lunedì 12 febbraio 2018






Michele Prisco “Figli difficili” Walter Pellegrini  Editore.



Sfere d’ossidiana memoria Di Carmen Moscariello Articolo pubblicato da "Il Convivio", n 71, pg 4, ottobre dicembre 2017.

Vorremmo  attuare, nell’interpretazione dell’opera di Michele Prisco “Figli Difficili” , l’insegnamento di    Luigi Pareyson nell’”Estetica Teoria della formatività  e,  quella dell’emerito italianista Emerico Giachery, quest’ultimo facendo espresso riferimento a  Payson  nel capitolo de “la Lettura, interpretazione critica “,ci insegna a  “eseguire”  un testo per   conferirgli vita attuale e presenza , ciò si ottiene sia col farne emergere l’anima riposta e” il senso” inteso come sintesi di significato e significante, sia col promuovere “l’epifania vocale”, nell’interpretazione a voce alta.[1]  La vita anche potenziale del testo, il suo porsi, il suo “esserci”, la sua ricchezza di sensi e di senso è centro e motore, alfa e omega di ogni analisi letteraria. [2]Partendo da questo imput abbiamo percorso una strada intima, evitando  secche e frustranti analisi tecniche. Ebbene, ci avviciniamo allo studio di “Figli difficili” con ancora più amore e dedizione, poiché abbiamo avuto il piacere, seppur marginalmente, di conoscere di persona Michele Prisco che spesso era nostro ospite a Formia e a Gaeta;  il ricordo vivissimo che serbiamo, oltre, naturalmente quello di raffinato scrittore,  è  di un gran signore, un nobiluomo rispettoso e amabile con  tutti. Prima del nostro esprimerci vogliamo anche attingere dai testi dedicati a Prisco da  un grande poeta, quale è stato Renato Filippelli, amico del nostro,  egli lo ebbe più volte ospite a casa sua; questi fatti ce li ricorda anche un bel testo “Appartenere alle parole” di Simone Gambacorta[3], che presenta una serie di interviste fatte a nomi importanti del panorama letterario italiano sull’opera di Prisco; il libro è uscito  quest’anno ed è stato  presentato da Francesco D’Episcopo nella Saletta Guida alla presenza di illustre personalità. Filippelli ebbe molta stima dei  due grandi romanzieri napoletani, di  Rea e di  Prisco,  aveva grandi foto nel suo studio. Di Michele Prisco scrive nella splendida Enciclopedia Letteraria che ci ha lasciato[4]: “Nato nel 1920 a Torre Annunziata (Napoli) e morto nel 2003. Egli esordì in pieno Neorealismo, con una raccolta di racconti ambientati nell’entroterra vesuviano. La provincia addormentata (1949) . Il suo intento era la denuncia sociologica, secondo i canoni veristici; ma i risultati portarono allo scoperto , un temperamento di narratore che attuava l’istintiva ricerca del vero, non tanto nell’analisi ideologica delle strutture sociali, quanto nello studio sottile delle atmosfere psicologiche e nelle ricostruzioni Della vita interiore  dei personaggi, specialmente femminili. Pagato , con “Gli eredi del vento” l’ultimo scotto al Neorealismo, Prisco assecondò la sua autentica vocazione all’inchiesta meticolosa sui drammi interiori nel romanzo “fIgli difficili”(1954)dove narrò di una famiglia borghese i cui membri soffrono il contrasto fra l’urgenza delle loro passioni e l’obbligo di conformarsi al gretto convenzionalismo dell’ambiente . La capacità di tradurre in un linguaggio narrativo moderno , assai ricco di sfumature e risonanze poetiche , la lezione del romanzo psicologico ottocentesco, ha consentito a Prisco la realizzazione di prove narrative che sono tra le più interessanti del secondo Novecento…

Noi continuiamo dicendo che si può entrare nel romanzo” Figli difficili” e rimanerci per mesi. Leggerlo, significa  inseguire i mille cunicoli del labirinto della vita, e, poi, riprenderne la lettura  per  perdersi nei percorsi nostalgici dei ricordi che non hanno per i personaggi del libro alcun effetto di catarsi, anzi ricordare, molto spesso, significherà, non altro, che mettere a nudo e rinfacciare le proprie e le altrui miserie. Il lungo romanzo (più di 400 pagine) si popola di personaggi delusi, amareggiati, sconfitti in partenza, poiché nulla fecero affinché i rivoli secchi delle loro esistenze potessero attingere a qualche sorgente, nessun affluente corre parallelo ad essi, attorno è il deserto dell’Essere: è un  non chiedere e un  non avere! Compaiono  aspetti che, purtroppo,  sono propri di certi esseri umani, l’arroganza di Giuditta, per esempio,  che non si è mai posta il problema di cosa fosse davvero necessario per la felicità dei figli. Questo rigido personaggio si erge sugli altri per il suo materialismo, per l’assenza di ogni ideale, quel che si può immaginare di una donna “pratica”, ma anche priva  di un qualsivoglia sentimento, Il suo cuore batte solo a difesa di un’ immagine patinata esterna, quella da mostrare agli occhi della Provincia. Questa figura materna tratteggiata meticolosamente dal Grande Scrittore è la meno poetica della nostra letteratura, la più parsimoniosa di gesti e di parole per i figli, ma anche per il marito che Prisco fa comparire come un’ ombra, già morto ormai, ma che in vita fu, come se fosse morto. E’ questo un romanzo, in certo modo, crepuscolare, di un certo verismo decadente che si regge su uno stato d’animo terribile  che impera sui personaggi: la delusione, la vita che prende altre strade da quelle che sono le attese e le speranze dei personaggi, con le sue  aspettative negate, che  lasciano al lettore  una tristezza senza lacrime, ma, anche, senza alcuna pietà  (la pietas virgiliana è solo dell’autore)per nessuno dei personaggi del libro.   In parte si colloca quest’opera   nell’ Italia del Novecento, non estraneo al racconto, dove sono narrate  forme di vita dimesse, provinciali, borghesi, sono i sentimenti di malinconia, o ,di amore, di tristezza, di gioia, mai troppo intensi o sofferti in modo acceso, ma sempre distaccati e sentiti attraverso il velo del ricordo nostalgico, della melanconia ironica o del giuoco letterari o , anche quando sono  più dolorosi, sono  espressi in una forma , che viene adottata quasi a voler coprire ,  un abito, anche esso dimesso  e usuale, stati d’animo comuni del vivere quotidiano in un salotto borghese.[5]  Il salotto di Prisco è depositario di mestizia, qui  gli ospiti e gli abitanti della casa sfilano i loro ricordi e le loro amarezze che hanno preso dimora stabile nei luoghi e nei cuori delle persone. A quest’opera  la critica ha rimproverato la troppa lunghezza, il rimestare con insistenza in certe malinconie, ma come giustamente asserisce Salvatore Francesco Romano sugli scrittori crepuscolari, l’insistenza fa parte del gioco della parola e della capacità straordinaria di Prisco di saper  intrattenere il lettore oltre ogni misura, coinvolgendolo e immergendolo in quelle vite amare, in quei percorsi enigmatici che non trovano svelamenti certi neanche alla fine del romanzo. Mario Fubini ci insegna   che nella critica “tanti e tutti parimenti legittimi sono i punti di vista”.

 Così la strada tracciata dall’opportunismo e dalle opportunità mancate è travolta dal fango, da un’irrisione truculenta del male che è il solo a incidere segni eterni . Sono le ferite sulla carne gli unici atti eroici che i personaggi possono vantare. Poi, un soffuso eros, sempre schermato dalla finzioni, affinché gli altri non possano sparlare e intromettersi in situazioni davvero larvali. A nostro avviso la lunga scrittura determina, al fine, il  fascino di questo capolavoro che noi interpretiamo come un’orbita misteriosa della vita, un gomitolo grigio, a volte, dolorosamente  sfilacciato , un procedere nelle dimesse vite dei personaggi, naufraghi senza apparente tempesta. Qui, il destino lo si può guardare solo dal di fuori , è una sfera intricata e intrigante di umori, stanchezze, infelicità, dove,  il percorso è segnato da  una noluntas  lacerante. Un portarsi dietro il sacco della vita, apparentemente senza sforzo, ma invece pesa di sofferenze e l’affanno è un respiro impercepibile, le labbra semichiuse raccontano di singhiozzi strozzati nella gola, il fil di voce si rompe, diviene impercepibile; il dolore, le assenze sono statue con orbite levigate, enormi che ci fissano da ogni lato , pietrificano l’osservatore. Un universo piccolo, piccolo di borghesucci, nelle loro vite con piccoli orizzonti, quello che impressiona è l’assenza di ricerca del bene e dell’amore. E’ un romanzo che  ti lascia con la bocca secca al pari dell’Etre et  le Néant  (1943)di Sartre .Questa pietra carnivora che è la vita  e che qui ci appare, invece, come una pietra dura attraversata da mille vene è una  vita solo falsamente apparentata a un vetro vulcanico, ma che invece sembra possedere solo  l’ardore di una lava. Prisco fa vivere i suoi personaggi sotto il Vesuvio, lo si intravvede, “lo Sterminator Vesevo”  mentre descrive il corso della cittadina in cui i personaggi del libro amano passeggiare e in cui molti  fatti si raccontano, e dove la gente che vi abita ha smarrito tutta la forza del fuoco e peregrina vive solo della polverosa, amara silice. Nessun shock  termico, nemmeno il logos perfetto di Prisco è in grado di rianimare la vita. I giorni si snocciolano in traiettorie obbligate,  la guerra scuote quella struggente stanchezza, ma anch’ essa si traduce in un  ripetersi di gesti legati alle case, ai giardini, alle stesse facce, agli stessi umori. Anche chi, come la signora Giuditta , dovrebbe dettar le carte, gestendo arrogantemente la vita dei suoi figli, appare, al fine, una mamma a rebours, anche il suo affetto per i figli sfinisce nelle convenienze, nell’urgenza di cogliere il meglio economicamente. Prisco al pari di Pirandello ci descrive che cos’ è la maschera, qui in una città di provincia, ma ci fa comprendere anche che l’uomo incapace di essere, si affeziona per sempre alla sua maschera e anche quando appare in cenere, non si rassegna, tenta di  reimporsela, né il bruciore della vergogna o della falsità lo condiziona, tutto deve proseguire negli argini convenzionali, né ha importanza l’amore, sia esso filiale, sia quello che lega le persone per sempre. Così la signora Giuditta, deus ex macchina della sua famiglia,  stabilisce chi deve sposare  la figlia Giulia e chi deve sposare il figlio Roberto. La storia è condotta dall’esterno  con una macchina da presa dei ricordi, focalizzata da Andrea, l’ex fidanzato di Giulia, lavorante nella fabbrica della signora Giuditta, innamorato della figlia della padrona, ma non all’altezza del matrimonio, in quanto povero. Nella sfera ossidiana  si vanno così a creare delle bolle , le macchie prima bianche diventano tutte grigie e voler riproporre ciò che è stato impedito dalle convenzioni sociali, si trasforma in un urlo di dolore, nessuno si salva dal tedio, da una malinconia che uccide, da quegli alberi del viale che immette alla casa e al “salotto”, alberi che sembrano gravati da pece, la sfera d’ ossidiana diventa nera, ma non esplode, come, invece, il lettore si aspetta.  Tutto si fa appiccicaticcio: l’animo umano con le sue piccole grettezze, nonostante qualche lieve ribellione, si  propone ai nostri occhi molto vigliacco, molto incapace, anche di esistere. Nella prima lettura dell’opera, nel leggere attentamente le pagine, ci si ritrova in uno stato d’ansia, come a supporre, ad aspettarsi da un momento all’altro,  un suicidio, posto  in qualche anfratto del pensiero e del cuore di qualcuno dei protagonisti. Meraviglioso è il logos che come in un pazle sapiente ci descrive i luoghi e le persone affinché ci possano apparire chiare nella loro mesta quotidianità. Gli incontri e i ritorni sono altre sconfitte che si cerca di nascondere , l’ossidiana, che prima,  apparentemente, poteva sembrare un arcobaleno, divora ogni brillantezza e ci dice quanto sia difficile vivere, anche quando le avversità esterne non sono preponderanti, la guerra è marginale,  non fa che sancire questa astenia. Eppure il romanzo di Michele Prisco  ci avvolge, ci invischia, vai a rivederlo a rileggerlo, affinché non ti sfugga alcun particolare. La struttura dell’opera è  solida, così come  il logos, mentre tutto decade, esso è e rimane  metafisico.  I  feldespat ci consegnano alla fine un’opera di fuoco su cui bisogna a lungo meditare, un lavoro che con gli anni, non ha perso grinta e  rimane, non solo una delle più grandi testimonianze del Novecento, ma si ripropone, con tutto il suo vigore, fortemente attuale, come d’altronde tutta l’opera di Michele Prisco. Walter Pellegrini, nel ripubblicare a distanza di sessantadue anni dalla sua prima Edizione delle Rizzoli(1954) quest’opera di eccezionale bellezza ed eleganza, ha sicuramente fatta una scelta editoriale vincente. Nella serata di presentazione a Castellammare sono state vendute in pochi istanti tutte le copie disponibili (ne erano moltissime) . Inoltre, molte importanti case Editrici, come per esempio la Bompiani, hanno di nuovo un occhio attento sui classici-moderni, non a caso negli scaffali della Feltrinelli di Napoli a piazza dei Martiri  ho notato in bella mostra  e ho ricomprato la nuovissima edizione de ”Gli indifferenti “di Moravia (Anche su di lui è caduto un colpevole silenzio). Sembra che gli editori abbiano  la memoria corta , ma in verità non rinunciano alla ripubblicazione di libri che hanno segnato la storia della letteratura italiana. Non dimentichiamo che pochi mesi fa  è anche uscito l’interessante testo di Simone Gambacorta, sempre dedicato a Michele Prisco, ”Appartenere alle parole” Galaad edizioni,  e, non voglio dimenticare, anche il testo “Destini Sincronici Amelia Rosselli e Rocco Scotellara con lettere inedite di Michele Prisco a Rocco Scotellaro  edito da Guida Editori. Naturalmente gli estimatori di Prisco e gli amanti della bella scrittura e di quei romanzi fascinosi del Nostro che non si limitano a raccontare storie, ma vanno ben oltre, nello scandaglio   delle situazioni, non solo reali, si aspetta, ormai è ora, un “Meridiano” dedicato al grande Maestro.

Perché rieditarlo? L’opera ha al centro, come dicevo,  una sfera d’ossidiana memoria, ha i profumi e le alchimie del Vesuvio che affonda le sue radici nelle vite delle cittadine che Prisco vorrebbe attraversare come l’acqua sorgiva che penetra la roccia. Il silicio, la polvere della memoria può provocare improvvisi singhiozzi, non controllabili da alcuno. In merito poi alle posizioni della critica togata che ha definito questo romanzo a volte un testo psicologico altre sociologico o entrambe le cose, crediamo che si abbia molto abusato di questi steccati, rigidi ,inautentici. Dare l’una o l’altra di queste definizioni è limitativo. Prisco è nato con la stoffa del grande scrittore, perciò il suo pensiero è dinamico, nessuna rete può contenerlo, anche definirlo scrittore solo del tardo neorealismo o ancor peggio scrittore napoletano , significa mortificare la sua grandezza e originalità. Certamente la sua arte è astorica come per tutti i grandi, perciò riprendere in mano i suoi libri e leggerli significa coccolare la propria anima e anche imparare a scrivere, poiché il suo logos è l’assoluto.

La modernità di quest’opera è nella  la sua forza di fascinazione , nella capacità di raccontare l’imprevedibile sussulto della natura umana. Il romanzo mi fa molto pensare al Vesuvio, d’altronde nell’opera è sempre presente, anche quando non viene nominato. Ciò che apparentemente  sembra pacifico può pronunciarsi improvvisamente in terremoto e si sa che  i terremoti possono radere al suolo molte cose, soprattutto ciò che la mano dell’uomo ha devastato con le sue incongruenze. Ebbene, Prisco, su queste cose ha giustamente poggiato il piede, senza fare sconti a nessuno. L’opera  sembra scritta ieri: con occhi smagati, l’Autore ci mette in guardia dal non causare altri disastri, l’incursione della memoria nella vita di ciascun protagonista  provoca lacerazioni profonde che nemmeno l’apparente chiusura “felice” fa dimenticare ciò che l’opera è effettivamente, a mio parere, una forte denunzia delle debolezze umane che sono causa di molte vite non vissute e di danni irreparabili al prossimo e alla società.



























[1] Emerico Giachery, Passione e sintonia. Saggi ricordi di un italianista, Carocci Editore, Roma luglio 2015.
[2] Op. cit. pg 13.
[3] Simone Gambacorta, “Appartenere alle parole”, Gallad Edizione Teramo 2017
[4] [4] Renato Filippelli e Fiammetta Filippelli,L’ Eeredità Letteraria,storia e testi della Letteratura Italiana, volume terzo tomo B, Il Novecento, pagine 336- 337,Simone Editore, Napoli , ristampe: 2005, 2006,2007.

[5] Salvatore Francesco Romano, L’Italia del Novecento,Biblioteca di storia patria, Opera in tre volumi,L’Età giolittiana,  pg 278-279

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