mercoledì 1 agosto 2018


Rielaborazioni sulla  Poesia di Giuseppe Iuliano

Di Carmen Moscariello

Il  Raggismo è logos

Giuseppe Iuliano  è un poeta che pubblica opere di estrema finezza e sensibilità da più di quarant’anni. La sua Poesia ha trovato nel tempo importanti estimatori e; lì, nell’Irpinia dove vive, è un faro. Il suo logos trova radici solide in quei monti aspri, un tempo abitati dai lupi, in popolazioni alle quali la pazienza ha cucito una corona di spine. Non penso che la sua poesia possa vivere senza questo sangue acido che chi appartiene a questi luoghi deve “farsi”  per mantenere intatti la forza , l’orgoglio, la speranza. Questo “vento di fronda”  non è cosa di poco conto: nella Poesia di Peppino, spesso i versi si trasformano in coltelli ben molati per tagliare anche le venuzze più profonde: E’ da tempo che sono cecchino/di parole assassine. Insomma, chi si pone di fronte a questa scrittura non può pensare di fare un excursus e voltare pagina, qui c’è la vita e la morte, qui c’è il dolore, l’amarezza della speranza eternamente delusa. Manca la gioia, essa è un privilegio che non appartiene al Poeta, saprebbe di falsità, poiché chi scrive ha il cuore  calloso che ha seppellito e disseppellito molteplici  asce: E’ ancora sibilo, serpente nascosto/che striscia nelle viscere e le rivolta./Urlo di terra_spasimostrazio-/trascina nel vortice sotterra  i presepi/ e ferisce i santi e le cento chiese.[1]Nonostante il dolore c’ è la volontà  del poeta di scuotere e ridare vita a chi muore e a chi è infradiciato dal cancro dell’indifferenza, dove l’anima è un antico ricordo e se si volesse  incontrarla dovremmo  prendere gli   antichi Vangeli o la grande filosofia del mondo greco. Il padre, il figlio, il filosofo e lo stesso poeta debbono essere ottimi nocchieri per non inabissarsi anch’essi. Così è per Peppino Iuliano, egli è un ottimo scalatore di cime silenziose e nel contempo attraversate nella loro pancia dal mugghiare  di onde magnetiche e demoniache , che,  ad ogni cadenza stabilita o no,  sono  pronte a sventrare la vita ancestrale di quei paesi- presepe che vivono di abbandoni e usurpazione. Questa terra ardente dove Marte ha fatto il nido è il libro di lettura dal quale il poeta attinge, né il suo essere credente nella potenza di Dio creatore attenua o ammolla la sua visione logica del mondo. Ogni particella, ogni atomo di pensiero trova sistemazione in un legame  rigoroso e inattaccabile, essa è raggiera dalla  quale tutto si sprigiona per illuminare il  cuore di tutti quelli che si avvicinano ai suoi versi: qui si verifica uno strano sortilegio,  ci si sente quasi irradiati dal suo logos, condotti in un mondo di coraggio e di protesta: Scavo nei lacerti/e mi ritrovo con mani tremanti/ a disegnare croci/traiettorie di pietà/pratica cristiana da imitare/per noi ciurmaglia/nella quiete del perdono/Ricordo Mammella [2]le tue litanie severe antiche/come la tua bocca sdendata/di latino acciso/voce avara di bestemmie/prodiga di pazienza….. Anche lo sdegno mi avvampa./l’altra voce, la mia/è fuoco di fila che si sfoga/e s’arrende nel rifugio dell’anima/in un’arrangiata preghiera.. [3]. La parola irradia pietre e trova radici armoniche di chi con pazienza e amore ha creduto e  comunque ama la vita. Lo sdegno per l’indifferenza dimostrata per questo mondo lontano e presente   si aduna nella sua poesia, essa non è mai banale speranza, piuttosto furia di pietre, saetta di raggi ,che  la disperazione e l’impossibilità di poter cambiare il mondo e le cose, illuminano chi ancora possiede un’anima e soffre dello stesso dolore. Direi che la poesia di Iuliano è una lotta aspra contro il demonio che è qui determinato dalla miseria economica, dall’obbligo ieri, come oggi, di abbandonare quelle terre e cercare altrove la fortuna. Egli è forte come i castagneti della terra irpina, concreto come tutti i quelli che si levano all’alba per il loro tozzo di pane,  come essi è padre doloroso, messo lì dal buon Dio a difesa di quelle popolazioni selvatiche, affinchè  il canto dolce, scocchi come dardo ardente e  penetri anche negli abissi  scavati da quei movimenti selvatici , da quei terremoti a cui la terra e la gente è sottomessa. Chi ha visto, mentre fuggiva al riparo dei castagneti, congiungersi i tetti dagli opposti lati e perdere il cielo in un unico urlo della madre e dei figli che cercavano scampo tra una scossa e l’altra, non può che appartenere alle  porte dell’Ade, che  lì sono molteplici e si aprono e chiudono a piacimento.  Questo Poeta che Francesco D’Episcopo chiama per onorarlo poeta Meridiano, dandogli uno scettro di comando per la difesa di tutti i miseri e gli abbandonati del mondo, elogia questa poesia che non è solo impeto, ma generosità d’amore. Il poeta senza trono , è esperto di dolore e di lotte spesso mortali, pronto a caricarsi sulle spalle il dolore del mondo: Amica ritorna la voce tra silenzio e pianto/ed apre le portedel cuore come tende di Giacobbe./tra scarti di grano e sorsi di vino acido/è mio il dolore degli uomini.  E’ questo il destino, infine,  dell’autentico uomo-poeta: non  giocare con le sillabe, ma saettare il fuoco vivo che non gli permette riposo. Egli è così, ,come a sito decreto[4], la voce di tutti quelli che non hanno voce. Essa si leva alta: denunzia corruzione e malaffare, evidenzia senza paura o timore i lai dei dannati: Invidio la mano felice/che anima strisce di murales/manifesti color verde oro/affreschi impasto rosso sangue. Stendo murales di parole e segni/e vi scorgo verbi senza bocca/Voci senza volto./Costretto da un’inquieta fatica/ mi tocca prendere tutto alla lettera.[5]L’itinerarium mentis in Deo  è un tragitto difficile, non privo di cadute, lì l’Irpinia devota si inerpica sui santuari di dolore e le litanie salgono al cielo affinchè gli dei si plachino e diano finalmente pace. L’uomo irpino ,in particolare i nostri padri temevano la calma e i cieli stellati, certi che per essi non c’era pace, sapevano che la natura si  sarebbe improvvisamente e furiosamente svegliata  per portare dolore e morte. Questa sera di novembre/ di nessun autunno qui da noi/malo segno per vecchi savi/che leggono stranezze del tempo/con occhi di veggenza/Che pace rubata al sogno/questo giorno di tanto sole/che ti sbraca torpido e ti ubriaca/carne e sudore! Almeno un premio_-giusto atteso premio-/a questa terra di venti scrosci e geli/che bruciano ossa e midollo/ e annate di raccolti./Dolce sera non duri./ Sbotti in fragore e schianti/poi sprofondi./ Funesta vertigine rovesci la terra/ e pazza e incosciente uccidi/Silenzio di un minuto senza scampo/che pare eterno/che diventa eterno/che geme e urla ad altro silenzio/Ballo tarantolato senza musica/Ballo di terra e canto di dolore/Monti d’Irpinia, monte Calvario a più croci.[6]

 (Articolo scritto da Carmen Moscariello, pubblicato da Nuovo meridionalismo, n.213, anno XXXIII, maggio-giugno 2018)






[2] Nel gergo irpino significa nonna
[3]Rosso a sera  Segni e sdegni, pg 68,Delta3.
[4] Dante, Paradiso, cantoI, verso 124.
[5] Op. cit, Rosso sera,  pag 66
[6] Verso la cruna,Terrae motus Storia e Storie, pg.35Altrirpinia edizione.

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