domenica 22 marzo 2020


Andrea Battistini
Presentazione di Il privilegio del vivere

Il privilegio del vivere non è soltanto il titolo della raccolta di poesie ma anche la filosofia di Michele Urrasio, che ha sempre considerato un dono inestimabile la possibilità di essere poeta e di essere nato ad Alberona, il borgo che più lo ha ispirato. In questo libro è racchiusa un’intera esistenza, in quanto riunisce i componimenti di cinquant’anni. Michele dunque festeggia oggi le nozze d’oro con la poesia, poco dopo avere celebrato quelle con la sua amatissima sposa. Anche quello con la poesia è un matrimonio indissolubile, contrassegnato da una fedeltà e da una devozione che non ha conosciuto crisi o dubbi. Ma celebrando la sua opera si celebra anche Alberona, perché il suo alto livello conferma e rafforza una tradizione molto radicata che fa di questo luogo un paese particolarmente predisposto alla poesia, lungo la nobile filiera dei D’Alterio, degli Strizzi, dei Caruso, dei quali Urrasio è degnissimo continuatore.
Di solito, quando si compendia l’opera omnia di un poeta, il diagramma che si disegna è quello di una parabola dagli inizi, quelli dell’apprendistato, ancora acerbi; il tracciato di Urrasio invece non conosce punti deboli, nemmeno nel momento dell’esordio, visto che già la prima raccolta, Fibra su fibra, mostra un poeta maturo, nato già formato come Minerva dalla testa di Giove, anche se non ancora trentenne. Se ne avvide subito uno dei suoi più autorevoli pigmalioni, Mario Sansone, che lo incoraggiò a continuare. In seguito non ha mai deluso, e anzi la sua progressione, anziché isterilirsi con l’età, è risultata sempre più feconda nel tempo, tanto che da ultimo la cadenza dei suoi parti poetici si è fatta annuale. Naturalmente, anche se il debutto è tutt’altro che ingenuo, si nota comunque un’evoluzione, testimoniata nel libro dall’antologia della critica che mette in luce la natura poetica di un canto costantemente sommesso ma profondo, assorto, intimo, meditativo, nel quale però gli orizzonti si allargano nel tempo, riflettendo sempre più spesso sui grandi temi della vita civile e politica.
Come si verifica in tutti i poeti autentici, gli accenti del singolo individuo si fanno voce collettiva di un’umanità e di una natura di cui i versi di Urrasio si fanno interpreti partecipi e solidali. Ecco perché il Sindaco e l’amministrazione comunale di Alberona si sono fatti promotori della pubblicazione del Privilegio del vivere, dimostrando una sensibilità davvero rara, se non addirittura unica, avendo compreso che questo pubblico riconoscimento va oltre la persona del poeta, dal momento che questi diventa il portavoce di una cerchia molto più ampia. Indirettamente il loro generoso sostegno a questo libro è un tributo anche a questo paese, non solo perché è oggi diventato la casa della poesia, grazie anche al Premio internazionale a esso intitolato, ma anche perché è la Musa della poesia di Urrasio, il luogo che ha ispirato i suoi versi. Per parafrasare Dante, anche Urrasio potrebbe dire «I’ mi son un che, quando / Alberona mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando». La presenza di questa terra, che nell’introduzione del libro è detta «aspra e forte», pervade ogni pagina del libro, a cominciare dalla copertina, dove la mano artistica di Giovanni Postiglione ne raffigura la solare luminosità, la vastità del cielo, l’incanto del paesaggio. Soprattutto il cardo selvatico che campeggia in primo piano può legittimamente assurgere a simbolo di Alberona perché ne compendia la natura e il carattere degli abitanti, per rappresentarne la forza, la tenacia, la resistenza, il coraggio, insieme con la bellezza, l’eleganza, la gentilezza.
Giovanni Postiglione e Michele Urrasio sono i due Dioscuri del Premio di poesia «Borgo di Alberona» ed è bello che l’uno abbia tradotto in immagini suggestive le voci dell’altro, conferendo al libro una dimensione corale, rappresentativa dell’indole dei loro paesani. Come il cardo che, non diversamente dalla ginestra leopardiana, «il fiore del deserto» dal «grave e taciturno aspetto», resiste con pazienza e coraggio alle intemperie, così, nella poesia La mia gente, questa appare costituita da «uomini piegati / dal tempo e dal lavoro / che sanno di terra», ma pur sempre «accesa d’un amore / lottato / duro / tormentato». Nella poesia di Urrasio non c’è traccia di ottimismo insulso e immotivato, ma consapevolezza del "male di vivere", affrontato però con animo risoluto, fermo, perseverante, «deciso», come si legge in Cammino solo: «Immenso deserto è il mondo. / Affondo deciso / nelle dune del dolore». Sono questi dei versi ancora giovanili, dove il poeta scruta soprattutto in se stesso, faccia a faccia con la solitudine, ma basta andare a una raccolta di trent’anni dopo, Il nodo caduto (1999), per rinvenire, con un gesto di umana solidarietà, l’apertura dall’io al noi:

Visita
il sole la nostra miseria
dal nodo caduto della porta.
Invano. Ognuno coltiva la propria
pena. Ma qui nessuno chiama
o impreca.

Il paesaggio poetico di Urrasio non è per niente idillico o consolatorio: c’è il deserto, ci sono le dune, c’è la terra arida, ossia la fatica e la pena del vivere. Cionondimeno le sofferenze sono accettate con animo virile, accolte e anzi sopportate di buon grado, compensate delle piccole gioie della vita quotidiana. Nei suoi versi serpeggia il dolore, ma non manca mai la consolazione, il peccato convive con la redenzione, la tristezza con la serenità, l’angoscia con la speranza, l’inquietudine con il sollievo, la morte con la rinascita, in un’incessante dialettica di sentimenti contrastanti, di situazioni opposte, come Il vento e la quiete, i cui confini sono continuamente attraversati. Il poeta si fa partecipe dei drammi umani, il suo animo condivide «la febbre di tante / vite che scuote l’insonnia / delle nostre notti», ma non bisogna aspettarsi proteste urlate e gesti inconsulti: la sua denuncia di poeta civile acquista forza proprio perché non è gridata e guadagna di intensità rastremando all’essenziale le parole, divenute «sillabe di silenzio», o, ancora, «perle» «tra valve / di silenzio». Semmai, per trovare un qualche conforto ai graffi e alle ferite inferti dalla vita, si invoca la presenza degli elementi naturali, chiamati a condividere le opere e i giorni degli uomini, «in questo tempo di poveri / che restano sempre più poveri». Nei versi di Urrasio ci sono tutti i componenti archetipici del creato: l’aria, l’acqua, la terra, il fuoco, che fanno della sua poesia una sorta di Cantico delle creature la cui contemplazione aiuta ad alleviare gli affanni dell’esistere.
A vegliare sugli uomini c’è il «fuoco estivo» del sole, che di sera diventa «rassegnato», c’è la dura terra dei «dorsi riarsi», ci sono «le acque» che «tracciano […] le pietre / millenarie», c’è l’«aria» in cui «vibra […] il visibile». Viene così a instaurarsi un’ideale solidarietà tra l’uomo e la natura, descritta in termini antropomorfi, come se, umanizzandosi, partecipasse della sua vita. Il paesaggio prende forme umane: le acque dei canali «singhiozzano», il sole è pervaso di «tristezza», il vento «passeggia» e «strappa al sasso / lunghi lamenti», le pietre hanno un «volto» e si fanno custodi del nostro passato, i cipressi condividono l’«angoscia», le foglie diventano «mani», i rami «braccia». E a sancire la simbiosi avviene anche il reciproco: i sentimenti e gli stati d’animo dell’uomo sono espressi ricorrendo al mondo naturale. Il titolo della raccolta dedicata alle Radici del sentimento esprime la volontà di discendere alle origini, alle fondamenta, alle ragioni più profonde dei moti interiori, della percezione affettiva della realtà, di un universo tessuto di emozioni, ma, nell’esprimere questa intima esigenza, compare anche un riferimento metaforico al mondo vegetale, a quell’organo delle piante che le sorregge e le alimenta, assorbendo dal terreno le sostanze vitali. Lo stesso avviene per Urrasio nei confronti di Alberona, una terra nella quale risiedono le radici della sua ispirazione. È una simbiosi felice e rara, che per una volta smentisce il detto secondo cui «nemo profeta in patria», come dimostra il volume con cui i suoi paesani lo hanno definitivamente consacrato loro poeta laureato.

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