Moscariello,
una scrittrice di cristallo
Poesia/profezia.
Un’assonanza non solo fonica ma mentale e dello spirito per un’interazione di voci,
contenuti, verosimiglianze che in Carmen Moscariello, intellettuale di origini
irpine (Montella) residente a Formia, diventano coordinate di vita. L’endiadi
si conferma antidoto ai vuoti e ai disorientamenti della nostra società,
ostaggio del globalismo, della liquidità e delle smanie diffuse.
A
porvi resistenza, lo invochiamo da più sponde, è l’azione della poesia che
conserva aura di mistero e svelamento. In tanto ci soccorre la lettura del
libro di Moscariello “Pizia non dà più oracoli. Poesie 2017 - 2020” (introduzione
di D. Maffia, postfazione di N. Pardini, illustrazioni di L. Brogi, Cangemi
editore, 2021, pp. 96). Chiaro il riferimento alla sacerdotessa di Apollo,
dedita al culto dell’oracolo di Delfi e alle sue predizioni.
La
scrittrice – emula dei “Capitani coraggiosi” di Kipling non disdegna testimonianze
di impegno e generosità – si muove da anni su diversi fronti culturali ed
artistici (già docente di italiano e latino; corrispondente de “Il Tempo” e “TG3
Lazio”; articolista di “Avvenire” e “Nord Sud”; autrice di importanti saggi su
F. Holderlin, A. Bertolucci, A. Rosselli, Scotellaro, Modigliani, nonché di testi di poesia e teatro; presidente
dell’associazione “Tulliola”), con il vanto di sodalizi autorevoli e l’amicizia
discreta di Amelia Rosselli, Vittorio Foa, Pietro Nenni, Aldo Masullo…
Moscariello
col suo libro ci consegna quattro partiture (“Pizia non dà più oracoli”; “L’altro
emisfero”; “Le lacrime delle donne”; “Prigionieri di un virus”) per una
sinfonia “acqua/vita” pur essa distillato di esperienza/fervore che ci converte
al salutare rigenerante brindisi di parole e versi. Insieme riescono a
combinare un fluido lirico/materico, un getto d’acqua sorgiva cristallina
dissetante, metafora di ogni sete dell’uomo contro ogni aridità e ristagno.
Moscariello/Pizia
incarna la donna del nostro tempo, pronta a sostenerne le sfide; personifica la
“poetessa fiammeggiante”, definizione cara al filosofo Masullo – forsanche
significativa dell’eroico furore bruniano, soffio di virtù creative. Novella “pitonessa”,
anzi ninfa del Terminio pratica il rosario dei versi e la liturgia della
militanza; immerge memorie e pulsioni - quasi a volerle purificare - non nella
fonte Castalia ma alle sorgenti del Calore o alla cascata della Lavandaia. La
sua poesia, che assomma energie umori precarietà trepidazioni, voci e
declinazioni di fraternità, diviene aspersione e balsamo; la scrittura cadenza
il ritmo e il gorgoglìo dei torrenti che precipitano fragorosi dalla montagna appenninica,
dove nidificano falchi e poiane, pari alla concitazione e alle rivalse di una
comunità che vede le sue ragioni disperdersi negli specchi d’acqua tra rimandi
di cerchi e increspature.
Poesia/daimon
insegue la bellezza e l’amore per attraversare le contaminazioni, il male, il
negativo, le ansie, la lotta senza fine, il viaggio che mira all’approdo, le
parole/cerniera di umanità, la tregua lunga di pace. Ecco quanto Moscariello
interiorizza e manifesta per consolidare sosta e ristoro nel consorzio degli
uomini (nel senso stretto dell’etimo consortium,
ovvero alla stessa sorte).
Fondale
è il nostro mondo “sconosciuto che però subito ci appartiene” – come chiosa in
prefazione Maffia - coi suoi fermenti e inquietudini; background è il nesso terra/acqua,
il rapporto primigenio di vita/linfa, deserto/oasi, natura/artificio. Tanti
elementi danno spessore e coralità all’opera che Moscariello chiama “La chanson
de l’eau”, che parte dalla terra, dal suo humus e s’innalza nell’“oceano del
cielo”.
Affinità
ed empatie traggono a memoria autori (Pessoa, Lorca, Ungaretti, Merini,
Rebora); trattano temi di vario aspetto - “abundantia cordis” annota Pardini;
trovano sintesi di letture e citazioni (Salmi e libri) e un pot-pourri di linee
guida che portano la scrittura a misurarsi con la storia (dagli esuli di
Ventotene alle acque di camorra) e l’esistenza. Entrambe, quest’ultime, diluite
nell’acqua/sangue, lacrime/linfa, bagni di umiltà, serbatoi/dispense, contro
ogni rassegnazione e secca. L’acqua diventa simbolo di ogni viaggio, ci
avvicina a paesi e continenti, alla specola del Mediterraneo, ai suoi migranti
(“figli dell’acqua e del deserto”) e ai dolorosi naufragi. Di qui,
l’interrogativo che macera: “Perché natura ci abbandoni?” La risposta è scontro
tra flusso perenne e controcorrente, mentre l’umanità, sepolta da macerie, spera
e invoca che “un granello di Dio cada nei cuori”.
Poesia/rabdomanzia
scopre vene di “acqua fresca per gente assetata” e compensa “odore di fame ai
giorni” “tra orme di lupi” e “neve leggera” che si scioglie in lacrime. E mentre
cerchiamo di interpretarne umori, rumori e silenzi, la promiscuità di api e
vespe, le parole sconnesse o maliziose, i subbugli, le animosità per mettere
ordine, ad assicurare rifugio e salvezza vi provvedono “l’anima”, “una goccia”,
“un filo di voce”. Un nuovo sacramento per altra fonte battesimale.
Poesia/mano/unghia
riesce a carezzare o ferire; ma sa anche uncinare, “artiglio della storia per
raccontare “il cuore trafitto / della mia sorgente del mio paese all’ombra /
dei castagni, del canto degli uccelli”. E di più, le sorgenti del Calore, del Sele
e dell’Ofanto, operose di comunità insorgenti, temprati marinai di terraferma.
Il libro, felice
sintesi di versi e verità, ci rende cittadini dell’universo umano e poetico.
Nessuna divinazione. Nessuna predizione o forse sì. Ci basta sapere come da
felice intuizione di Leopardi che la lettura di un pezzo di vera poesia “aggiunge
un filo alla tela brevissima della nostra vita” (Zibaldone). E Moscariello, vestale del focolare irpino, vi presta
oggi la sua voce, grazia e intonazione di canto.
Giuseppe Iuliano
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