Relatori: Annella Prisco e Ugo Piscopo
Con la partecipazione dell’attore Franco Silvestro
Relazione di Ugo Piscopo
Diario di una peregrinazione
In quest’ultima silloge di Carmen, sostanzialmente viene proposto e sottolineato il profilo di uno stile e soprattutto di una particolare e inconfondibile relazione col mondo. E’ una poesia innanzitutto da leggere e godere in presa diretta, questa dell’amica c., che narra, che rappresenta, che ammonisce, che invita alla meditazione e, naturalmente, in quanto poesia, è da cogliere nella inflessione verbale, nella scansione degli accenti, nei rinvii metaforici, nei traslati, nelle allegorie, cioè nei ricorsi a quelle figure che dicono simultaneamente se stesse e altro ancora. Entro, però, questi reticoli retorico-stilistici, semantici, iconologici, in controluce si lascia sospettare o meglio intravedere , insieme con una cogenza morale e comunicativa, una cifra unitaria sintagmaticamenete consistente che io ho cercato già di mettere in luce nella nota prefativa del volumetto. Lì ho citato come archetipo, quale fondamentale modello di riferimento, ”Il libro”, ovvero Il libro per eccellenza, La Bibbia (“ta Biblìa”, plurale di “biblìon”).
Sappiamo che La Bibbia, nella cultura universale, ma innanzitutto occidentale, come dice Erich Auerbach, un grande studioso tedesco, maestro di filologia romanza, ha costituito la fonte di nutrimento per il realismo nel corso della storia, a cominciare dall’ inizio dell’era volgare e del Cristianesimo (Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, 2 voll.). D’impulso biblico, c’ è stata come una svolta sostanziale rispetto alla cultura e alla sensibilità greco-romane. Mentre precedentemente in Occidente, lo sguardo si appuntava su dimensioni e parametri di perfezione ideale, cioè su un universo parallelo costituito sull’attesa o sul rimpianto di un ordine che avrebbe potuto instaurarsi nel mondo, la Bibbia ci ha indirizzato a entrare su altri sentieri che ci hanno portato lontano, innanzitutto verso il segno della concretezza della storia, “dell’esserci”, verso il riconoscimento autentico di questa nostra condizione, appropriandocene e riconoscendoci pienamente in essa.
Se si dovesse fare ricorso a una sintesi rapida e brutale, si potrebbe dire che nel cuore della Bibbia palpita un messaggio indirizzato ora e sempre a tutta la comunità umana: che essa è venuta dalle mani di Dio, ma ha perduto Dio per propria colpa e presunzione, pertanto, per riavvicinarsi a Lui e riconquistarLo, essa deve riscattarsi in azione, in preghiera, in attesa, in accettazione della Sua volontà.
Già nel titolo della silloge di Carmen, non è tempo per il Messia, è data a chi legge la chiave per entrare nel segreto di questo dirsi, per dire agli altri, non a questo o a quello, ma a tutti quelli che vivono e soffrono oggi nel mondo. In esso, si ribadisce che c’è ancora da attendere, tanto ancora da operare e soffrire per riscattarsi, ma che c’è anche una grande possibilità di speranza. Il Messia, però, si accampa sullo sfondo del tutto e, pertanto, non può non essere atteso! Intanto, però, non si può non prendere atto che il nostro è un tempo di lontananza , di lacerazioni, di sprechi e contraddizioni.
Entriamo adesso nel libro. Io leggerei le composizioni di esso, ma, complessivamente, la poesia di Carmen, anche quella che precede questa silloge, come un dipanarsi in andate e ritorni, un allontanarsi e riavvicinarsi, anzi un allontanarsi per riavvicinarsi (a sé, al reale, agli altri tutti), sul filo di una tessitura (“texture”, come dicono i francesi) di meditazioni, di appunti, di interrogazioni, di glosse al margine, che riguardano questa condizione di distanza e di lontananza (non irrecuperabili, ma tormentose). Sono, queste e le altre che appartengono ad altre raccolte, tutte poesie della lontananza, poesie cioè che partono da un vicino avvolgente e anche meraviglioso, ma comunque, conturbante , partono da un di qua per allungare e affacciare, quasi ogni volta, puntualmente, lo sguardo verso un “altrove” che ci sfugge , ma che intanto ci richiama, toccandoci nell’intimo.
Per intenderci su queste interminabili peregrinazioni, un punto di riferimento potrebbe essere Martin Heidegger, un filosofo tedesco, uno dei maestri dell’ermeneutica moderna. Egli è partito da Husserl, per allontanarsene progressivamente, come è fisiologico nei rapporti formativi, e ha avviato la costruzione di un suo sistema, che fu subito adoperato politicamente e strumentalmente dal nazismo nel corso degli anni Trenta del secolo scorso. Successivamente, però, ha dato uno sviluppo più umano, si potrebbe dire con un’espressione di Nietzsche, cioè più sofferto alla sua speculazione. Ed è a questa fase che qui si guarda. Si fa riferimento in particolare a un suo saggio del dopoguerra, degli anni Cinquanta, incluso in I sentieri interrotti nel bosco (Holzwege), uno scritto influenzato oggettivamente dal trauma della guerra, dal capovolgimento di ogni precedente prospettiva assolutizzante e unidirezionale, dalla sofferenza personale, (l’autore è stato molti anni in trattamento di psicoterapia). Ovviamente, questi fattori non hanno potuto non avere rispecchiamento nella scrittura e nella meditazione.
In questo testo, Heidegger si sofferma su un nodo molto intrigato e avvolgente, che interessa da vicino l’aspetto che stiamo mettendo in luce, riguardo alla poesia di Carmen, costituita sulla cifra della “peregrinatio”. Egli osserva che, nell’essenziale, noi viventi siamo costantemente e intensamente impegnati in una ricerca non si sa di che, ma puntualmente questi sentieri, su cui ci mettiamo, si interrompono e ci fanno trovare di fronte a una boscaglia che non concede passaggi e minaccia di farci smarrire. Così, siamo indotti istintivamente, per salvare noi insieme con gli sforzi sostenuti, a tornare indietro, e riprovarci ancora. Nonostante le difficoltà e le sconfitte, dobbiamo non rinunziare all’impegno di pervenire all’“altrove”, di contattare questo qualcosa che ci chiama. Intanto, accade che quotidianamente noi passiamo dinanzi allo stesso punto, dinanzi a cui siamo passati prima e per dove siamo passati un’infinità di volte, anzi quotidianamente, per tutta la vita precedente. In tale maniera, procediamo per ripetizioni senza che ce ne accorgiamo, ma siamo pronti a riprendere sempre daccapo, sempre esplorando, interrogando su come e che cosa si possa fare per dare svolgimento a quello che ci spinge. In tali avvolgimenti, finiamo per tornare sempre lì dove ci attende un messaggio, che noi non riusciamo a riconoscere. Mentre abbiamo in mente di procedere oltre, verso quello che ci figuriamo come immancabilmente un “altrove”, in sostanza sperimentiamo inconsapevolmente che esso si posiziona nel cerchio del “Medesimo”.
Analogamente, nella silloge e nella poesia complessiva di Carmen, si attiva sempre nuova e si conferma a sé stessa questa stessa fedeltà dell’anima, la fedeltà del sentimento, la fedeltà del suo essere donna, poeta, impegnata sul terreno della cultura e della socialità, che ogni giorno fa i conti con questo “Medesimo”. Il quale, in quanto è misterioso, sfugge alla nostra contrattazione, ma nello stesso tempo ci chiama, ci attira, ci richiama, ci interroga, ci manipola, ci fa lievitare.
Questa è la impaginazione sostanziale della pratica quotidiana su cui si esercita la scrittura di c., alimentata da questa fedeltà, questo tornare puntualmente a interrogare, ad ascoltare la stessa voce, senza poterla afferrare materialmente. Di qua, lo sfogliare ansioso del libro, che è lo sfogliare dei suoi giorni. Si anima, in tal modo, un diario, che è il diario della peregrinazione, in una interrogazione quotidiana dell’io, in una inquisizione strenua dell’autrice su se stessa, sull’ambiente, sui sentimenti.
Così, in Carmen si trasfonde e si innerva il senso del Libro per eccellenza , La Bibbia, intesa come struttura essenziale dei valori culturali di ora e di sempre, di tutti i tempi compresi e comprensibili in un tempo che li abbraccia tutti. E’ il libro del possibile di quello che accade, di quello che può accadere ed è già come definitivamente formalizzato.
Nel dire ciò, il pensiero va a un grande filosofo, Leibniz, il quale in un testo che rinnova del tutto la cultura biblica, La teodicea, fondativo di una nuova branca della teologia, affronta una questione delicatissima e centrale per la teologia, quella della presenza del male nel mondo e nella storia. Egli, in sostanza si confronta e induce gli altri a confrontarsi con un nodo, che fa tremare le vene e i polsi, quello della compatibilità e della coesistenza degli opposti.
In quel libro, si parla di un personaggio, Teodoro, che era un cultore della religione pagana e aveva acquistato grandi meriti presso Zeus , tanto che il sommo dio volle concedergli il privilegio di ammetterlo nella città celeste e di fargli visitare, sotto la guida della dea della sapienza Pallade Atena, il Palazzo dei Destini. Qui Teodoro poté vedere cose meravigliose, ma la più meravigliosa fu questa: un libro dove c’era scritto tutto il possibile del mondo. A un certo punto l’uomo chiese alla dea se potesse finalmente conoscere dei dettagli della vita di un personaggio, che intrigava il suo immaginario e di cui sapeva già parzialmente molte cose. La dea, allora, lo invitò a cercare nel Libro il nome appunto di quel personaggio. Teodoro lo trovò e lesse avidamente tutto, dopo aver strofinato con un dito su quel nome, come oggi si fa sul quadrante di un tablet. Inebriato di potersi appropriare di quelle informazioni segrete e remote, espresse ad Atena l’idea se si potesse concedere agli uomini quella facoltà. Ma la dea fece intendere a Teodoro che lui e i suoi simili non possono che muoversi entro i loro limiti e i loro rischi. Teodoro allora prese la via del ritorno alla condizione naturale, fatta di lacci e lacciuoli, di alti e di bassi, di timori e tremori, come dice Kierkegaard.
E di peregrinazioni attorno al Medesimo, come fosse il Diverso. Secondo quanto ci rappresenta vivamente e appassionatamente Carmen nella sua opera poetica.
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