Centro Studi Torre Caetani Maranola
Aperta fino al 19 luglio
Paratassi in laboratorio giallo ocra
Di
Carmen Moscariello
L’orizzonte non si piega a percorsi romantici dell’occhio: gli orizzonti, al contrario, si muovono in laboratori di paratassi in giallo ocra, non rispettano alcuna regola solidale di incontro, ognuno naviga nel proprio orizzonte, proposizione poste in prospettive e geometrie inconciliabili quasi a sottolineare l’abisso tra l’orrore del mondo e i sogni dell’Artista.
La coppia di elementi congiunti, eppure estranei, nell’arte di Giovanni Simione costituiscono un paragone ellittico con al centro il guizzo colorato, sorpresa allo sguardo che dagli spazi lineari e paralleli si ritrova a contemplare immagini sempre più complesse.
Il Pittore ha dotato la sua arte di una ragion critica e di una ragion pratica, ma anche di un nichilismo dal quale non ci si salva.
Il dolore non costituisce un punto dal quale poi si esce, ma è un cerchio magico in cui per sempre si rimane prigionieri e altro non si può fare se non ritornare al punto di partenza per restringere il viaggio e focalizzare ogni particella dell’universo.
E’ un esagramma l’arte del Maestro in una visione daltonica dettata da un jatum che nella stessa opera crea un dualismo inconciliabile, per poi placarsi nel l’I ching dei mutamenti. La legge del colore non combacia, ma sperimenta: consulta attraverso i sei orizzonti le condizioni plurime in cui il mondo si dilania, in un mutamento continuo senza origine, né fine.
L’immagine decentrata, viaggia in dissolvenza di atmosfere insistenti sul giallo ocra che volutamente scarta i colori naturali.
L’arte di Giovanni Simione non si presenta levigata, non vuole essere trasparente, essa impegna i colori della ragione, il Pittore non può ignorare le convulsioni di un mondo asettico, senza linfa che batte, privo di campane che chiamano a festa. Sdegnata l’arte non si piega alla preghiera, ma si immerge nell’improbabile esistere del Nulla, del non Essere.
Anche i trittici che si incalzano a portafoglio, per incastri o riflessi dalle memorie, poggiano su fondamenta senza radici, l’unica cosa antica ed eterna è il dolore dell’uomo con la sua straziata e straziante, incolmabile ricerca.
L’altalenante identità del porcellino rosso al centro della scena, rompe gli equilibri per riportare l’arte su un altro piano, un altro orizzonte criptato col soffio del vuoto, di un pozzo che incatena a forme moderne, originali, su strade e proposte non percorribili da altri, né tantomeno sono segnabili confini esatti, strutturali dell’ imàgo.
Tutto è sbilanciato in chi non trova nel mondo alcuna perfezione e il silenzio si trasforma in forme aspre , in nugae di oggetti piccoli e appartenenti al quotidiano singhiozzo dei luoghi in cui il maestro crea: non i cieli o i tetti che risplendono di sole a Catellone (luogo in cui si trova il suo studio), né i riflessi dell’azzurro mare, ma solo la disperata ricerca “di un segno che superi la vita”, gli oggetti sono intrisi dalla rugosa scorza della storia dell’uomo, nella volontà accanita di qualcosa che non vuoi che sfugga. La creatività è trattenuta in forme distanti, nonostante tutte facciano parte dell’unico nucleo che è il mondo del vissuto con occhi che guardano oltre gli orizzonti paralleli che si sfogliano come pagine di incunaboli .
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