domenica 24 giugno 2012

"Lo sguardo di Magnelli" - Giorgio Agnisola


di Giorgio Agnisola
Responsabile ufficio stampa Dott.ssa Giornalista Mary Attento


Quando Alberto Magnelli, uno dei riconosciuti protagonisti dell’Astratti- smo europeo, decise nel 1935 di passare definitivamente all’astrazione era già un artista maturo, aveva alle spalle un consolidato percorso artistico.
Era giunto alla cifra estratta attraverso un maturare lento, meditato, riflesso in diversi passaggi della ricerca e delle implicite tensioni interne. Invero, all’astrazione, per una breve stagione, quasi un’anticipazione del suo più conosciuto registro di stile, l’artista era già approdato nel 1915. Erano gli anni del primo aprirsi all’astrazione dei fondatori, da Wassily Kandinsky a Kazimir Malevicˇ, a Piet Mondrian. L’Astrat- tismo era il contraltare per certi versi del Cubismo, che pure in quegli anni, accanto alle ultime magie secessioniste e alle nuove istanze espressioniste, con Picasso e Bra- que aveva fatto il suo ingresso sulla scena artistica internazionale. Con l’astrazione, in particolare, l’arte si apriva allo spirito della forma, ambiva a diventare la forma dello spirito. Kandinsky fu il teorico dello spirituale nell’arte, Malevicˇ vedeva nella geometria un accesso simbolico e persino mistico all’invisibile. I pregressi sono noti. Tutto ciò che nel primo Novecento è stato definito avanguardia risiedeva già nelle ricerche impressioniste e postimpressioniste e soprattutto nella lezione cézanniana. In questo contesto Magnelli si orientò come un attento osservatore, senza perdere la sua identità, senza lasciarsi convincere da questa o quella sperimentazione. Nelle sue prime opere, quelle degli anni Dieci, testimonia con evidenza la sua inclinazione per una sintesi visiva in cui sensibilità e rigore possano coniugarsi in un unico tessuto espressivo : una sintesi compiuta fin dalla sua formazione.
Le opere esposte nella presente rassegna recuperano in un organico percorso tutti i passaggi dell’arte magnelliana. Costituiscono, anche relativamente alle tecniche e ai materiali adoperati dal maestro, una opportunità straordinaria di cogliere nella sua globalità il suo profilo artistico, al di là dei riferimenti linguistici coevi, nel profondo
di una storia personale. Se l’arte di Magnelli, infatti, approdò nell’alveo della ricerca astratta e questa è il principale distintivo del suo lavoro, in realtà la sua opera non può essere letta parzialmente. Anzi è proprio dall’analisi dell’intero percorso artistico che è pos- sibile comprendere le proprietà e l’originalità del suo linguaggio.
In effetti, per tutta la vita Magnelli ha coltivato nella memo- ria interiore lo sguardo dei viaggi giovanili nella sua terra, sulle tracce dei maestri del Trecento e Quattrocento toscano. Il suo spi- rito era attratto in particolare dalle opere di Piero della Francesca, di Masaccio, di Paolo Uccello, di Andrea del Castagno, da quel- l’aura che emana dall’equilibrio rigoroso delle forme : forme pie- namente visive, ma capaci di evocare l’invisibile. Ciò corrispondeva al suo sentire pacato, intenso, lucido, misurato. Magnelli era in particolare interessato all’articolazione formale ri- flessa nella visione d’assieme, in cui segno e colore contribuissero a un preciso obiettivo : rappresentare il miracolo visivo connesso con un ordine dello spazio interno. Questo era stato in fondo il
percorso privilegiato dei costruttivisti e in generale dei primi grandi dell’astrazione europea. Ma Magnelli seguiva una via autonoma. Se si osserva la sua arte astratta, nei suoi passaggi temporali, ci si rende conto del rigore dei suoi assetti estetici, ma anche della qualità della loro risonanza in termini emotivi e psichici. Una qualità particolarissima, che apparentemente non concede nulla alla espansione emotiva, che sembra rigidamente legata a un assetto formale, e che tuttavia è sempre forte- mente risonante, espressione di una interiore armonia. In realtà Magnelli è come se si ponesse sul punto di equilibrio tra interno ed esterno della forma e della visione, tra il dentro e il fuori. La sua articolazione dello spazio è preliminare. Lo stesso artista chiarisce nei suoi pensieri che dà un’importanza capitale al disegno, non come bozza, schizzo, ma come progetto. In realtà è come se prefigurasse l’opera, la leggesse nello spazio della mente, come una visione. Persino nelle Pierres degli anni ’31-’34, che paiono a primo sguardo articolate secondo un’architettura di posizioni relative e reciproche, si avverte che a ordinare gli “assetti esplosi” è una tensione interna e persino lirica, oltre che estetica.
Per converso, nelle opere del cosiddetto “Realismo immaginario” (1920-1931), come del resto in quelle della produzione successiva agli anni Trenta, si coglie una tensione visiva che sembra restare fuori, non penetrare la forma. Pure presuppo- nendo l’oltre, le rappresentazioni dell’artista sono in realtà quasi sempre giocate in uno spazio piano, raramente sono approfondite nelle masse, anche quando rico- struiscono contesti che paiono prospettici o esaltano la forma o la scansione dei
piani. È come se Magnelli rivestisse la materia, presupponendo un dentro senza violarlo. Una tale modalità compositiva deriva forse proprio da quella classicità coltivata nello sguardo negli anni
giovanili e che l’artista sente come riverbero di una perfezione e altresì di un mistero dell’esistenza che si percepisce al di là dello sguardo. Nel “Realismo immaginario” le figure non si muovono
in uno spazio, sono esse stesse spazio, fanno cioè parte di una architettura che le contiene. Ciò non esclude un loro assetto simbolico ed eventualmente un suggerimento psicologico, ma nell’insieme sono inseparabili dalla struttura dell’opera. I loro contorni sono della stessa tipologia di quelli degli elementi naturalistici eventualmente presenti nell’immagine; il colore riveste le figure con la stessa modalità con cui riveste il loro contesto. Si tratta, del resto, di figure pensose : gli sguardi in genere sono assorti, come bloccati in una fissità atemporale. Nella loro rappresentazione si sente la lezione metafisica, ma c’è anche qualcosa di diverso. C’è un equilibrio raro tra quel mondo misterioso, fissato nel tempo e oltre il tempo, e l’ambito visivo che lo contiene. Di fatto, quando l’artista innesta le figure nello spazio naturale (le opere raffigurano di solito esterni, con lo sfondo della sua terra toscana) non è una natura che l’artista rappresenta, ma un contesto astratto di essa, una sua proiezione nell’immaginario. 


Donna con ventaglio, 1917

Una foto di Magnelli riportata nel catalogo di una esposizione dedicata a “Les pierres” (1931-1935), promossa dalla galleria Sapone di Nizza, con una luminosa préface di Italo Calvino, ritrae l’artista ormai anziano. Lo sguardo è mite, lievemente introverso, con un’ombra di malinconia. Uno sguardo segnato come da una me- moria lontana e tuttavia attentissimo, lucido, inoltrato nel presente. Magnelli è qui, in quel suo leggere il mondo reale come in trasparenza, per coglierne quei fili sotti- lissimi, quelle rappresentazioni metaforiche che lo raccontano nell’equilibrio intimo e rigoroso della sensibilità e della immaginazione. Per certi versi la sua ricerca appare opposta a quella di Malevicˇ, ad esempio, che punta invece, decisamente, al supera- mento della realtà e alla sua ridefinizione in uno spazio ulteriore e simbolico. In Magnelli c’è come un continuum indecifrabile, tra mondo esterno e mondo interno, tra realtà e immaginazione Del resto l’artista toscano era pervenuto, come si è scritto, all’astrazione lungo un percorso lento e inevitabile di maturazione; d’anima prima che visiva. 

 
GLI ESORDI
Le opere degli anni dieci, quando l’artista era poco più che ventenne sono fondamentali per comprendere il suo cammino. Esse sono stilisticamente varie. Lo sono anche riguardo al soggetto e in qualche misura anche riguardo alla tecnica. Alcuni spunti sono postimpressionistici, soprattutto i primi, o evocano le ricerche vangoghiane e matissiane. Sono essenzialmente paesaggi, figure, nature morte. Talora si attestano su echi secessionistici o evocano un singolare sintetismo. Un’opera su tutte appare interessantissima. È un paesaggio di neve, con un gruppo di case raggiunte da un sentiero con staccionata. Il cielo è pressoché compatto, di un colore tendente al blu, appena ammorbidito da un leggero fioccare. La profondità è data non tanto dal gruppo delle case, rappresentate schematicamente nei loro volumi, quanto dal gioco delle diagonali che a ben guar-
dare formano una sorta di “s” che viene dal primo piano, nello spigolo sinistro, per perdersi in alto, all’incirca nello spigolo destro dell’opera. È questa spezzata a fungere da spazio prospettico. La spinta astrattiva è evidente, soprattutto se si osserva che lo sfondo è indifferenziato, campito con tinta uniforme, al di là della lieve polvere che conferisce all’immagine un’aura di irrealtà e restituisce un’implicita sensazione di distanza. Il villaggio è chiuso in un suo impenetrabile e misterioso silenzio. In quel mistero c’è tutta la forza di un confronto con l’osservatore che inevitabilmente vi si rapporta. Ma se l’opera appare assolutamente distante, altresì cattura lo sguardo, che metaforicamente si proietta verso un mondo ulteriore. Questo modello di rappresentazione dell’invisibile nelle forme astratte sarà con poche varianti il segno fondante di tutta l’arte di Magnelli. Un modello che, vedremo, sarà in fondo alla base della stessa arte figurativa del maestro, degli anni tra il 1920 e il 1930. 

Due personaggi, 1918

Ciò che balza all’occhio nell’opera appena letta è la struttura dell’immagine, che a ben guardare è sostanzialmente lineare. E’ difatti il disegno il presupposto fondamentale dell’opera, come ha puntualizzato Nathalie Vernizzi1 nel catalogo della mostra realizzata nel 2002 a Milano, presso la Galleria d’Arte Moderna. Un disegno che non è solo un preliminare, uno schizzo, ma un vero e proprio progetto. Magnelli delinea una forma con pochi cenni, precisando a se stesso le linee fondanti del suo lavoro. Definisce con la linea non tanto o almeno non solo le forme esteriori quanto le linee di tensione, l’articolazione dell’opera. Nel disegno indica con precisione i colori e li annota con rigore. Se ha un ripensamento non imbratta il foglio, semplicemente segna un frego sulla indicazione precedente e riscrive il colore. Insomma l’artista, pur dialogando con i suoi compagni di viaggio nella Firenze della “Voce” e di “Lacerba” (dove stringe amicizia con i maggiori intellettuali del tempo, da Soffici a Papini, a Palazzeschi), in realtà “segue già un percorso individuale e introspettivo”.  Tra il 1913 e il 1914 guarda più attentamente le novità del Cubismo e del Futurismo, le rielabora, senza assecondarle, secondo un personale registro di linee curve e spezzate che delimitano spazi fortemente cromatizzati. Il dettato visivo si schematizza fino alla pura descrizione di linee essenziali e di colori uniformi nella originale serie di sei opere che hanno per soggetto il Teatro Stenterello di Firenze. 

L’OPERA ASTRATTA DEL 1915
La prima fondamentale svolta dell’opera di Magnelli accade nel 1915. L’anno prima aveva accompagnato l’amico Palazzeschi nella capitale transalpina. Aveva avuto l’opportunità di frequentare i nomi maggiori delle nuove ricerche, da Picasso a Gris, a Matisse, a Léger, Braque, Delaunay, De Chirico. Aveva ritro- vato il vecchio amico Ardengo Soffici e avuto modo di mostrare alcuni disegni al vate Apollinaire, ricevendone un sicuro e incoraggiante apprezzamento. È l’equilibrio tra la linea curva e quella spezzata a costituire la trama dei suoi primi quadri astratti. Nelle opere già si legge quella sottile tensione all’armonia dell’insieme, al rigore compositivo, alla felicità dello sguardo, che saranno sue per tutta la vita. Se tali opere paiono riecheggiare alcuni transiti delle ricerche dei Delaunay e assorbono di fatto quanto di più vivo era nell’aria nella Parigi di inizio secolo, in realtà costituiscono un innesto singolare e già originale nel suo particolarissimo sentire.
Magnelli elabora una geometria dello spazio a larghe campiture, in cui la complessità dei piani più e meno prospettici è determinata dal colore più che dal segno. Resta tuttavia sullo sfondo, come un’allusione, la percezione della figura. Un’allu- sione che verrà poi recuperata più nettamente in opere successive, degli anni ‘17 e ’18, in cui la geometrizzazione dello spazio diventerà più simbolica. E tuttavia l’avventura astratta è iniziata, per vie sotterranee farà inesorabilmente il suo cammino. 
La contadina, 1914

 
LE “ESPLOSIONI LIRICHE”
La lezione cubista sembra evidente nelle “Esplosioni liriche” (1918-1919) in cui la scansione della forma costituisce la trama prospettica di un’immagine caratterizzata da un forte chiaroscuro di segno pittorico. L’opera è connotata non tanto dall’articolazione del segno nel suo assetto geometrizzato, quanto da quei tratti di colore che ne sono parte consustanziale. Ed è proprio questa caratteristica ad allontanare di fatto l’artista dalla lezione cubista. In qualche modo le “esplosioni” appaiono a metà via tra Cubismo e Futurismo, segnate da una vena espressionistica che si blocca sulla soglia di una memoria cézanniana. Non solo, ma la tensione non è determinata dal ritaglio della forma, ma da un tratto cromatico che diventa formale e altresì segnico, al punto che l’immagine eventualmente allusiva di una figura si perde nel generale disegno dell’opera, sfiorando talora la pura rappresentazione astratta. Nonostante le “esplosioni” le forme conservano tuttavia equilibrio e simmetria. La ricerca cioè non si applica alla frammentazione dell’immagine ma alla sua ricomposizione. 
La donna luce, 1929


IL “REALISMO IMMAGINARIO”
Non è esattamente vero, come è stato talora scritto, che a Magnelli non sia importato consegnare nei suoi lavori una personale visione del mondo e che il suo unico obiettivo fosse il risultato formale dell’opera3. Né che l’artista abbia assoluta- mente anteposto il risultato formale al contenuto espressivo dell’opera. Senza dubbio la produzione degli anni Venti si innesta in quella vasta temperie culturale segnata dal “ritorno all’ordine”, teorizzata da “Valori Plastici” ed espressa poi nell’arte figu- rativa, sia pure disordinatamente, da “Novecento”. A cui Magnelli aderisce più mentalmente che di fatto. D’altra parte numerosi erano gli amici che di quel movimento erano parte attiva. Come si era tenuto ai margini del Futurismo pur assorbendone i segni innovatori, filtrandoli con la sua sensibilità, così egli si adegua a quella cor- rente reazionaria che rappresentava il ritorno al primitivismo e alla pittura italiana della tradizione, in particolare dell’arte tre-quattrocentesca. A cui del resto Magnelli aderiva per naturale vocazione.
L’analisi attenta delle opere del maestro di questi anni fornisce informazioni preziose sul suo lavoro. La ricerca di un equilibrio formale e compositivo, il ricorso a cromatismi attenuati, morbidi e sfumati – più una indicazione di colore che un rivestimento – sono evidenti. Ma il tono dell’immagine è differente da quello dei compagni di viaggio. Se, infatti, l’artista dimostra una adesione forse inconscia al sentire metafisico, di cui rinnova il clima teso, tramato di silenzio e di pensosità, di enigmatica attesa, nelle sue opere non c’è alcuno sconfinamento nell’immaginario e nel mito, come accade ad esempio in tante tele dechirichiane, o nel simbolico e nell’onirico come in quelle di Savinio.
Qui tutto resta all’interno di una paesaggio sostanzialmente familiare, quello della sua terra toscana, della sua gente. Il segno distintivo di Magnelli è anzi proprio in quel suo tenersi sul confine, sul limite del mistero senza volerlo penetrare, anzi preservandolo, lasciandolo come orizzonte sospeso e indeci- frato. Magnelli di fatto non è enigmatico, né drammatico, né misterioso. Egli coniuga il suo avvertimento pensoso della realtà con un principio compositivo, con un’articolazione delle forme nello spazio. D’altra parte nelle figure l’artista è frequentemente teso a cogliere nella struttura dell’opera un riflesso che potrebbe dirsi simbolico. Alla verifica, il periodo realistico può dividersi in due momenti, un primo che può individuarsi tra il 1920 e il 1923, caratterizzato da un cromatismo dolce, luminoso, poco contrastato e intimistico. L’artista riproduce ambienti della sua terra : paesaggi e borghi e figure di contadini e braccianti, anche senza una precisa connotazione. In seguito, a partire dal 1924, le figure si fanno più piene e più caratterizzate, vengono innestate in un contesto maggiormente simbolico, i colori si fanno più accesi. La temperie metafisica sembra ancora il segno spirituale di riferimento. Ma non è precisamente lo straniamento che l’artista rincorre, quanto una struttura compositiva in cui, come si è scritto, l’assetto pensoso delle figure è parte di un’architettura metaforica più ampia, che allude ad un equilibrio che da visivo si fa espressivo. In questo contesto assumono un rilievo particolare i paesaggi dei primi anni Venti e i
Velieri dell’ultimo periodo, che aprono a “improbabili scenari portuali di gusto metafisico”4 ricorrendo a soluzioni stilistiche che per la assoluta geometrizzazione delle forme già annunciano la svolta astratta. 
Natura morta con fruttiera, 1914


LE “PIERRES”
Le Pierres (1931-1935) costituiscono indubbiamente lo snodo tra il “Realismo immaginario” e la pura astrazione. Del realismo conservano l’evidenza formale in senso volumetrico e spaziale e la tensione descrittiva, dell’astrazione anticipano l’articolazione compositiva. E tuttavia quello delle Pierres rappresenta un capitolo autonomo e fondante nell’arte del maestro fiorentino. La scelta delle pietre, se per un verso deriva dal legame con la sua terra, con le cave carraresi in particolare, per l’altro recupera l’attenzione all’objet inaugurata dagli stessi astrattisti, da Léger che aveva conosciuto fin dai suoi primi soggiorni parigini e in parte dai dadaisti. Un oggetto che per Magnelli ha tuttavia un significato affatto differente. Non è d’altra parte estraneo agli sviluppi compositivi delle “pierres éclatées” e soprattutto alla articolazione spaziale delle forme, il cubismo, con la sua suggestione di uno spazio multiplo, con la vista simul- tanea dei vari assetti prospettici della forma. Ma per Magnelli le Pierres hanno volume ma non pare avere peso, non sembrano “esplose”, anzi risultano come bloccate nello spazio, uno spazio in genere indecifrato. Ogni pietra non è di fatto parte del tutto, anche se il suo assetto farebbe pensare ad una frammentazione a partire da un pietra più grande5. L’idea di unità è piuttosto nell’articolazione delle forme, nella loro posi- zione nello spazio, nel loro peso cromatico e infine nel generale equilibrio visivo. In questo senso le Pierres sono già astrazione. E tuttavia la loro connotazione è ancora realistica nel multiplo taglio delle facce, nella definizione di spigoli e incavi, nei loro chiaroscuri e nei loro cromatismi. Un realismo incline talora ad un simbolismo di forme vagamente allusive a spazi mitici, a linguaggi cifrati, cui talora sono annessi, singolarmente, elementi più propri del mondo dell’ edilizia, come sagome di mattoni, ispirandosi dichiaratamente al tema delle costruzioni o più esattamente delle deco- struzioni della forme edificate. Non si tratta comunque di decostruzioni in senso demolitivo, ma di smontaggi pensati per un nuovo equilibrio, a partire da quello perduto. In questo senso una vaga consonanza con i principi del Dadaismo e alla sua logica del recupero, nelle Pierres di Magnelli esiste. Ma è soprattutto il rigore compositivo delle forme nell’equilibrio della visione a contraddistinguere le Pierres, che sono disposte nello spazio senza alcuna prospettiva. Ciascun frammento ha una sua collocazione sghemba, in genere, rispetto a quella degli altri frammenti. E tuttavia l’insieme è come fissato in una suprema armonia. Le pietre sono immerse in una silenziosa essenza, peraltro non di rado ludica, gioiosa, come se navigassero leggere in uno spazio altro. Anche il fondo indistinto sottolinea questa sensazione di atemporalità, di indefinito spaziale. I giochi cromatici sono fondamentali, non solo in senso descrittivo, ma anche estetico-visivo, concorrono a ricreare quella dimensione di equilibrio e di ar- monia delle parti, pure frammentate e differenti tra loro. L’allusione alla pietra restituisce infine alla composizione un senso di potenza, di energia, di solidità primigenia, archetipica. Solo nell’ultimo periodo, nel 1935, l’artista sembra aprirsi a una surrealità che in qualche modo, singolarmente, pare recuperare certa suggestione emozionale del Realismo im- maginario. Ma siamo alle soglie della pura astrazione. 

L’ASTRAZIONE
L’astrazione per Magnelli inizia dal disegno. È lo stesso artista a testimoniarlo : “La mia pittura non comporta segreti. Procedo nella maniera più semplice e sicura. Prima faccio una quantità di disegni sui quali vario via via le forme che mi sono utili. È sul disegno prescelto che comincio a studiare e a collocare “mentalmente” i colori; l’uno richiede l’altro e così di seguito arrivo a “vedere” sul disegno quella che sarà poi la tela. Bisogna studiare la quantità di ogni colore che occorre per essere utile agli altri. Bisogna in particolar modo essere sicuri di ogni pieno come di ogni vuoto, cioè saper riempire ogni spazio in maniera densa. Non faccio mai bozzetti”6. Le parole dell’artista introducono al suo sentire l’astra- zione, che egli chiama “invenzione”. A proposito di “astrazione” l’artista scrive: “Non è un termine felice. Quando feci a Firenze nel 1915 le mie prime tele “inventate” era da questo che intendevo procedere... L’arte se è veramente tale non è per niente astratta. Ogni cosa è al tempo stesso astratta e concreta”. Magnelli vuole spiegare che le sue costruzioni astratte nascono da un’idea, da un progetto, provato e riprovato, teso alla ricerca di un equilibrio visivo e compositivo che rifletta una emozione interna, intuitiva prima d’essere visiva. Il colore stesso, per quanto successivo all’idea, non è un riempitivo dell’immagine, ma un vigilato complemento di pesi visivi e di contenuti psichici ed emozionali, che egli distribuisce con cura, che assegna per così dire alla forma in relazione all’insieme e al senso dell’insieme. Anche l’uso della parola “invenzione”, da parte del maestro, è indicativa. Il suo lavoro non è astrazione nel senso di semplice delocalizzazione dell’idea nell’immaginario, ma intuizione che rielabora la realtà e in qualche modo la ridefinisce. L’invenzione presuppone una ricerca e infine una scoperta. L’opera è cioè un “miracolo” atteso, non è solo incanto, ma anche nettezza di toni e di forme, di assetti lineari, di moduli visivi, di strutture. Si comprende bene come in realtà in tutto il percorso di Magnelli vi sia stata sempre una estrema coerenza. Durante il suo cammino, pure nella variabilità delle ricerche, l’artista non ha mai perduto quella lucidità fondata tanto nella progettualità che nell’avvertimento intimo di una fondamentale e misteriosa armonia.
Quanto agli schemi e alle soluzioni visive, è frequentemente leggibile nell’arte astratta magnelliana una sintesi di linee curve e linee spezzate e di staticità e movimento. Il colore costituisce in genere un perfezionamento di questa sintesi e non un elemento di rottura. Lo spazio raramente è approfondito, quasi sempre le forme sono distribuite in superficie o entro uno spessore dello spazio ristretto. La linea e i suoi sviluppi, sia semplici che articolati, formalmente sono i motivi essenziali delle sue strutture. Di rado nel con- testo astratto l’artista ricorre a sfumati e alla pittura. Quando lo fa è per amplificare un motivo, magari sottolineato dal titolo. Anne Maisonnier nel suo catalogo ragionato della produzione del maestro7, ha elaborato una ricognizione schematica dell’opera astratta di Ma- gnelli inerente ai diversi periodi della sua attività. In particolare per quella compresa tra il 1935 e il 1949 ha individuato alcune leggi di composizione : il quadro o qua- drato come struttura fondante dell’opera; il disegno, utilizzato come mezzo unificatore dello spazio, che eredita in qualche misura la funzione del contorno; il modulo, come elemento base di una ripetizione più o meno diversificata e articolata di forme; la forma unica e omogenea, struttura centrata su di un unico assetto compatto di ele- menti in genere chiusi e la Opposizione di forme e di gruppi di forme, quasi sempre contrapposti anche in relazione alla tipologia del segno. A partire dal 1950 compa- iono nell’universo astratto di Magnelli sagome modulari, come blocchi con due ma- niglie, calamite, sorta di tenaglie e di uncini, che l’artista reitera all’interno del piano visivo anche in formazione contrapposta e addensata, creando intensi e dinamici giochi di masse. Negli anni Sessanta sopraggiungono le grandi strutture monumentali che variamente segneranno l’ultimo periodo della produzione magnelliana. Va altresì sottolineata l’applicazione del maestro a varie tecniche, da quelle convenzio- nali alla linoleumgrafia, all’arazzo, al collage. Per quest’ultimo Magnelli utilizza i materiali più disparati, come carte di varia natura e provenienza. Anche i supporti adoperati dal maestro sono interessanti. Per qualche tempo, ad esempio, l’artista lavorerà lamiere e utilizzerà piccole lastre di ardesia.
L’arte astratta di Magnelli, si è scritto, ha una pronuncia autonoma nel quadro della ricerca europea; non possiede il timbro “affabulante” dell’arte kandinskiana e neppure il simbolismo mistico-matematico di molta arte costruttivista. La sua pronuncia resta fiorentina e mediterranea, calda, comunicativa, segnata da un estremo rigore compositivo, capace di forti risonanze interne, di intense vibrazioni emozionali e psicologiche. Nel variabilissimo assetto tipologico, l’artista conserva quel legame con la sua terra di origine e con la cultura classica, in cui forma e spirito sono coniugati in un unico soave e razionale tratto simbolico e trascendente. Il termine “trascendente” può apparire improprio per un’arte come quella di Magnelli, ma non è così. La sua astrazione era in fondo una sorta di sublimazione espressiva. L’artista non era pervenuto all’arte astratta per un intuito linguistico. La sua scelta era stata una meditata sintesi di un percorso maturato nella progressiva essenzialità del linguaggio, come una purificazione, in cui il segno aveva valore per sé ed era al tempo stesso portatore di una segreta forza vitale, di una armonia. A Magnelli non ha mai molto interessato il segno, anche quello lineare, come pura ed esclusiva definizione di un contorno; era la linea in sé ad essere forma, cioè senso, ragion d’essere. L’architettura per Magnelli era mistero, miracolo, struttura poetica. Così si legge la sua arte astratta, come spazio investigativo dell’essere, come luogo profondo del sentire. In questa ottica si legge la sua stessa ricerca di perfezione estetica, di sguardo definitivo. Ecco perché l’artista sostiene che l’astrazione in realtà non esiste. A leggerla visivamente nella sua opera ricorrono moduli, forme, che richiamano sagome del periodo figurativo, suggestioni della sua formazione giovanile (come in Ordered Tempest, del 1967, opera che sembra assolutamente ispirata da Paolo Uccello). L’arte astratta di Magnelli è stata l’esito di un processo di spiritua- lizzazione, di trasmigrazione in un altro spazio immaginativo, in cui segno e colore sono la sintesi estrema di una visione che si è liberata di un contesto realistico, ma che è rimasta narrativa, di sé innanzitutto, da parte dell’artista, e della sua esistenza. Anche per questo l’astrazione di Magnelli è prensile, anche nelle sue espressioni più “ottiche”, magnetica, coinvolgente.
Una notevole spinta verso la sintesi espressiva derivò al maestro dalla conoscenza dell’arte africana, di cui fu un grande collezionista, così intensa nella capacità di comunicare una tensione interna e misteriosa riflessa nella sintesi tipologica degli sguardi e al tempo stesso così scandita nel ritmo di volumi semplici e articolati se- condo essenziali moduli compositivi. Magnelli amava la scultura africana al punto da portare con sé le sue opere più significative nella sua casa di campagna, a Grasse. Dell’arte nera in particolare ammirava le modalità di esecuzione, che egli sapeva essere affidate a tempi lunghi e ad una progressiva sedimentazione dell’idea. Ciò corrispondeva al suo modo di sentire l’arte, che non era affidata al semplice gettito intuitivo, ma prevedeva una lenta gestazione, segnata da successive intuizioni e dunque da una pregnanza semantica intrecciata con la vita.
Una vita vissuta con grande dignità, rigorosamente, con riserbo, nonostante la sua capacità di instaurare con serenità rapporti di amicizia e di tenerli saldi nel tempo. Pur vivendo in Francia quasi quarant’anni, abbandonando definitivamente il suo paese natale, in realtà Magnelli rimase sempre italiano. Lo rimase nell’anima, tanto da volere che sulla sua tomba venisse scritto : “Alberto Magnelli, pittore forentino”. 


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