giovedì 19 maggio 2022

Charles De foucauld di Carmen Moscariello Gangemi editore









 


Charles de Foucauld -Fratelli tutti

Le antiche rotte dell’Ahaggar


Dio ha creato paesi ricchi d’acqua perché gli uomini vi vivano, ha creato il deserto perché gli uomini vi ritrovino

 la propria anima.


Le antiche rotte dell’Ahaggar

L’opera è protesa alla scoperta del senso divino della vita  e alla narrazione della ricerca di Dio sulla strada seguita dal Beato  Charles Eugène  De Foucauld, in particolare si narra “la Regola del deserto” con la  quale il Santo incontra  Dio e le  creature più umili . La figura di Charles è più che mai attuale in questi tempi terribili dettati dalle bombe e dalla distruzione. Charles de Foucauld predicò con l’esempio della sua vita la Pace. “Fratelli tutti” è il punto focale della sua Regola. San Giovanni Paolo II lo dichiarò Beato e Papa Francesco l' ha voluto Santo. Le stesse encicliche del Papa si ispirano non solo a San Francesco, ma anche alla Regola e all’esempio di vita del Fraticello del Deserto. Egli come già San Francesco portò la pace tra gli arabi e i cristiani, aborrendo le guerre coloniali.

Lo scritto è  spesso assoggettato al disordine della memoria, alla confusione dei tempi, alla sedizione di un modo di vivere  nemico di Cristo, alla preghiera affinché cessino le guerre. Traspare nella  scrittura   l’ardore di credere all’ edificazione di una “Città del sole”, un mondo di luce dove l’amore semini la pace.

Si contrappongono molte cadute alla  rinascita. C’è la mano di Dio che aiuta e  protegge   dalle  scosse  distruttive di violenti terremoti, per dare voce alla preghiera dei ruscelli,  al nettare d’agave e a cogliere la luce di Dio dalla polvere dei venti del Sahara. L’opera, in parallelo  alla meditazione sulla conversione di Charles, esplora fisicamente e spiritualmente il deserto dei luoghi e quello dello spirito e aspira a realizzare una svolta dell’esistenza umana. In una costanza meditativa si cerca Dio, per suo tramite ci si avvicina al prossimo. Lo scritto apre le porte a un’analisi  spietata sulla profonda crisi di civiltà che l’uomo sta vivendo, esprimendo il distacco dal male in  un’esegesi ariosa e asprigna, nel tentativo di  lenire il   dolore. Si sceglie il deserto per disancorarsi, in un viaggio  che sfiora la morte. Gradualmente, i graffi della lotta contro i limiti della natura e dello spirito piegano e rivoluzionano l’intero modo di porsi davanti a Dio e al mondo. L’autrice racconta un’esperienza effettivamente vissuta, quella dell’attraversamento del deserto del Sahara con lo scopo di raggiungere il Romitaggio di Charles Eugène De Foucauld, nei pressi di Assekrem. Insieme ai molti altri  fatti reali  di  una vita  accidentata dai continui smarrimenti, si racconta l’esperienza del viaggio che  assume con gradualità i colori della fratellanza  al popolo Tuareg, al quale Charles dedicò molto del suo amore.

Il contenuto dell’opera  è manifestato con una  scrittura d’oscillazione tra la poesia e  il pensiero meditativo.

 ll tema  religioso e dell’amore hanno  un ruolo determinante, testimone ne sono il vento e le dune  del deserto. Questi lembi formano una rete densa di significati i cui fili s’intrecciano senza sciogliersi e portano un’anima quasi dannata ad abbracciare la croce di Cristo. (Opera di Carmen Moscariello, Gangemi Editore 16/ maggio 2022).

 








“Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali e vi conceda di inventarvi una vita carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio. Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un povero di passaggio”. (Tonino Bello)

Capitolo I

 

Miraggio

 

Mi persi  a Fez [1].

Era  incantevole, le sue mura sfumavano nella sabbia del deserto. I vicoli della medina erano così stretti, a volte maleodoranti, non c’era anima viva, eppure mi sentivo fissata da molti occhi, da donne e uomini, occhi bramosi, curiosi della straniera: “Si è persa!”. Erano le voci degli uomini; le donne, anche quelle che accompagnavano a fiotti i ricchi emiri, le tante giovani mogli che  non parlavano mai,  avevano occhi pungenti e le dita delle mani e dei piedi colorate da preziosi tatuaggi, sembravano carte geografiche, fatte per territori inesplorati. Quando i vicoli mi portavano su una torre più alta potevo vedere i cammelli al tramonto (inimmaginabili per bellezza e mistero quei tramonti rossi-arancio), i cammelli erano anch’essi statue di sabbia si muovevano appena, impercepibile il loro dondolarsi, solo le code rompevano il vento. L’unico suono era il mio passo leggero e un fiato caldo che cresceva nel suo ululato. Impressionante è il silenzio, nessuna macchina, nessun motore, tutto era un  fruscio; non c’era il rumore delle foglie, c’era un vento che parlava ad alta voce, prepotente e in

inossequioso, sfidava la divinità del silenzio. Tutto era misterioso, quelle mura bellissime che circondano la medina e le porte alte,  non avevano permesso l’accesso alle   angosce.  

Le piazze piccole si aprivano e si chiudevano, quasi a stringermi tra le braccia. Il sole stava per tramontare e il mio corpo suggeriva amplessi e misteri a quegli occhi sconosciuti, ero diversa, ero bella, avevo un velo con tante sfumature di verde, ricamato di perle e zaffiri, mi avvolgeva tutta: sporgeva solo il mio piede nudo e delicato. Durante il giorno, quegli occhi nascosti sotto tende informi me li guardavano vogliosi. Iniziai ad avere paura, sembrava che gli spazi tra le mura della città fossero penetrabili e facili da esplorare, tutt’altro, la città era un labirinto di viuzze sempre uguali che si attorcigliavano su se stesse, avevano la forma dei grandi gusci di lumaca, non si vedeva dove cominciava l’uno, né dove finiva l’altro. I miei vestiti leggeri, quasi trasparenti, erano attraversati dai raggi di luce che da secoli si fissavano sulle mura antiche, che avevano respirato passioni e guerre. Mi trovai  finalmente davanti all’Università di Fez, forse la più antica del mondo arabo, tirai  dritto e, finalmente, a un giovane che mi veniva incontro gli chiesi in francese come arrivare al Rida de La Cheminé Bleue Fas, in prossimità della Porta di Bab, luogo dove si trovava il mio albergo. La medina fortificata, ormai avvolta da ombre dense non lasciava leggersi in nessuna sua parte, il grigio giallo delle costruzioni era diventato nero, brillavano ogni tanto delle piastrelle verdi e blu. Alzai alfine gli occhi verso il cielo e le stelle mi  apparvero così vicine e lucenti, come mai le avevo viste, neanche nel  deserto del Sahara egiziano, c’era un cielo che era  l’anfiteatro del Paradiso: un ampio mantello che mi  proteggeva dalla paura e mi apriva  porte misteriche. I miei passi attraversavano con levità e sapienza il firmamento della medina fortificata di Fez.



 Le montagne del Medio Atlante si piegavano su di me che inciampavo nelle strade dissestate con i miei  sandali delicati ornati con pietre luminose,  né le candele accese ai bordi dei  riad davano una qualche speranza di luce. Ero stanca e se ne avessi avuta l’occasione mii sarei volentieri seduta, le orbite di sabbia disegnavano col vento strane ombre, improvvisa ne apparve una gigantesca, alzai  gli occhi e intravidi un beduino del deserto, così mi sembrò, con gli occhi neri come la pece, il corpo avvolto da una sottana bianca lo fece sembrare un dio, né mi sorpresi, quando egli mi sorrise e mi diede la mano per guidarmi, mi parlò in un francese perfetto e mi disse di non avere paura. Fu lui a guidarmi dove volevo che mi portasse, e gli ripetei in francese  l’indirizzo del mio albergo. Percorremmo delle ampie scalinate colore della paglia e in breve tempo sbucammo dinanzi all’albergo. Gli uomini della hall, preposti ad accogliere gli ospiti si precipitarono verso di lui che diede comandi  in lingua araba, poi mi salutò senza stringermi la mano, si inchinò e si mise una mano sul cuore.

Silenziosa e vaga mi avviai   verso    la mia camera che ancora non conoscevo, appena aperta la porta sentii un odore acre di sigaretta, chiamai la hall per spiegare l’inconveniente e si precipitarono in camera tre giovani uomini, presero lesti i miei bagagli e mi spostarono in una camera bellissima con il  balcone che affacciava su Talaa Kabira, potei ammirare da qui le bianche torri merlate, che facevano sembrare la struttura un antico castello e in lontananza arrivavano i rumori dei souk e i canti dei minareti.

Mi svestii, lavai e asciugai il mio corpo dolce e mansueto e indossai una sottana di seta  nera, non dimenticai di velare il mio viso e i miei capelli, mi sembrò di guardare dall’esterno un’altra se stessa, respirai  lentamente e rimasi immobile per qualche attimo, l’immagine del mio corpo mi rimase accanto e sussurrò alle  orecchie: ”Sii felice!”.

Misteriosa e vissuta dai pensieri del silenzio, in quella terra lontana, con radici possenti, avevo in breve riacquistato tutta la mia femminilità. Mi sentivo bella e desiderata.

A cena  mi aspettavano le mie figlie e altre conoscenze occidentali,  non mangiai quasi niente, ma ballai per l’intera notte, leggera e pura come la luna che riverberava a ogni feritoia dell’antico castello. La notte profonda, immersa nel silenzio, mi fece quasi paura mi  girai e rigirai nel letto fino all’alba. L’indomani feci colazione, solo con un caffè arabo di ottima qualità e qualche dattero, uscii nell’immensità del cielo dell’alba, una donna sulla soglia delle scalinate dell’albergo con le mani meravigliosamente dipinte di henné, mi fece segno di avvicinarmi, senza dire una parola, mi  aprì delicatamente la mano e mi fece capire di aver visto due comete che avevano fatto il periplo del Capo di Buona Speranza, mi disse di  molte tempeste, ma anche di tanto amore. Felice pensai, se mai, finalmente, avessi potuto riconoscere questo grande amore. Nella mia  vita avevo scelto sempre l’uomo sbagliato. Il vento forte e aspro mi scompigliò il velo e, i miei capelli rossi mi  avvolsero fino a coprirmi il volto. I lunghi capelli scendevano lisci e ambrati fino alla schiena. Nessuno della comitiva era presente, né aveva fatto colazione; approfittai per girovagare nella medina di Fès. La città ferveva di vita e i mercanti avevano disposto la loro merce come in un anfiteatro. Acquistai l’olio di argan, ne presi più bottiglie,  in Italia  Aldo Coppola, il grande maestro della cura dei capelli, lo adoperava da tempo e da questo aveva  conosciuto i miracoli di quell’olio, mi spiegarono che quel preparato avrebbe reso ancora più belli i miei capelli. Nel negozio mi diedero un indirizzo dove poter provare i profumi e i saponi all’olio d’oliva o impacchi miracolosi per ringiovanire la pelle del  viso. Riguardai il dépliant: ampio spazio era dato alle essenze,  sorvolai, perché da qualche tempo, ero intollerante a qualsiasi profumo, ma gli impacchi al viso mi interessarono molto. Chiusi bene i miei nuovi acquisti nello zaino e mi avviai fuori dalle mura della medina.

 Le strade furono più benevoli ai miei  piedi e il pullman era lì fermo ad aspettarmi. Ero la prima a salire. Dopo una mezz’ora c’erano tutti, ed eravamo pronti per partire per Marrakech, un viaggio non molto lungo, ma triste, poiché insieme alle bellezze dei luoghi appariva chiara la povertà e la solitudine  delle campagne, quasi tutte utilizzate per i pascoli. La nostra guida parlava un italiano decente, non era affatto gentile e non ci risparmiava qualche “zeppata” sul modo di fare degli italiani, raccontò che era stato a lavorare in Italia per dieci anni, che aveva tre mogli, l’ultima di quattordici anni, disse anche alle donne di vestirsi con decenza, poiché offendevano con un abbigliamento succinto la loro morale. La città si presentò ben diversa dalla medina imperiale di Fez, il traffico era  caotico e i negozi ricchi di oggetti d’argento bene intarsiati e di meravigliosi tappeti lavorati a mano, anche le lampade in vetro bombato mi apparvero preziose e degne di una reggia. Dopo aver, perlomeno in parte, esplorata la città, ci condussero in un ristorante, per me inusuale, nonostante avessi spesso vissuto, seppur in periodi brevi, sia a Marrakech che a Casablanca; c’erano grandi cuscini colorati per terra, disposti senza alcun ordine, c’erano uomini che fumavano il sebsi, altri il narghilè,  neanche dopo pochi minuti mi  apparve piegato su di me quel giovane arabo della notte precedente, a bassa voce mi disse che il caso era stato benevole  che l’aveva riportato a lei e gli aveva permesso di incontrarla di nuovo. Mi  staccai dal gruppo e accolsi l’invito di pranzare con lui. Mi  accompagnò nello stesso ristorante in un salone magnifico con arazzi ai muri che rappresentavano la linea retta dei cammelli e dei beduini che attraversavano il deserto, la sala sembrava aspettasse proprio noi due, non c’era nessun altro. Anche gli arazzi erano tessuti da quel silenzio orbitale. Al nostro passaggio, tutti gli arabi portavano una mano al petto, s’ inchinavano e ci cedevano il passo.

Finalmente potei vedere, solo in parte il suo viso, era giovane e bellissimo con la barba color carbone e gli occhi di fuoco, come mi erano apparsi per la prima volta nella notte, aveva un copricapo prezioso, ornato di pietre colorate e ai bordi fregiato con scritture arabe, più tardi appresi che quel copricapo si chiamava bent-al bakkon, vestiva di bianco con un mantello di eguale colore, la mia furibonda immaginazione mi  portò subito a un  film del 1930 “Marocco” con Gary Cooper, e Marlene Dietrich, diretto da Josef Von Sternberg, glielo dissi con un sorriso fascinoso e complice .[1] Mi sorrise con altrettanto fascino, mi chiese il mio nome: “Il mio nome è Lejla”. Parlavamo in francese, io avevo imparato solo poche parole arabe, mi  fece servire da una teiera d’argento, in un bicchiere bollente, con manico d’argento, un tè aromatizzato alla menta e alla cannella, così buono che mai in vita mia ne aveva assaggiato di migliori, pur essendo una cultrice di tè eccellenti. Parlammo molto, mi  chiese quanti giorni rimanevo in Marocco, che cosa facevo nella vita, rimase piacevolmente sorpreso quando gli dissi che era una poetessa. Egli : “ci avrei giurato-disse- o una poetessa o una fata dolcissima, uscita dal manto azzurro del mare e del cielo”. Così si espresse. Alle 16,00 il mio pullman e la mia comitiva ripartivano, mi salutò con un inchino, io lo guardai dritto  nel profondo degli occhi e misi la mia mano sul cuore, egli si inchinò  a sua volta.

Ripartimmo. In un angolo del pullman, da sola sognavo e ripetevo a memoria tutti gli attimi di quella giornata, mi rimproverai di non avergli chiesto nemmeno il suo nome, mentre mi  ricordai  che il mio egli  l’aveva ben memorizzato e appuntato, mi  aveva fatto molte domande sui miei  itinerari, sugli alberghi nei quali avrei soggiornato.

Mi convinsi, alfine, che molte  cose erano vaghe o solo frutto della mia immaginazione; i miei occhi inseguirono l’ardore dell’imperatore Adriano e il suo amore giovane e devoto del dolce Antino, morto suicida, e riflettei su  come l’amore sa essere fugace e tenero, anche terribile! La mia mente si spostava rapidamente e coniugava insieme fatti e luoghi difficilmente avvicinabili. Mi sembrò di vedere una clessidra la cui sabbia si affrettava nel misurare il mio tempo. Ero timida, lo ero sempre stata, ma a volte le cisterne fragorose della mia anima esplodevano, divenivano immense, ricche di acqua sorgiva, spregiudicate, sapevano percorrere sentieri inesplorati, anche pericolosi. Pensai che da molto tempo gli uomini non mi  guardavano con l’ardore  del giovane arabo, che sembrava portare stampato sulla sua mano e sul suo cuore tutti i colori dei fiori del deserto, un lillà le attraversava lo sguardo e il viso, in alcuni momenti i suoi lineamento sfumava verso un blu-viola intenso, poi verso  un rosso rubino. Compatii i miei pensieri che sgangherati si accampavano su quelle fortezze di paglia e sabbia, con piccole finestre guarnite con musciarabia, sbiadite, nei loro colori sgargianti, dai raggi cocenti del sole e dalla potenza del vento.

Qui a Marrakech i minareti erano tanti: le preghiere si aprivano al cielo e agli uomini in molti momenti del giorno e della notte, le fontane berbere allietavano i suk e gli incantatori di serpenti affascinavano il pubblico. A differenza di Fez, a Marrakesch tutto era in movimento e il rumore non abbandonava le piazze nemmeno dopo la mezzanotte. La cena fu pessima, arrivammo in albergo in ritardo, dopo l’ora stabilita, il riso era scarso e frammisto a terra. Il personale era inospitale e odiava gli occidentali.  Qualcuno protestò, ma era come parlare ai muri. Quella bella giornata era stata rovinata da un personale inadeguato per un albergo a cinque stelle. Andai a letto digiuna, lessi fino all’ora tarda e seppi tutto sul più alto e antico minareto moresco della moschea di Kutudyya. La mia camera aveva una finestra che affacciava su una piazza chiassosa e irradiata da molte luci, qui gli abitanti non dormivano mai e i negozi rimanevano aperti anche di notte, i miei occhi non vollero chiudersi e ripassai a memoria tutti i rumori, i sussurri, le ombre di quella terra straniera. La mia veglia di roccia attraversò il deserto e s'immerse verso le piste  di  un altrove sconosciuto, in roseti profumati; sentii sul mio corpo nudo il freddo della notte e quella luna indiscreta, capricciosa e bugiarda, spiò i miei pensieri, su di  essi si riflettevano le stelle  che come me  non avevano tempo per dormire.

L’indomani era fissata la pista per Hassekrem.







Viaggiarono fin dal mattino prestissimo, sveglia alle tre. Il nostro pullman correva veloce, su strade disagiate e dissestate, spesso a una sola stretta corsia, a strapiombo su ponti veramente fragili, per fortuna gli incontri con altri pullman ricolmi di turisti furono rari e le macchine quasi inesistenti, solo si rallentava, a volte, poiché la strada era attraversata o occupata da ovini e da asini che avanzavano lenti con le loro bisacce di un beige sporco.

La voce dei muezzin per le orazioni mattutine, dai meravigliosi minareti di Marrakech, andava affievolendosi e lenta e dolce planava l’alba sulle campagne ancora assonnate e sui piccoli villaggi che si scorgevano in lontananza. Bisognava percorrere circa 320Km per accedere alla porta di Merzouga, uno degli ingressi più vicini al deserto del Sahara . Eravamo  giunti sul confine tra Marocco e Algeria, dopo otto ore di viaggio.  L’Algeria apparve al tramonto con il suoi  altissimi monti dell’Hoggar, con le sue montagne rosse, che non mi  sorpresero;  quelle rocce rosse le avevo incontrate una decina di anni prima nel deserto egiziano. La carovana dei beduini ci attendeva a Merzouga, ”Nel nome di Allah il grande e benefico, vi diamo il benvenuto”. Fu il saluto cordiale e fraterno del capo della carovana. Nessuna visita era in programma a Merzouga, era stato deciso che avrebbero affrontato subito il viaggio nel deserto del Sahara. Il freddo era pungente. Non ebbi molta difficoltà a salire sul mio cammello, lo fecero inginocchiare e con un balzo vi saltai sopra. C’erano anche delle bambine di tredici anni,  con vestiti colorati in azzurro e rosso, e i maschietti della stessa età con tuniche bianche , vestiti lunghi che arrivavano fino ai piedi, per le ragazze il viso era scoperto, si potevano ammirare gli occhi lucenti, avevano copricapo viola, davvero stupendi. Portavano festosi la cavezza  per quegli ospiti più spaventati e alla prima esperienza e conoscenza dei cammelli, animali molto diversi dai cavalli, sembravano che avessero  comportamenti bizzarri e testoni. Alcuni dei compagni di viaggio erano aggrappati alla loro gobba come se essa fosse la loro ultima speranza, i più disinvolti erano due ragazzetti, figli di una coppia italiana di Pisa, che gestiva un’agenzia di viaggi, erano della stessa età o  poco  più grandi delle giovani fanciulle Tuareg. In seguito avremmo sempre  incontrato ad ogni oasi fanciulli e fanciulle   festosi di accoglierci, darci il ben venuto  e prendersi cura dei cammelli. I  primi a venirci incontro erano loro, i fanciulli delle oasi!

Senza pretese

 Ci fermammo  dopo un paio d’ore in pieno deserto, i tuareg  accesero il fuoco e cucinarono il riso in una pentola nera e lo versarono in un unico grande piatto, si mangiava con le mani, il riso veniva preso dalla ciotola con la mano destra e posto nella mano concava della sinistra, non c’erano posate, dopo un po’ non ci si fece più caso; fu riscaldata in una padella piatta del msemen, tagliato poi in quadrati , il sapore era  delizioso; si beveva da una teiera, un tempo argentata, tè verde alla menta. Tutto si svolgeva in silenzio, si masticava piano,  molti guardavano con sospetto le vivande, anch’io  in silenzio, con un cielo.............


[1] Marrachkech era stata spesso ambientazione per grandi films: Marrakech Express.

.Il Tè nel Deserto.Le Crociate – Kingdom of Heaven.,L'uomo che Sapeva Troppo.,Il Gladiatore.,Last Minute Marocco,Un Treno per Marrakech,L'ultima Tentazione di Cristo.

[1]“ La città di Fez-scriveva lo scrittore Edmondo De Amicis nel 1876-si estende a forma di un  ottoimmenso tra due colline, sulle cui cime imperano i ruderi di due antiche fortezze quadrate, il fiume delle Perle divide  la città in due parti : Fez –Jedid (Fez la Nuova) , sulla riva sinistra e Fezel Ball(Fez la Vecchia), su quella destra. Una  cinta di vecchie mura a merletti e di grandi torri dall’oscuro colore di macerie , rotta in molti punti, stringe tutt’intorno la parte vecchia e quella nuova.Dalle altitudini si domina con la vista tutta la città: una miriade di case bianche coronate da tetti a terrazza ,sopra ai quali si elevano dei minareti lavorati in mosaico, palme gigantesche, torrette merlettate, piccole cupole verdi. A colpo d’occhio si indovina la grandezza della metropoli antica….” (da “Tutto il Maro 

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