Verso
orizzonti che affrancano l’uomo dalle ristrettezze del vivere
Una
polifonica romanza d’amore, di vita, di sogni, di affetti per i
figli, i nipoti, per una storia che ha ed ha avuto vicissitudini
ricche di humanitas, e zeppe di empatia; una voce corale che parla
d’incontri rievocati, di presenze, di urgente forza suggestiva,
sapida di vitalità ispirativa, di immagini di occhi innocenti, di
volti profumati, di attese spasmodiche, e di ali aperte al volo:
Sei
il mio piccolo Budda
ti
volgo dal sonno alla luce
disegno
nel firmamento
il
sogno di te
girasole
di splendidi amori
Leonardo,
piccolo Budda
ed
io nonna felice
ballo
con te fino all’alba
tumbalalaika…
(La porta d’avorio);
un
diario plurale, espanso, totale, che parla di giorni, di notti, di
speranze, gioie, illusioni, sottrazioni, di affreschi ricamati di
luci e di ombre; una plaquette di graffiante intensità emotiva, i
cui versi, generosi per attitudine alla cultura, per sincronie
propositive, e per intrecci allusivi, timbrano, con sonora euritmia
innovativa, le folgorazioni dell’anima. Quelle di una narrazione
che va oltre le regole di una sintassi canonica per l’urgenza di
liberare un animo straboccante di passione; dove persino la
punteggiatura sembra di ostacolo all’esigenza di un cuore vòlto a
confessare, con immediatezza, le sue emozioni. Scrivere di Carmen
Moscariello significa avvicinarsi al suo amore per la poesia. Alla
sua dedizione fattiva a questa nobile arte. Dacché Lei, oltre a
comporla con forte coinvolgimento, la valorizza, e la diffonde
tramite un importante premio letterario (Tulliola Renato Filippelli
di Formia) di cui è presidente e fondatrice. E in questa sua nuova
silloge, fin dai versi incipitari, evidenzia vis creativa,
frequentazione letteraria, e compattezza che fanno della fusione fra
dire e sentire il focus, il valore aggiunto dell’opera. Dacché ci
convince, da subito, l’uso del verbo; un verbo impiegato con forza
etimo-fonica d’inaspettate pointes; un verbo contagiante sia da un
punto di vista metrico-stilistico che da quello plenitudinis vitae;
plenitudo che riporta a un pensatore del primo Medioevo cristiano,
Severino Boezio che ne “La consolazione della filosofia”
attribuiva tale stato d’animo solo a Dio “Vita senza fine” (cui
neque futuri quicquam absit nec preteriti fluxerit, nulla del futuro
può essere assente, nulla del passato potrà essere svanito). Una
pienezza che la Moscariello fa sua attraverso un travaglio
metabolizzato, e che il verso sa affiancare, ampliandosi,
rattenendosi, lasciando in sospeso una soluzione esistenziale,
tratteggiando una vera esplosione di gioia, o rimarcando il
passo d’addio
nel dolore d’ogni tempo, d’ogni luogo:
dietro
l’ azzurro nelle vene irrita il vento
occulta
non si quieta la fame, il futuro è in traiettoria
congiunto
è con l’ ieri nei castelli longobardi
di
ogni storia rivedo la mia infanzia
non
mi appare tanto lontana ancora prosegue
quel
sogno delle querce, il passo d’addio
è
nel dolore d ‘ogni tempo, d’ogni luogo
(de divinazione).
Natale
2012
E
lo fa con una tale metaforicità da offrire al lettore un duplice
codice di lettura: significato e significante, che, insieme,
collaborano con energia alla resa di un “poema” in cui, da un
punto di vista contenutistico, mai il sentimentalismo becero e
deteriore prende il sopravvento; considerando che La Nostra sa creare
argini ben robusti a contenere la piena di un fiume che corre con
irruenza verso i profumi del mare. Verso quegli orizzonti che tanto
significano l’affrancamento dell’uomo dalle ristrettezze del
vivere:
Andare
nell’infinito prodigio della vita
attraversare
gli orizzonti del mare del cielo e della terra
avvolgermi
in tenera nube e rotolarmi
in
prati fragolosi, da uno scoglio all’altro fino
alla
punta del molo sfidare la gelida la luna
che
cede il passo al sole
Flutti
cocci ruvidi sussurri
il
mare mugghia mareggiate di sogni
(visio).
Insomma
si toccano tutti i tasti dell’essere e dell’esistere; tutte
quelle motivazioni spirituali che fanno della vicenda umana una
storia polisemica e inquietante; gioiosa e melanconica; dolce e
amara; una fusione di contrapposizioni che sono il sale e il pepe
della poesia; quel polemos dei contrari di memoria eraclitea che la
rendono reale e vera. A dominare sul tutto gli affetti familiari:
Sei
nato finalmente
dalla
culla dell’amore
succhi
un nettare
di
cieli biondo di farfalle
di
lucciole incantate
sei
bello, mi ricordi la tua mamma
occhi
di cerbiatto
fusi
nelle fossette
i
bei sorrisi
a
pugni chiusi
ti
incammini
(teogonia).
Ma
detti con un tale trascinamento esistenziale che si rendono vicini al
sentire di ognuno di noi; oggettivamente universali nell’intento di
sottrarre la bellezza agli annichilenti artigli del tempo. Dacché
sotto il dettato lirico scorre un autoptico pensiero filosofico sul
quando e sul dove, su thanatos ed eros, sul fugit interea tempus:
di
Siloe e dall’ultimo scalino i bracieri illuminarono.
è
l’acqua e il fuoco in penombra fu la visione
le
mille strade che ti portarono al Tempio
lì
, nel caldo lume della tua poesia confluirono
la
morte e la vita
… (somnium Scipionis (a Renato Filippelli, post mortem)),
… alle
spalle di fronte
nemmeno
tanto velata
la
morte impaziente (Il
sogno: figlio della notte);
sul
patrimonio delle ricordanze:
Apprenderanno
i ricordi la strada del silenzio
nelle
sinfonie d’autunno gli usci
riaprono
al fascino antico del mite giallo
arancio
dei torrioni stropicciati anelli
collane
d’ambra dalle antiche botteghe
qui
sul monte Orlando ripeto a memoria
i
versi del Poeta… (enupnion),
sull’amor
vitae:
il
vento tace in braccio alle fluide
comete
passiamo sospesi viviamo
l’attesa
nel grembo canta la vita
limpida
sorgente il cuore
batte
l’attesa
vaporano
odori antichi
ed
io accarezzo la tenera gemma
verrà
, verrà anch’egli a nutrire
quest’anno
di gioie… (instrumentum
legendi)
(Formia
25 ottobre 2012, attendendo Giuseppedanielegabriele);
su
natura e naturismo, solitudini di meditazione, su luoghi cari, radici
di sempre:
madre
dei boschi e delle mille sorgenti della mia
anima-
madre- terra- irpina
nostalgie
in questo 21 marzo tanto
lontano
da quando nel giardino
di
mia madre si apriva tra la neve
e
il sole l’odoroso gelsomino
ricordo
ancora il muro
dove
mio padre lo pose
al
riparo dai venti, mi disse.
Quei
venti che per lui
non
furono mansuete carezze, né la purezza
dei
fiori seppe preservare noi altri raminghi
(Vitorchiano (VT), 2 1 marzo),
e
sul valore maieutico del poièin:
… è
l’acqua e il fuoco in penombra fu la visione
le
mille strade che ti portarono al Tempio
lì
, nel caldo lume della tua poesia confluirono
la
morte e la vita
(somnium Scipionis (a Renato Filippelli, post mortem)).
Sì,
la nostalgia di giorni passati e di antiche primavere dà un
contributo vivace a questa silloge. La Poetessa ama la vita, e dà
anima e corpo a questa avventura, alla sua divina venuta; grida col
canto l’attaccamento ai giorni e alle stagioni; ed è per questo
che intende fare del passato un presente da ri-vivere, magari,
rinfoltito di nuova passione. Personaggi e ambienti trascorsi sono
riportati alla luce con un pathos di forte emotività. Tanto che
l’ieri, l’oggi e il domani si embricano indissolubilmente per
dare forma al logos della poesia:
ci
attrasse la quercia che or sé spande morta
e
ripetemmo insieme i versi amati al singhiozzo
verde
dello strapiombo di cielo e mare
tra
i funghi colorati e allegri dell’autunno luminoso (Surge
et accipe…et fuge),
dove
la natura si fa collaboratrice assidua nella concretizzazione degli
stati d’animo; compagna fedele nelle espansioni sentimentali; e la
quercia, una volta viva ed ora morta, assume un significato analogico
con lo scorrere del tempo; con la fragranza di un giorno che ritorna
a vita nella memoria della Nostra. E, alla fine, quello che vince è
il grande amore per una realtà fatta di carne e di sogni, di sguardi
e di voli; per una realtà spiritualmente traslata in mondi di fede;
per una stagione di affetti che la Moscariello vorrebbe tenere con
sé, un domani, oltre il guado che demarca il giorno dalla notte; in
un afflato di contaminante spiritualità in cui:
… nelle
ginestre intrecciate d’ amore
ho
scorto Madonna il tuo fiato
ho
teso la mano, ho atteso il mio giorno di Pace.
Nazario
Pardini
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