sabato 30 aprile 2022

Parole di Ugo Piscopo per la Poesia di Carmen Moscariello

 

NON E' TEMPO PER IL MESSIA opera di Carmen Moscariello Guida Editore.



Vox clamantis in deserto Secondo Auerbach (Mimesis), il modello archetipico del realismo in Occidente in letteratura e nella cultura in genere è la Bibbia. E il Libro è il referente in assoluto per questa nuova raccolta di poesie di Carmen scritte tra il 2008 e il 2011. A cominciare dal titolo, non è tempo per il Messia. Sul titolo è necessario soffermarsi, anche se velocemente, per avere una chiave di accesso alla silloge. L’affermazione perentoria, dal tono amaro e serrato, che dentro strozza la gola, vibrata sul conto di questo (nostro) tempo (come di questo nostro spazio, con le varie latitudini umane) inadeguato, per sfilacciature oggettive e per opzioni, all’avvento del Messia, registra una situazione drammaticamente di dissociazione, sottolinea l’antitesi. E nel segno dell’antitesi è la Bibbia: un racconto ripetuto, talora con indignazione, e variato mille volte sulla dilacerazione fra Dio e l’uomo, a cominciare dal primo esemplare, Adamo, che significa “pelo rosso”, “capelli rossi”, come spiega René Guénon (Forme tradizionali e cicli cosmici). - E ben sappiamo, dalla cultura popolare, che il pelo rosso non promette nulla di buono. Tutta l’oceanica narrazione biblica, ovvero la sua storia infinita, è una mise en scène di uno strappo tra il principio del bene e della luce e l’essere umano, che, in quanto tale, non può non errare e non ripetere suoi sbagli, nelle varie circostanze e nelle più svariate forme in uno stile assurdo 10 di tradimento, di colpa, di stravolgimento dell’ordine del mondo. Così, il teatro della storia diventa il non-senso del fare trasgressivo, omissivo, aggressivo degli esseri umani su uno sfondo oscuro (e conturbante) di una Grande Assenza, che incombe, che parla, che chiama senza essere ascoltata. A questa fonte seduttiva di rappresentazione della Immensa Assenza di Dio nelle vicende umane, “troppo umane”, si potrebbe dire con Nietzsche, se considerate attraverso la specola delle pulsioni all’errore, si richiama Carmen nel titolo, citando il Messia e ponendo tra Lui e la realtà contemporanea un netto discrimine, per scelta, ottusità e brutalità del nostro fare. L’Autrice conferma di virare nella sua navigazione ideale ancora e sempre in questa direzione anche dopo, a cominciare dall’epigrafe messa in evidenza prima di iniziare il suo discorso, tratta significativamente dal Libro dei Salmi, I, continuando poi con vere e proprie “stationes” sacre, dalle forti consonanze jacoponiane, e con altre soste che oggettivamente sono intrise di sentimento religioso verso la vita e le sue fenomenologie, prevalentemente, se non esclusivamente antropocentriche. Sino ai ripiegamenti sul privato, agli attingimenti di plaghe di rasserenamento, nelle confidenze alle carissimo figliole Lara e Silvia, e alle trepide consegne a futura memoria alle stesse di irrinunciabili punti di orientamento, come, ad esempio, questi: “Quando non ci sarò più sentitemi ancora avvolta / nei vostri cuori di figlie adorate. / Vi prego vivete nel sole / e nel vento, come io vi insegnai” (Testamento). Il biblismo, qui, si è fatto carne della propria carne e la prospettiva del Libro di proiezione morale in libertà e in responsabilità oltre l’ordinarietà degli sprechi, degli sbagli, delle tautologie verso altre frontiere, verso la luce, qui si cala spontaneo in parole non ottative, né esortative, ma di esposizione a viva voce di un modo di esserci nella gioia dell’avventura e nella libertà, analoga a quella che prova sulla propria pelle chi si trova a muoversi nel mondo quotidiano “nel sole e nel vento”. Queste felici soluzioni della diegesi della contraddittorietà senza scampo concernente la inesorabilità 11 del dolore nella esperienza di vita di ciascuno di noi e nel mondo complessivamente non sono rare nel poetare di Carmen. Esse ricorrono soprattutto negli squarci concessi alla vita privata, come in Ciottoli, dove si corregge con un anticlimax l’interpretazione montaliana del “male di vivere”: “Se penso al bene di vivere, penso alla madia / piena che cresce il pane nella notte / all’acqua che nutre il pane / alla vita che seminò nell’acqua”. Come in questo idillio elegiaco con la memoria del padre: “Eri lì, alla finestra di casa / osservavi la mia tenera mano / che chiudeva una lucciola // Ti rividi in terra straniera / là dove non volevi morire / condannato a un quadrato di terra’’. Ma anche là dove la parola si scheggia, vibra strappata a un contesto comunicativo ordinario, e dove è lutto un susseguirsi di immagini per scaglie, per baleni accecanti. O dove la sapienzialità viene interrogata e saggiata liturgicamente e per assunzioni concettuali, si sente ansimare il presente, l’inquietudine lievitante della partecipazione al dramma della vita. 

Ugo Piscopo




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