Ho
conosciuto la poesia e una parte dell’opera di Carmen Moscariello
grazie alle segnalazioni prima di Virginio Gambone e quindi di Ugo
Piscopo, che hanno in vario modo sottolineato tanto l’impegno più
genericamente intellettuale della scrittrice tanto la sua produzione
più spiccatamente poetica. Docente di materie letterarie,
giornalista pubblicista, collaboratrice de “Il Tempo” da quasi
venti anni - per la prestigiosa testata ha scritto più di mille
articoli -, del TG 3 Lazio, di “Oggi e Domani”, di “Nord Sud”,
dell’“Avvenire”, è direttrice e fondatrice de “Il Levriero”,
mensile di politica e cultura, fondatrice e presidente del Premio di
Poesia “Tulliola”alla sua XXIedizione.
È
autrice, tra l’altro, di numerosi saggi dedicati alla poesia
tedesca dell’Ottocento, alla letteratura italiana e inglese del
Novecento: tra i suoi autori si segnalano Hemingway, Amelia
Rosselli, David Maria Turoldo, Pier Paolo Pasolini, Domenico Rea,
Attilio Bertolucci, Renato Filippelli, Cristina Campo, Ugo Piscopo,
Alda Merini. Inoltre, ha scritto e diretto pièces teatrali in versi,
tra cui “Proserpina, tre atti preceduti da un preludio” (Bastogi,
Foggia, 2003), prefazione di Aldo Carotenuto, “Eleonora dalle belle
mani. Dialogo segreto tra Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio.
Opera drammatica in tre atti”, Prefazione di Renato Filippelli,
Postfazione di Alessandro Petruccelli, Bastogi, Foggia, 2005,
“Giordano Bruno Sorgente di fuoco” Guida Editore, Napoli 2011,
prefazione di Aniello Montano, postfazione di Ugo Piscopo e Ninnj Di
Stefano Busà. Per le opere letterarie “Friedric Holderlin , tra
lirica e filosofia ”Lucarini-scuola, Roma 1988, prefazione di
Renato Filippelli; “Il presente della memoria”
Publiscoop-Edizioni scuola, Sessa Aurunca 1994 e “Il tempo
dell’infinito silenzio e lo spazio infinito dell’amore in Imzad e
Lettere a Natascha , Ripostes, Salerno 1989.
Come
poetessa si segnala in particolare per la raccolta “Gli occhi
frugano il vento” Bastogi, Foggia 1990 “Figlia della Luna”
(Formia, 1998), Non è tempo per il Messia, Guida Editore, Napoli
2012, prefazione di Ugo Piscopo, Introduzione di Ninnj Di Stefano
Busà, postfazione di Americo e Giuseppe Napolitano, cui sono seguite
pubblicazioni di componimenti in rivista. Molta di questa produzione
è comunque ancora inedita.
Per
la raccolta “Figlia della luna”Il senso è dunque del titolo, è
chiarito opportunamente dalla citazione leopardiana dell’incipit de
“La sera del dì di festa”, e dalla Prefazione, in cui Carmen
Moscariello scrive: “Non so se chi coniò per me l’ espressione
‘Figlia della Luna’ pensava alla bellezza dei versi del Leopardi
dedicati alla Luna, o se, piuttosto, la mia passione nel contemplare
il cielo e il mio sussurrare alla notte, l’abbiano convinto della
opportunità e assonanza (con la mia anima) di questo nome. Sta di
fatto che io me ne sono appropriata. (p. 7).
Tuttavia,
questo dialogo con la Luna, diversamente da quello leopardiano, “mi
comunica una sensazione di levità, di danza, di gioia nella notte e,
quando questo suono rivisita con l’amore il mio cuore, ecco che il
mistero mi prende per mano, ancora per insegnarmi nuovi percorsi,
nuovi versi lievi come i sospiri, leggeri come le lacrime”
(ibidem).
Una
identificazione, seppure soltanto parziale, con la “sua” eroina
Eleonora Duse può essere colta in questa frase: “La sua arte [i.
e., della Duse] si nutre dei colori lunari, di atmosfere grigioperla,
di silenzi, di amori, di incontri …” (da Introduzione
dell’Autrice,
in Eleonora
dalle belle mani, cit.,
p. 10).
La
scrittrice è, comunque, anch’essa una delle irpine della diaspora,
come i tanti intellettuali ospitati in queste pagine, e perciò una
parte di questi versi è rievocazione di un tempo e di un mondo
passati, della madre, dei luoghi, della Montella dell’infanzia, che
ha subito le trasformazioni degli anni e la ferita del terremoto. Una
donna con la nostalgia del suo mondo: “Non ho niente da dire in
questo autunno / Non sento il pianto delle foglie / né il tonfo
veloce delle castagne // Vellutato il profumo del riccio che si apre
/ al premere esperto del mio piede di donna // Non ho niente da dire
a questo autunno / solcato da rondini che sempre migrano chissà dove
// Le vedo sui vecchi fili della luce del mio paese / tutte in
attesa. Loro partono senza rimpianti, senza ricordi” (p. 35, con in
esergo “Montella, San Francesco 1990”). Questa terra
dell’infanzia è un luogo dove “Sedermi finalmente e posare
lontano il sacco della vita // Riscaldare gli occhi al focolare
antico / nella mano calda di mia madre // Nella vallata antica il
vento punta il suo cavallo” (p. 53).
La
raccolta è divisa in sei parti (“Anima di mare”, “Dafne e la
pioggia d’oro (Ovvero degli amici)”, “Figlia della Luna”, “I
giorni che ho atteso”, “Djerba”, “Remembre Samos”), che
raccontano alcune delle pulsioni principali dell’autrice, le sue
figlie, la loro vita, gli amici, i ricordi, le illusioni, le attese,
i viaggi, le scoperte, l’amore, le incertezze, i dubbi, il male, la
morte, la guerra, il confronto con la letteratura e il mito.
La
“Figlia della Luna” non ha dalla sua Madre certezze sulle grandi
questioni della vita, la poesia è riflessione, consolazione,
ricerca, passione e sentimenti, che sfuggono alla ragione o che non
aiutano a quadrare il cerchio, a indicare l’anello che non tiene. E
così, riecheggiando ancora Montale, alla figlia per i suoi diciotto
anni, scrive: “Non chiedermi, mia piccola Lara, dov’è il bene?
/ […] // Non chiedermi, Figlia, dov’è il bene. / So che lottai
per difenderti dal male // Io ti insegnai ad ascoltare la gioia dei
monti / e la stretta della mia mano ti sostenne davanti alla paura.
// Più non potrei, Lara, / ma un sorriso / tu ancora regalami” (da
“A Lara per i suoi diciotto anni”, p. 28).
I
giovani e il male che distrugge sono parte importante di questa
poesia (“Siamo anche noi responsabili delle stragi e delle guerre /
del mio alunno che muore divorato dalla droga”, p. 30); non a caso,
tra l’altro, anche la pièce “Eleonora dalle belle mani” è
dedicata “Ai miei passi nel sole: / le mie figlie, i miei alunni”.
Accanto
al fascino dell’infanzia e della terra d’origine è quello
provato per la Grecità, con toni che richiamano Quasimodo, Kavafis e
la letteratura neogreca del Novecento, ma anche la classicità,
Saffo, Apollonio Rodio, il mito degli Argonauti. La Grecia diviene
simbolo della vita umana, della stessa esistenza: “È una ferita il
canto del cuculo / (remembre Samos) // Qui lontano // Il cuore
raccoglie il pianto dell’ultimo sole // Settembre non chiede
carezze / solo questa pioggia che lava i pensieri / e brucia
sull’erba rasa” (p. 76).
Accanto
alla profondità intima, alla visione lieve ma anche dolorosa
dell’esistenza, alla ricerca del senso ultimo della vita, in questa
poesia colpisce la raffinatezza dello stile, la ricercatezza
linguistica, il gusto musicale della scansione anaforica di parole e
“iuncturae”, l’idea che la poesia, attraverso la parola, se non
dia Verità, almeno contribuisca a un “sentire” oltre
l’esistere, a propiziare il dialogo tra gli uomini, a evocare ciò
che non è più e a farcelo assaporare nel giusto modo, come parte
della nostra esistenza sebbene ormai passata.
La
magia di questa scrittrice è in tutto ciò.
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