N. PARDINI LEGGE: "IPOTETICO APPRODO" DI CLAUDIA PICCINNO
Claudia Piccinno. Ipotetico
approdo. Mediagraf Edizioni. Noventa Padovana (PD). 2017
Claudia
Piccinno si presenta alla scena letteraria con questa nuova silloge
editata per i caratteri di Mediagraf Edizioni nel mese di ottobre dell’anno
2017. Una silloge intensa, vissuta con urgente emozione, dove la vita, con
tutti i suoi risvolti, fa da interprete nel percorso vario e articolato di un
poema che tocca le magagne e le incongruenze dell’esser-ci: profughi di guerre,
emigrati, malati e indifesi, residui di petrolio, guerra, pace, Provvidenza,
fede, serenità, tunnel senza sbocchi, cuori rattoppati, amore, solitudine,
silenzi sconfinati:
Ho
sillabato silenzi sconfinati
nell’azzurro
dei tuoi occhi
e
ogni parola era un di più
in
tanta magia…,
ma
soprattutto un viaggio, un nostos alla ricerca di un’isola che appaghi le
irrequietezze del vivere, che ci svincoli dalle ristrettezze della terrenità:
Marmo
di lucide fattezze
negava
indomite bellezze,
geometrico
pensiero
circoscriveva
i sogni
in
un unico sentiero.
Angusto
diventava
quel
villaggio
per
chi osasse intraprendere
altro
viaggio.
Un
libro arricchito e reso più ancora prezioso dalle traduzioni a fronte in
inglese. Le rime a fine verso e le assonanze danno un senso di piacevole
eufonicità alla lettura, che, sostanziata da metaforici simbolismi di esperita
connotazione verbale, si distende con plurale e proteiforme simbolismo.
Si inizia dalla poesia eponima Ipotetico
approdo con il sottotitolo indicativo pensando al Titanic.
(…)
Jack
e Rose non si ritroveranno
nel
quotidiano incedere
di
pianeti distanti,
ma
le loro anime pellegrine
si
riconoscono in un ipotetico approdo
al
margine di lustrini e vetrine,
sconosciuto
ai naufraghi
e
a tutti i naviganti.
Naufraghi,
naviganti, mare, orizzonti, fari, porti, voglia di andare… tanti termini che ci
avvicinano agli intenti di ossimorico abbrivo insediati in un linguismo di
euritmica sonorità. Si sa che è umano, fortemente umano il desiderio del
viaggio nell’uomo: un viaggio senza posa, senza tregua alla ricerca di un porto
difficilmente raggiungibile. Ipotetico approdo, appunto. Forse perché
ognuno di noi ha bisogno di staccare, di rompere con la routine quotidiana, con
le aporie del contingente. Ma anche perché la Piccinno vede lontano il
traguardo della pace e della serenità in un mondo votato all’ingiustizia e alla
guerra. E tante sono le inquietudini che tormentano il nostro soggiorno
terreno. E’ là, in un’isola lontana, che la navigazione è diretta, anche senza
volere, per natura; ma quanto periglioso il cammino di tale navigazione! Si
incontrano trabucchi, tempeste, bonacce, burrasche, e il nostro andare rischia
spesso di cozzare in scogli appuntiti e devastanti. Anche se pronti per
continuare con i resti del naufragio, anche se con l’occhio e il cuore fissi
all’orizzonte, anche se disposti all’azzardo, il nostro cammino si invischia in
dubbi e incertezze che ne ritardano l’approdo; una ricerca di luce, di spazi,
di aperture verso un faro che illumini una minima parte di un mare senza
confini; di un oceano dove è facile smarrire le nostre misure. Quale metafora
più appropriata alla vita di quella di una luce spersa nella vastità del mare.
Sì, noi continueremo a navigare verso questo ipotetico approdo; impavidi
volgeremo lo sguardo a traguardi difficilmente raggiungibili, ma quello
che conta è avere in noi la voglia di andare, di proseguire, di non rinunciare
al viaggio. D’altronde essere incerti, essere dubbiosi di fronte al tutto è
cosa naturale; ma è già tanto impiegare le forze, tutto il nostro ardire nella
ricerca di noi; di quella parte che ci è sconosciuta. Il linguaggio mette
bene in evidenza il supporto iperbolico allusivo che tanto gioca nella
significanza dei temi trattati. Una verbalità che si fa corpo, volume,
contenitore di un’anima vòlta a tramutarsi in una poesia di intrusioni
sociali, umane, esistenziali. Tutto scorre su un piano dialettico di ampio
respiro. I versi si ampliano, si scorciano, si allungano, si fanno ora
narrativi ora secchi, brevi, per seguire i diversi momenti dell’ispirazione. E
quello che emerge, alla fine, è uno spartito che abbraccia con la sua
sinfonicità il bene e il male della vita, ma soprattutto l’inquietudine di
sentirci atomi spersi fra cielo e terra: sì, umani con i piedi piantati al
suolo e l’anima vòlta ad un azzurro troppo lontano:
(...)
E
siamo qui
nel
cono d’ombra
delle
mie paure,
nella
scia luminosa
di
una nuova aurora…
ad
aspettare
che
si esprima il giorno.
Nazario Pardini
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