mercoledì 14 febbraio 2018

N. PARDINI LEGGE: "IPOTETICO APPRODO" DI CLAUDIA PICCINNO


N. PARDINI LEGGE: "IPOTETICO APPRODO" DI CLAUDIA PICCINNO


Claudia Piccinno. Ipotetico approdo. Mediagraf Edizioni. Noventa Padovana (PD). 2017







Claudia Piccinno si presenta alla scena letteraria con questa  nuova silloge editata per i caratteri di Mediagraf Edizioni nel mese di ottobre dell’anno 2017. Una silloge intensa, vissuta con urgente emozione, dove la vita, con tutti i suoi risvolti, fa da interprete nel percorso vario e articolato di un poema che tocca le magagne e le incongruenze dell’esser-ci: profughi di guerre, emigrati, malati e indifesi, residui di petrolio, guerra, pace, Provvidenza, fede, serenità, tunnel senza sbocchi, cuori rattoppati, amore, solitudine, silenzi sconfinati:



Ho sillabato silenzi sconfinati

nell’azzurro dei tuoi occhi

e ogni parola era un di più

in tanta magia…,



ma soprattutto un  viaggio, un nostos alla ricerca di un’isola che appaghi le irrequietezze del vivere, che ci svincoli dalle ristrettezze della terrenità:



Marmo di lucide fattezze

negava indomite bellezze,

geometrico pensiero

circoscriveva i sogni

in un unico sentiero.

Angusto diventava

quel villaggio

per chi osasse intraprendere

altro viaggio.



Un libro arricchito e reso più ancora prezioso dalle traduzioni a fronte in inglese. Le rime a fine verso e le assonanze danno un senso di piacevole eufonicità alla lettura, che, sostanziata da metaforici simbolismi di esperita connotazione verbale, si distende con plurale e proteiforme simbolismo.

Si inizia dalla poesia eponima Ipotetico approdo con il sottotitolo indicativo pensando al Titanic.



(…)

Jack e Rose non si ritroveranno

nel quotidiano incedere

di pianeti distanti,

ma le loro anime pellegrine

si riconoscono in un ipotetico approdo

al margine di lustrini e vetrine,

sconosciuto ai naufraghi

e a tutti i naviganti.



Naufraghi, naviganti, mare, orizzonti, fari, porti, voglia di andare… tanti termini che ci avvicinano agli intenti di ossimorico abbrivo insediati in un linguismo di euritmica sonorità. Si sa che è umano, fortemente umano il desiderio del viaggio nell’uomo: un viaggio senza posa, senza tregua alla ricerca di un porto difficilmente raggiungibile. Ipotetico approdo, appunto. Forse perché ognuno di noi ha bisogno di staccare, di rompere con la routine quotidiana, con le aporie del contingente. Ma anche perché la Piccinno vede lontano il traguardo della pace e della serenità in un mondo votato all’ingiustizia e alla guerra.  E tante sono le inquietudini che tormentano il nostro soggiorno terreno. E’ là, in un’isola lontana, che la navigazione è diretta, anche senza volere, per natura; ma quanto periglioso il cammino di tale navigazione! Si incontrano trabucchi, tempeste, bonacce, burrasche, e il nostro andare rischia spesso di cozzare in scogli appuntiti e devastanti. Anche se pronti per continuare con i resti del naufragio, anche se con l’occhio e il cuore fissi all’orizzonte, anche se disposti all’azzardo, il nostro cammino si invischia in dubbi e incertezze che ne ritardano l’approdo; una ricerca di luce, di spazi, di aperture verso un faro che illumini una minima parte di un mare senza confini; di un oceano dove è facile smarrire le nostre misure. Quale metafora più appropriata alla vita di quella di una luce spersa nella vastità del mare. Sì, noi continueremo a navigare verso questo ipotetico approdo; impavidi volgeremo lo sguardo  a traguardi difficilmente raggiungibili, ma quello che conta è avere in noi la voglia di andare, di proseguire, di non rinunciare al viaggio. D’altronde essere incerti, essere dubbiosi di fronte al tutto è cosa naturale; ma è già tanto impiegare le forze, tutto il nostro ardire nella ricerca di noi; di quella parte che ci è sconosciuta. Il linguaggio mette  bene in evidenza il supporto iperbolico allusivo che tanto gioca nella significanza dei temi trattati. Una  verbalità che si fa corpo, volume, contenitore di un’anima vòlta  a tramutarsi in una poesia di intrusioni sociali, umane, esistenziali. Tutto scorre su un piano dialettico di ampio respiro. I versi si ampliano, si scorciano,  si allungano, si fanno ora narrativi ora secchi, brevi, per seguire i diversi momenti dell’ispirazione. E quello che  emerge, alla fine, è uno spartito che abbraccia con la sua sinfonicità il bene e il male della vita, ma soprattutto l’inquietudine di sentirci atomi spersi fra cielo e terra: sì, umani con i piedi piantati al suolo e l’anima vòlta ad un azzurro troppo lontano:



(...)

E siamo qui

nel cono d’ombra

delle mie paure,

nella scia luminosa

di una nuova aurora…

ad aspettare

che si esprima il giorno.



Nazario Pardini


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