e vento sottile che inventa una nuova danza. Dante Alighieri è stato trasformato in tutte
le salse eppure ha sempre affascinato, lasciato il segno, perfino nelle lingue
orientali, perfino tradotto nei dialetti più poveri d’Italia.
Invenzioni colossali, mutamenti
epocali che arricchiscono la poesia, le danno maggiore potenza lirica ed
espressiva, eccetera, eccetera. Anche un cieco si accorgerebbe della manipolazione
in atto, delle intenzioni che mirano a far credere poesia addirittura aborti di
cruciverba.
Io ho imparato, dopo avere
assiduamente frequentato i classici di ogni epoca e di ogni Paese, che la
poesia è una certa cosa, cioè, per sintetizzare e farmi intendere, è musica,
immagine, parola, pensiero, emozione, storia, psicologia, sociologia, politica
-in senso aristotelico- vita vissuta con esaltazioni, slanci, cadute, perdite e
guadagni, ed è mare in tempesta, nuvole in fuga, tensione e battaglia furiosa
per stanare il mistero del Tempo, dell’Amore, della Morte.
Chi è che diceva che il poeta è
un’ ape dell’invisibile? Un supremo realista nutrito di fantasia, di follia, di emozioni sempre in divenire? Un
leone che attraversa un incendio immane e ne esce indenne?
Comunque la poesia non è
noticina, caramellina coperta dall’involucro di carta colorata. La poesia non
sa nuotare in superficie, non sa sostare nel pantano e nelle trovate, seppure giustificate e
avallate dalle etichette. E chi ha
deciso che sia, che debba essere cifra asettica di distillazioni paranoiche
senza costrutto, cartolina illustrata e raccontino manieristico morirà il
giorno in cui chiuderà gli occhi, inesorabilmente, perché non lascia “eredità
d’affetti”, perché non ha fatto il nido in nessun cuore. In poesia il cuore
conta, non da solo e sdolcinando, ma
sorretto dalla cultura, dall’intelligenza e dalla famosa misura che è uno dei
retaggi invulnerabili ricevuto dai Greci.
Dante Alighieri stilnovista!
Beh, se fosse etichettato come giorgianista,
bablabista, mogavista, realnovista, o con altre parole, la “Commedia”
prenderebbe un volto diverso, direbbe cose diverse da quel che dice, non
stupirebbe, non coinvolgerebbe, non aprirebbe la luce che apre e spande
rinnovando il senso dell’essere.
Bisogna finirla con le finzioni,
e Pessoa insegna!, con l’arroccarsi nelle formule. La poesia vera e grande non
entra in nessuna formula che, tutt’al più può essere indicativa da un punto di
vista dell’approccio, ma poi l’impatto è questione di vita, di adesione alla
parola che riesce a coinvolgere e ad accendere strade nuove e sempre diverse,
strade antichissime ma che offrono i risvolti del solito, benedetto divenire. Strade
sicure che veicolano le stazioni e la loro distruzione, l’attimo fuggente e la
sua eternità. Si leggano queste espressioni non come assiomi metafisici, ma
come constatazioni fatte sul campo da un servo fedele del verso.
La poesia, quella che è poesia e ha il corpo sfuggente e l’anima fatta di
rintocchi che svelano i misteri,
scartocciano i nodi dell’imponderabile, non finge, non sa fingere e utilizza la
Parola nuda come una calamita che riporta a sé spazio e tempo e ci porge il sentimento dell’Assoluto facendoci sfiorare
le origini della fioritura, della nascita in cui trovano ricetto le possibilità
dell’essere affannosamente in cerca d’una forma.
Se questo non avviene, se la
Parola resta un arido oggetto che si realizza logicamente e gelidamente come un
teorema matematico non sentiremo dentro di noi né morte né vita, né
resurrezione. Seme e distruzione, è un
elegante e prezioso esercizio dell’accumulo culturale che il poeta, anzi il
finto e falso poeta, mette in gioco illudendosi d’essere entrato nelle pieghe
dell’infinito per coglierne i vagiti e le valenze, i traguardi e le sintesi, la
memoria e la cancellazione. Il binomio semmai potrebbe essere seme e
dispersione, seme e fioritura.
Alcuni uomini di cultura hanno
affermato la loro esistenza, lo so, precaria, provvisoria e inutile, comportandosi
come cantanti di musica leggera, leggerissima, anche se privi dell’ovvietà
della canzonetta. Ma passano per poeti, e che poeti! Non fanno male a nessuno,
non fanno crollare palazzi né spandono la peste e dunque che campino e credano
nella loro missione!, nella loro grandezza di poeti convinti che Omero sia
stato un asino senza coda e Dante Alighieri un barboso alligatore….. A volte
non si tratta nemmeno di mistificatori, ma di comparse generiche che hanno
attinto a una sommaria erudizione e ne hanno ricavato vanità e superbia.
Peccato che costoro non hanno mai
badato che la canzonetta, l’ovvietà espressiva, la banalità, il detto e stradetto si sono serviti della
musica per esistere, e della voce dei cantanti. I parolieri sono stati uomini importanti
per Verdi, per Puccini, per Rossini, per i grandi compositori sapendo di essere
appena dei piedistalli, hanno compiuto il loro lavoro come artigiani
particolari, senza ergersi a creatori.
La poesia invece ha la sua
musica, imprescindibile dalla parola, dal verso, dalla compattezza del dettato.
Un carico maggiore sciuperebbe e creerebbe l’effetto che creano i pasti troppo
abbondanti, guasterebbe l’armonia, il rapporto e la densità emotiva che ha
sempre bisogno di leggerezza, di libertà assoluta, di verità lontana dalla
retorica e dai luoghi comuni. Perciò è peccato mortale chiamare poeti gli
interpreti delle canzonette, i cantautori, i parolieri e gli arrangiatori,
chiunque compie un gesto fatto bene, ma che non fiotta lievito e non illumina
di senso nuovo il senso. Sono momenti carezzevoli, non squarci e ferite che illuminano il cammino
dell’uomo.
Chiamare poeti certi signori che
sanno gridare e solfeggiare
amorevolmente e con ruffianeria è come bestemmiare creando confusione, approssimazione e vaghezza.
Una volta mi permisi di chiamare architetto un falegname e divenne mio nemico
per sempre. Per il contrario bastano delle scuse.
Restando ai cantanti si tenga
conto che essi mirano a grattare la superficie dei sentimenti, delle emozioni,
per coinvolgere subito il pubblico. Ai poeti interessa invece sconvolgere e
iniettare fuoco nell’anima in modo da spingere a uscire dal proprio guscio e
finalmente saper intravedere il filo della Conoscenza. Che non è sempre e solo
allegria, a volte è sfida alle ombre, a volte approdo che smania per diventare
vita, per resuscitare, per affacciarsi alla Verità.
Per subito ricominciare. Perché
la poesia è Conoscenza in divenire, viaggio che apre spiragli verso la Luce,
non importa di che colore sia. Tensione verso la Compiutezza.
DANTE MAFFIA
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