Rielaborazioni sulla Poesia di Giuseppe Iuliano
Di Carmen Moscariello
Il Raggismo è logos
Giuseppe Iuliano è un
poeta che pubblica opere di estrema finezza e sensibilità da più di
quarant’anni. La sua Poesia ha trovato nel tempo importanti estimatori e; lì, nell’Irpinia
dove vive, è un faro. Il suo logos trova radici solide in quei monti aspri, un
tempo abitati dai lupi, in popolazioni alle quali la pazienza ha cucito una
corona di spine. Non penso che la sua poesia possa vivere senza questo sangue
acido che chi appartiene a questi luoghi deve “farsi” per mantenere intatti la forza , l’orgoglio,
la speranza. Questo “vento di fronda” non è cosa di poco conto: nella Poesia di
Peppino, spesso i versi si trasformano in coltelli ben molati per tagliare anche
le venuzze più profonde: E’ da tempo che
sono cecchino/di parole assassine. Insomma, chi si pone di fronte a questa
scrittura non può pensare di fare un excursus e voltare pagina, qui c’è la vita
e la morte, qui c’è il dolore, l’amarezza della speranza eternamente delusa.
Manca la gioia, essa è un privilegio che non appartiene al Poeta, saprebbe di
falsità, poiché chi scrive ha il cuore calloso che ha seppellito e disseppellito
molteplici asce: E’ ancora sibilo, serpente nascosto/che striscia nelle viscere e le
rivolta./Urlo di terra_spasimostrazio-/trascina nel vortice sotterra i presepi/ e ferisce i santi e le cento chiese.[1]Nonostante
il dolore c’ è la volontà del poeta di scuotere e ridare vita a chi
muore e a chi è infradiciato dal cancro dell’indifferenza, dove l’anima è un
antico ricordo e se si volesse incontrarla dovremmo prendere gli
antichi Vangeli o la grande
filosofia del mondo greco. Il padre, il figlio, il filosofo e lo stesso poeta
debbono essere ottimi nocchieri per non inabissarsi anch’essi. Così è per
Peppino Iuliano, egli è un ottimo scalatore di cime silenziose e nel contempo
attraversate nella loro pancia dal mugghiare
di onde magnetiche e demoniache , che,
ad ogni cadenza stabilita o no,
sono pronte a sventrare la vita
ancestrale di quei paesi- presepe che vivono di abbandoni e usurpazione. Questa
terra ardente dove Marte ha fatto il nido è il libro di lettura dal quale il
poeta attinge, né il suo essere credente nella potenza di Dio creatore attenua
o ammolla la sua visione logica del mondo. Ogni particella, ogni atomo di
pensiero trova sistemazione in un legame rigoroso e inattaccabile, essa è raggiera
dalla quale tutto si sprigiona per illuminare
il cuore di tutti quelli che si
avvicinano ai suoi versi: qui si verifica uno strano sortilegio, ci si sente quasi irradiati dal suo logos,
condotti in un mondo di coraggio e di protesta: Scavo nei lacerti/e mi
ritrovo con mani tremanti/ a disegnare croci/traiettorie di pietà/pratica
cristiana da imitare/per noi ciurmaglia/nella quiete del perdono/Ricordo
Mammella [2]le
tue litanie severe antiche/come la tua bocca sdendata/di latino acciso/voce
avara di bestemmie/prodiga di pazienza….. Anche lo sdegno mi avvampa./l’altra
voce, la mia/è fuoco di fila che si sfoga/e s’arrende nel rifugio dell’anima/in
un’arrangiata preghiera.. [3].
La parola irradia pietre e trova radici armoniche di chi con pazienza e amore
ha creduto e comunque ama la vita. Lo
sdegno per l’indifferenza dimostrata per questo mondo lontano e presente si aduna
nella sua poesia, essa non è mai banale speranza, piuttosto furia di pietre, saetta
di raggi ,che la disperazione e
l’impossibilità di poter cambiare il mondo e le cose, illuminano chi ancora
possiede un’anima e soffre dello stesso dolore. Direi che la poesia di Iuliano
è una lotta aspra contro il demonio che è qui determinato dalla miseria
economica, dall’obbligo ieri, come oggi, di abbandonare quelle terre e cercare
altrove la fortuna. Egli è forte come i castagneti della terra irpina, concreto
come tutti i quelli che si levano all’alba per il loro tozzo di pane, come essi è padre doloroso, messo lì dal buon
Dio a difesa di quelle popolazioni selvatiche, affinchè il canto dolce, scocchi come dardo ardente e penetri anche negli abissi scavati da quei movimenti selvatici , da quei
terremoti a cui la terra e la gente è sottomessa. Chi ha visto, mentre fuggiva
al riparo dei castagneti, congiungersi i tetti dagli opposti lati e perdere il
cielo in un unico urlo della madre e dei figli che cercavano scampo tra una
scossa e l’altra, non può che appartenere alle porte dell’Ade, che lì sono molteplici e si aprono e chiudono a
piacimento. Questo Poeta che Francesco
D’Episcopo chiama per onorarlo poeta Meridiano, dandogli uno scettro di comando
per la difesa di tutti i miseri e gli abbandonati del mondo, elogia questa
poesia che non è solo impeto, ma generosità d’amore. Il poeta senza trono , è
esperto di dolore e di lotte spesso mortali, pronto a caricarsi sulle spalle il
dolore del mondo: Amica ritorna la voce tra silenzio e pianto/ed apre le portedel cuore come tende
di Giacobbe./tra scarti di grano e sorsi di vino acido/è mio il dolore degli
uomini. E’ questo il destino,
infine, dell’autentico uomo-poeta:
non giocare con le sillabe, ma saettare
il fuoco vivo che non gli permette riposo. Egli è così, ,come a sito decreto[4], la
voce di tutti quelli che non hanno voce. Essa si leva alta: denunzia corruzione
e malaffare, evidenzia senza paura o timore i lai dei dannati: Invidio la mano felice/che anima strisce di
murales/manifesti color verde oro/affreschi impasto rosso sangue. Stendo
murales di parole e segni/e vi scorgo verbi senza bocca/Voci senza
volto./Costretto da un’inquieta fatica/ mi tocca prendere tutto alla lettera.[5]L’itinerarium
mentis in Deo è un tragitto
difficile, non privo di cadute, lì l’Irpinia devota si inerpica sui
santuari di dolore e le litanie salgono al cielo affinchè gli dei si plachino e
diano finalmente pace. L’uomo irpino ,in particolare i nostri padri temevano la
calma e i cieli stellati, certi che per essi non c’era pace, sapevano che la
natura si sarebbe improvvisamente e
furiosamente svegliata per portare
dolore e morte. Questa sera di novembre/ di nessun autunno qui da noi/malo
segno per vecchi savi/che leggono stranezze del tempo/con occhi di veggenza/Che
pace rubata al sogno/questo giorno di tanto sole/che ti sbraca torpido e ti
ubriaca/carne e sudore! Almeno un premio_-giusto atteso premio-/a questa terra
di venti scrosci e geli/che bruciano ossa e midollo/ e annate di
raccolti./Dolce sera non duri./ Sbotti in fragore e schianti/poi sprofondi./ Funesta
vertigine rovesci la terra/ e pazza e incosciente uccidi/Silenzio di un minuto
senza scampo/che pare eterno/che diventa eterno/che geme e urla ad altro
silenzio/Ballo tarantolato senza musica/Ballo di terra e canto di dolore/Monti
d’Irpinia, monte Calvario a più croci.[6]
(Articolo scritto da Carmen Moscariello, pubblicato da Nuovo meridionalismo, n.213, anno XXXIII, maggio-giugno 2018)
[2] Nel
gergo irpino significa nonna
[3]Rosso a
sera Segni e sdegni, pg 68,Delta3.
[4] Dante,
Paradiso, cantoI, verso 124.
[5] Op. cit,
Rosso sera, pag 66
[6] Verso la
cruna,Terrae motus Storia e Storie, pg.35Altrirpinia edizione.
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