venerdì 27 gennaio 2012

Essere Poeti alle soglie del Tremila - di Ninnj Di Stefano Busà

“Essere poeti è faticoso...”, diceva il grande poeta Dario Bellezza, e aggiungeva: “ vi è qualcosa di tremendamente masochistico nell’indossare le varie maschere...”

E’ vero, lo confermo appieno, perché fare poesia, autogestirla, pubblicarla, porla alla mercé della critica, o tenerla semplicemente in cassetto, sotto chiave, è esattamente la stessa cosa. Il poeta non rincorre il successo, più di quanto non lo incalzi il “fatto poetico” in sé, che è innato, si può definire - un vizio di forma -, oserei dire di “natura” una deformazione in nuce, perché risponde alla chiamata del genio o della scintilla ispirativi proprio in funzione di quel contagio d’anima che avviene tra poesia e inconscio, tra questi, due fattori metafisici interviene una massiccia dose di mistero, qualcosa che si può paragonare solo all’inferno, perché tale è il territorio visitato dal poeta, da lì, origina la voce che lo interroga, lo chiama, lo nutre, lo incanta e lo disillude. Egli risponde al proprio dèmon come alla madre che lo chiama.

Se mi posso permettere la comparazione, il poeta ama la poesia più di se stesso, lo esalta, lo consola, lo annoia, lo autodefinisce, lo ama, lo odia, proprio con le stesse caratteristiche di una madre amorevole o di una matrigna, a seconda delle circostanze.

Credo che poeti si nasca, per destino, e che, una volta avviati su quel sentiero aspro e forte, non se ne scorga più la luce nel fondo...

Una volta scoperto il velo di Maya che tiene la poesia raccolta in petto, il poeta ha davanti a sè la pagina bianca, tutta da scoprire, da decifrare, da decriptare. Ma la Poesia sfugge, è altro da sé, altro da qualsiasi forma di arte, tenta di non farsi imbrigliare, raggiungere, mentre il poeta la rincorre tutta la vita, senza raggiungerla,

Perciò si dice che la migliore poesia è quella che non è ancora stata scritta, perché il poeta lungi dall’afferrarla, ne viene invece come catapultato sull’altra sponda opposta e travolto da un’onda tzunamica in un mare tempestoso e beffardo che si prende cura di sbatterlo tra i frangenti e le rapide di un corso d’acqua in pieno delirio, in continuo subbuglio.

Vi è una grande maggioranza di poeti che fa poesia a freddo, a tavolino, manovrando in assoluta libertà, assemblando le parole come in un puzzle. Ma non parliamo di essi, questi non faranno mai poesia alta, grande, immortale, quelli che intendo io sono, poeti riservati, nascosti, misconosciuti, amano l’ombra, non le luci della ribalta; scrivono in silenzio, di notte, lottano coi loro demoni che li assillano, li inseguono, li tormentano, li fomentano....la felicità di questi poeti è darsi interamente alla Poesia, ascoltarne il suono, la melodia, amarla, esercitarla ogni giorno come una religione, una fede.
In conclusione, dunque è giusto quel che affermava Dario Bellezza. Indossare le svariate maschere è faticoso, si corre il rischio di essere spersonalizzati, mai riconoscibili. Eppure, tentati da un “genietto” che è l’assoluto arbitro della tua psiche, ti padroneggia e ti domina ti vincola tra le spire di un sogno inafferrabile, che ti fa suo schiavo di un piccolo genio perverso che ti suggerisce all’interno della personalità lirica la tracciabilità del tuo destino: “sarai da quel momento solo poeta....” ti sussurra all’orecchio, ed è per sempre.....

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