Sfere d’ossidiana memoria Di Carmen
Moscariello Articolo pubblicato da "Il Convivio", n 71, pg 4, ottobre dicembre 2017.
Vorremmo attuare, nell’interpretazione dell’opera di
Michele Prisco “Figli Difficili” , l’insegnamento di Luigi Pareyson
nell’”Estetica Teoria della formatività
“ e, quella dell’emerito italianista Emerico Giachery,
quest’ultimo facendo espresso riferimento a
Payson nel capitolo de “la Lettura, interpretazione critica “,ci
insegna a “eseguire” un testo per conferirgli vita attuale e presenza , ciò si
ottiene sia col farne emergere l’anima riposta e” il senso” inteso come sintesi
di significato e significante, sia col promuovere “l’epifania vocale”, nell’interpretazione
a voce alta.[1]
La vita anche potenziale del testo, il
suo porsi, il suo “esserci”, la sua ricchezza di sensi e di senso è centro e
motore, alfa e omega di ogni analisi letteraria. [2]Partendo
da questo imput abbiamo percorso una strada intima, evitando secche e frustranti analisi tecniche. Ebbene,
ci avviciniamo allo studio di “Figli difficili” con ancora più amore e
dedizione, poiché abbiamo avuto il piacere, seppur marginalmente, di conoscere
di persona Michele Prisco che spesso era nostro ospite a Formia e a Gaeta; il ricordo vivissimo che serbiamo, oltre,
naturalmente quello di raffinato scrittore, è di un
gran signore, un nobiluomo rispettoso e amabile con tutti. Prima del nostro esprimerci vogliamo anche
attingere dai testi dedicati a Prisco da un grande poeta, quale è stato Renato
Filippelli, amico del nostro, egli lo
ebbe più volte ospite a casa sua; questi fatti ce li ricorda anche un bel testo
“Appartenere alle parole” di Simone Gambacorta[3],
che presenta una serie di interviste fatte a nomi importanti del panorama
letterario italiano sull’opera di Prisco; il libro è uscito quest’anno ed è stato presentato da Francesco D’Episcopo nella
Saletta Guida alla presenza di illustre personalità. Filippelli ebbe molta
stima dei due grandi romanzieri
napoletani, di Rea e di Prisco,
aveva grandi foto nel suo studio. Di Michele Prisco scrive nella
splendida Enciclopedia Letteraria che ci ha lasciato[4]:
“Nato nel 1920 a Torre Annunziata (Napoli) e morto nel 2003. Egli esordì in
pieno Neorealismo, con una raccolta di racconti ambientati nell’entroterra
vesuviano. La provincia addormentata
(1949) . Il suo intento era la denuncia sociologica, secondo i canoni
veristici; ma i risultati portarono allo scoperto , un temperamento di
narratore che attuava l’istintiva ricerca del vero, non tanto nell’analisi
ideologica delle strutture sociali, quanto nello studio sottile delle atmosfere
psicologiche e nelle ricostruzioni Della vita interiore dei personaggi, specialmente femminili. Pagato
, con “Gli eredi del vento” l’ultimo scotto al Neorealismo, Prisco assecondò la
sua autentica vocazione all’inchiesta meticolosa sui drammi interiori nel
romanzo “fIgli difficili”(1954)dove narrò di una famiglia borghese i cui membri
soffrono il contrasto fra l’urgenza delle loro passioni e l’obbligo di
conformarsi al gretto convenzionalismo dell’ambiente . La capacità di tradurre
in un linguaggio narrativo moderno , assai ricco di sfumature e risonanze
poetiche , la lezione del romanzo psicologico ottocentesco, ha consentito a
Prisco la realizzazione di prove narrative che sono tra le più interessanti del
secondo Novecento…
Noi
continuiamo dicendo che si può entrare
nel romanzo” Figli difficili” e rimanerci per mesi. Leggerlo, significa inseguire i mille cunicoli del labirinto della
vita, e, poi, riprenderne la lettura per
perdersi nei percorsi nostalgici dei
ricordi che non hanno per i personaggi del libro alcun effetto di catarsi, anzi
ricordare, molto spesso, significherà, non altro, che mettere a nudo e
rinfacciare le proprie e le altrui miserie. Il lungo romanzo (più di 400
pagine) si popola di personaggi delusi, amareggiati, sconfitti in partenza,
poiché nulla fecero affinché i rivoli secchi delle loro esistenze potessero
attingere a qualche sorgente, nessun affluente corre parallelo ad essi, attorno
è il deserto dell’Essere: è un non
chiedere e un non avere! Compaiono aspetti che, purtroppo, sono propri di certi esseri umani, l’arroganza
di Giuditta, per esempio, che non si è
mai posta il problema di cosa fosse davvero necessario per la felicità dei
figli. Questo rigido personaggio si erge sugli altri per il suo materialismo,
per l’assenza di ogni ideale, quel che si può immaginare di una donna “pratica”,
ma anche priva di un qualsivoglia sentimento,
Il suo cuore batte solo a difesa di un’ immagine patinata esterna, quella da mostrare
agli occhi della Provincia. Questa figura materna tratteggiata meticolosamente dal
Grande Scrittore è la meno poetica della nostra letteratura, la più
parsimoniosa di gesti e di parole per i figli, ma anche per il marito che
Prisco fa comparire come un’ ombra, già morto ormai, ma che in vita fu, come se
fosse morto. E’ questo un romanzo, in certo modo, crepuscolare, di un certo verismo
decadente che si regge su uno stato d’animo terribile che impera sui personaggi: la delusione, la
vita che prende altre strade da quelle che sono le attese e le speranze dei
personaggi, con le sue aspettative
negate, che lasciano al lettore una tristezza senza lacrime, ma, anche, senza
alcuna pietà (la pietas virgiliana è solo
dell’autore)per nessuno dei personaggi del libro. In
parte si colloca quest’opera nell’ Italia del Novecento, non estraneo al
racconto, dove sono narrate forme di
vita dimesse, provinciali, borghesi, sono i sentimenti di malinconia, o ,di
amore, di tristezza, di gioia, mai troppo intensi o sofferti in modo acceso, ma
sempre distaccati e sentiti attraverso il velo del ricordo nostalgico, della
melanconia ironica o del giuoco letterari o , anche quando sono più dolorosi, sono espressi in una forma , che viene adottata
quasi a voler coprire , un abito, anche
esso dimesso e usuale, stati d’animo
comuni del vivere quotidiano in un salotto borghese.[5] Il salotto di Prisco è depositario di mestizia,
qui gli ospiti e gli abitanti della casa
sfilano i loro ricordi e le loro amarezze che hanno preso dimora stabile nei
luoghi e nei cuori delle persone. A quest’opera la critica ha rimproverato la troppa lunghezza,
il rimestare con insistenza in certe malinconie, ma come giustamente asserisce
Salvatore Francesco Romano sugli scrittori crepuscolari, l’insistenza fa parte
del gioco della parola e della capacità straordinaria di Prisco di saper intrattenere il lettore oltre ogni misura,
coinvolgendolo e immergendolo in quelle vite amare, in quei percorsi enigmatici
che non trovano svelamenti certi neanche alla fine del romanzo. Mario Fubini ci
insegna che nella critica “tanti e tutti parimenti
legittimi sono i punti di vista”.
Così la strada tracciata dall’opportunismo e
dalle opportunità mancate è travolta dal fango, da un’irrisione truculenta del
male che è il solo a incidere segni eterni . Sono le ferite sulla carne gli
unici atti eroici che i personaggi possono vantare. Poi, un soffuso eros,
sempre schermato dalla finzioni, affinché gli altri non possano sparlare e
intromettersi in situazioni davvero larvali. A nostro avviso la lunga scrittura
determina, al fine, il fascino di questo
capolavoro che noi interpretiamo come un’orbita misteriosa della vita, un
gomitolo grigio, a volte, dolorosamente sfilacciato , un procedere nelle dimesse vite
dei personaggi, naufraghi senza apparente tempesta. Qui, il destino lo si può
guardare solo dal di fuori , è una sfera intricata e intrigante di umori,
stanchezze, infelicità, dove, il
percorso è segnato da una noluntas lacerante. Un portarsi dietro il sacco della
vita, apparentemente senza sforzo, ma invece pesa di sofferenze e l’affanno è
un respiro impercepibile, le labbra semichiuse raccontano di singhiozzi
strozzati nella gola, il fil di voce si rompe, diviene impercepibile; il
dolore, le assenze sono statue con orbite levigate, enormi che ci fissano da
ogni lato , pietrificano l’osservatore. Un universo piccolo, piccolo di
borghesucci, nelle loro vite con piccoli orizzonti, quello che impressiona è
l’assenza di ricerca del bene e dell’amore. E’ un romanzo che ti lascia con la bocca secca al pari dell’Etre et le Néant (1943)di Sartre .Questa pietra carnivora che è
la vita e che qui ci appare, invece,
come una pietra dura attraversata da mille vene è una vita solo falsamente apparentata a un vetro
vulcanico, ma che invece sembra possedere solo l’ardore di una lava. Prisco fa vivere i suoi
personaggi sotto il Vesuvio, lo si intravvede, “lo Sterminator Vesevo” mentre descrive il corso della cittadina in
cui i personaggi del libro amano passeggiare e in cui molti fatti si raccontano, e dove la gente che vi
abita ha smarrito tutta la forza del fuoco e peregrina vive solo della
polverosa, amara silice. Nessun shock
termico, nemmeno il logos perfetto di Prisco è in grado di rianimare la
vita. I giorni si snocciolano in traiettorie obbligate, la guerra scuote quella struggente
stanchezza, ma anch’ essa si traduce in un ripetersi di gesti legati alle case, ai
giardini, alle stesse facce, agli stessi umori. Anche chi, come la signora
Giuditta , dovrebbe dettar le carte, gestendo arrogantemente la vita dei suoi
figli, appare, al fine, una mamma a rebours, anche il suo affetto per i figli
sfinisce nelle convenienze, nell’urgenza di cogliere il meglio economicamente.
Prisco al pari di Pirandello ci descrive che cos’ è la maschera, qui in una
città di provincia, ma ci fa comprendere anche che l’uomo incapace di essere,
si affeziona per sempre alla sua maschera e anche quando appare in cenere, non
si rassegna, tenta di reimporsela, né il
bruciore della vergogna o della falsità lo condiziona, tutto deve proseguire
negli argini convenzionali, né ha importanza l’amore, sia esso filiale, sia
quello che lega le persone per sempre. Così la signora Giuditta, deus ex
macchina della sua famiglia, stabilisce
chi deve sposare la figlia Giulia e chi
deve sposare il figlio Roberto. La storia è condotta dall’esterno con una macchina da presa dei ricordi, focalizzata
da Andrea, l’ex fidanzato di Giulia, lavorante nella fabbrica della signora
Giuditta, innamorato della figlia della padrona, ma non all’altezza del
matrimonio, in quanto povero. Nella sfera ossidiana si vanno così a creare delle bolle , le
macchie prima bianche diventano tutte grigie e voler riproporre ciò che è stato
impedito dalle convenzioni sociali, si trasforma in un urlo di dolore, nessuno
si salva dal tedio, da una malinconia che uccide, da quegli alberi del viale
che immette alla casa e al “salotto”, alberi che sembrano gravati da pece, la sfera
d’ ossidiana diventa nera, ma non esplode, come, invece, il lettore si aspetta.
Tutto si fa appiccicaticcio: l’animo
umano con le sue piccole grettezze, nonostante qualche lieve ribellione,
si propone ai nostri occhi molto
vigliacco, molto incapace, anche di esistere. Nella prima lettura dell’opera,
nel leggere attentamente le pagine, ci si ritrova in uno stato d’ansia, come a
supporre, ad aspettarsi da un momento all’altro, un suicidio, posto in qualche anfratto del pensiero e del cuore
di qualcuno dei protagonisti. Meraviglioso è il logos che come in un pazle
sapiente ci descrive i luoghi e le persone affinché ci possano apparire chiare
nella loro mesta quotidianità. Gli incontri e i ritorni sono altre sconfitte
che si cerca di nascondere , l’ossidiana, che prima, apparentemente, poteva sembrare un arcobaleno,
divora ogni brillantezza e ci dice quanto sia difficile vivere, anche quando le
avversità esterne non sono preponderanti, la guerra è marginale, non fa che sancire questa astenia. Eppure il
romanzo di Michele Prisco ci avvolge, ci
invischia, vai a rivederlo a rileggerlo, affinché non ti sfugga alcun
particolare. La struttura dell’opera è solida, così come il logos, mentre tutto decade, esso è e rimane
metafisico. I feldespat ci consegnano alla fine un’opera di
fuoco su cui bisogna a lungo meditare, un lavoro che con gli anni, non ha perso
grinta e rimane, non solo una delle più
grandi testimonianze del Novecento, ma si ripropone, con tutto il suo vigore,
fortemente attuale, come d’altronde tutta l’opera di Michele Prisco. Walter Pellegrini, nel ripubblicare a
distanza di sessantadue anni dalla sua prima Edizione delle Rizzoli(1954)
quest’opera di eccezionale bellezza ed eleganza, ha sicuramente fatta una
scelta editoriale vincente. Nella serata di presentazione a Castellammare sono
state vendute in pochi istanti tutte le copie disponibili (ne erano moltissime)
. Inoltre, molte importanti case Editrici, come per esempio la Bompiani, hanno
di nuovo un occhio attento sui classici-moderni, non a caso negli scaffali
della Feltrinelli di Napoli a piazza dei Martiri ho notato in bella mostra e ho ricomprato la nuovissima edizione de ”Gli
indifferenti “di Moravia (Anche su di lui è caduto un colpevole silenzio).
Sembra che gli editori abbiano la
memoria corta , ma in verità non rinunciano alla ripubblicazione di libri che hanno
segnato la storia della letteratura italiana. Non dimentichiamo che pochi mesi
fa è anche uscito l’interessante testo
di Simone Gambacorta, sempre dedicato a Michele Prisco, ”Appartenere alle
parole” Galaad edizioni, e, non voglio
dimenticare, anche il testo “Destini Sincronici Amelia Rosselli e Rocco
Scotellara con lettere inedite di Michele Prisco a Rocco Scotellaro edito da Guida Editori. Naturalmente gli
estimatori di Prisco e gli amanti della bella scrittura e di quei romanzi
fascinosi del Nostro che non si limitano a raccontare storie, ma vanno ben
oltre, nello scandaglio delle
situazioni, non solo reali, si aspetta, ormai è ora, un “Meridiano” dedicato al
grande Maestro.
Perché
rieditarlo? L’opera ha al centro, come dicevo, una sfera d’ossidiana memoria, ha i profumi e
le alchimie del Vesuvio che affonda le sue radici nelle vite delle cittadine
che Prisco vorrebbe attraversare come l’acqua sorgiva che penetra la roccia. Il
silicio, la polvere della memoria può provocare improvvisi singhiozzi, non
controllabili da alcuno. In merito poi alle posizioni della critica togata che
ha definito questo romanzo a volte
un testo psicologico altre
sociologico o entrambe le cose, crediamo che si abbia molto abusato di questi
steccati, rigidi ,inautentici. Dare l’una o l’altra di queste definizioni è
limitativo. Prisco è nato con la stoffa del grande scrittore, perciò il suo
pensiero è dinamico, nessuna rete può contenerlo, anche definirlo scrittore solo
del tardo neorealismo o ancor peggio scrittore napoletano , significa
mortificare la sua grandezza e originalità. Certamente la sua arte è astorica
come per tutti i grandi, perciò riprendere in mano i suoi libri e leggerli
significa coccolare la propria anima e anche imparare a scrivere, poiché il suo
logos è l’assoluto.
La modernità
di quest’opera è nella la sua forza di
fascinazione , nella capacità di raccontare l’imprevedibile sussulto della
natura umana. Il romanzo mi fa molto pensare al Vesuvio, d’altronde nell’opera
è sempre presente, anche quando non viene nominato. Ciò che apparentemente sembra pacifico può pronunciarsi
improvvisamente in terremoto e si sa che
i terremoti possono radere al suolo molte cose, soprattutto ciò che la
mano dell’uomo ha devastato con le sue incongruenze. Ebbene, Prisco, su queste
cose ha giustamente poggiato il piede, senza fare sconti a nessuno.
L’opera sembra scritta ieri: con occhi
smagati, l’Autore ci mette in guardia dal non causare altri disastri,
l’incursione della memoria nella vita di ciascun protagonista provoca lacerazioni profonde che nemmeno
l’apparente chiusura “felice” fa dimenticare ciò che l’opera è effettivamente,
a mio parere, una forte denunzia delle debolezze umane che sono causa di molte
vite non vissute e di danni irreparabili al prossimo e alla società.
[1] Emerico
Giachery, Passione e sintonia. Saggi
ricordi di un italianista, Carocci Editore, Roma luglio 2015.
[2] Op. cit.
pg 13.
[3] Simone
Gambacorta, “Appartenere alle parole”, Gallad Edizione Teramo 2017
[4] [4]
Renato Filippelli e Fiammetta Filippelli,L’
Eeredità Letteraria,storia e testi della Letteratura Italiana, volume terzo
tomo B, Il Novecento, pagine 336- 337,Simone Editore, Napoli , ristampe:
2005, 2006,2007.
[5]
Salvatore Francesco Romano, L’Italia del Novecento,Biblioteca
di storia patria, Opera in tre volumi,L’Età giolittiana, pg 278-279
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