Siamo qui anche per parlare
della poesia di Renato Filippelli. Questa nostra pubblicazione,
Elzeviri
come occasioni critiche,
(curata da Mario Rizzi) è una sorta di tributo e di ricordo di
quanti gli furono vicini e lo frequentarono in modi e tempi diversi.
Perciò è anche un’occasione per ritornare, da parte mia, per un
verso, alla penultima sua pubblicazione, Dai
fatti alle parole,
per il quale testo leggerò una mia lettera inviatagli da Lille, per
l’altro, soffermarmi, come pure avevo promesso a Fiammetta in
agosto, su una lirica particolare (Monito
a potenziali assassini)
(a pag. 42 della pubblicazione postuma Spiritualità,
a cura di Fiammetta, Guida editore).
Per l’analisi della
poesia Monito
a potenziali assassini,
iniziamo dal titolo della lirica:
Monito:
dal latino monitus,
dal latino monere,
nel senso di far riflettere o pensare , ovvero anche avvisare,
esortare, che conserva anche il valore autorevole dell’ammonimento,
in quanto il poeta che ammonisce possiede anche l’autorità per
farlo, perché egli è seguace delle Muse, se ne sente investito,
l’altro – un potenziale
assassino
- non è seguace che della dea malvagità, dell’invidia, cui ha
offerto o svenduto l’anima. Quindi, avvertimento
severo,
solenne,
di importanza inequivocabile:
che
queste mie parole ti siano di
monito.
Quasi all’incipit
il poeta ammonisce che, fin quando la morte non sopraggiungerà,
nessuno potrà privarlo del bene prezioso della poesia, a meno che
quegli non ne recida il fiore, nel senso che ne decapiti o distrugga
quanto da lui creato. Vediamo più in particolare: l’ospite
in gramaglie:
gramaglia
da gramo, ovvero mesto; il termine deriva dallo spagnolo gramalla
(veste lunga, simile ad una toga, (in particolare in uso in Aragona).
In Italia il lemma si riscontra verso il XVI sec.) Quindi, è una
veste di color nero indossata in occasione di un lutto. Ben si
comprende che in un contesto sacro il poeta abbia utilizzato
un’espressione colta. Per meglio definire gramaglie
va chiarito che esse sono anche drappi funebri usati per addobbare
catafalchi e/o chiese. Quindi, essere in
gramaglie
significa essere in lutto e gramaglia
(al singolare) significa anche dolore, tristezza. Nel verso di Renato
traslare la morte in ospite
in gramaglie
ha un forte valore catacretico, proprio perché il lemma ospite
(che nella tradizione classica è sacro) suggerisce un che di aulico,
di nobile, di dignitoso. Che poi proprio l’ospite
sia in
gramaglie,
può avere significato ambivalente, ovvero egli stesso in lutto, ma
anche che porta agli altri il dolore del lutto, quindi una
testimonianza di perdita, di sottrazione, infatti quell’ospite non
sottrarrà soltanto i suoi ultimi battiti, ma lo priverà dei suoi
cari.
La morte (l’ospite
in gramaglie)
– certo – busserà al suo cuore, nel senso che colpirà per
l’ultima volta il punto nevralgico della vita, quel cuore che ha
reso, negli ultimi anni, il poeta ancora più pensoso sul senso
dell’esistenza e dell’ineluttabilità degli affetti.
Il dolore più intenso per
lui non sarà quello di perdersi nell’eterno, ma perdere i suoi
cari, non vederli più, come dirà nella poesia L’ultimo
pianto.
Insistiamo sull’espressione
recidere
il fiore:
come la morte falcia la nostra vita, così il potenziale assassino
della sua poesia ne dovrà recidere il frutto più importante,
appunto la vena poetica.
L’ospite
in gramaglie
sta al cuore
del poeta come il potenziale
assassino sta
al fiore
della poesia.
Ma dov’è la differenza interna, semantica dei termini di paragone?
L’uno, la morte, è un ospite
ineluttabile,
inconfutabile, inestinguibile per l’intera umanità, fa parte dello
statuto della vita stessa, è insomma fissato ab
aeteno, è
connaturato nello spazio e nel tempo del percorso diacronico
individuale; l’altro è potenziale,
è uno sgherro astuto,
ma dilaniato dall’invidia, dall’ossessione dell’altro migliore
rispetto a sé, uccide,
per menomare altri di un patrimonio di idee o di bellezza. È sì una
sorta di omicida
potenziale,
ma la sua
mano non
è visibile o può essere eterodiretta.
Il
Poeta, nel libero gioco della sua fantasia, ha uno scatto improvviso,
pregnante di pietas,
definisce questo potenziale
assassino
(di fatto implementando l’iniziale lemma del titolo) come creatura,
ma
astuta, che per l’atto di uccidere (cioè annientarmi)
recide
il fiore della poesia,
cioè può annientarlo con l’esclusione, con il silenzio,
l’omissione. Quindi, per l’assassino della poesia, che può agire
da solo o in compagnia, essendosi
svenduta l’anima alla dea malvagità,
la sua astuzia, per quanto sia sottile, avrà vita difficile, ammesso
che decida di compiere il suo gesto, in quanto, malgrado questo
timore, il poeta è cosciente dell’intangibilità del suo canto,
perché proprio la
natura
(che pure ha fissato per tutti noi ab
aeterno
il puntuale sopraggiungere - bussare
al cuore
- dell’ospite
in gramaglie)
concede agli uomini dei doni: a chi la genialità del diritto, della
fisica, della matematica, della filosofia, a chi, invece, il
privilegio unico della poesia. Anzi, il dono è soltanto un seme
(lemma
di forte ascendenza biblica). E qui vorrei richiamarne, sia il
profondo valore simbolico, sia il nesso logico che il poeta sembra –
per vie interne – suggerirci:
la natura
– che pur è
generosa
– non
dona che per semi,
ciascuno poi – a seconda dei propri meriti – può disporne. Per
lui, in quanto poeta consapevole, la
natura fu generosa,
perché quel dono fu fecondo – per sua capacità e volontà - di
risultati. Scorgo all’interno del percorso ideale di Renato una
sorta di serrata valutazione della natura che è giusta dispensiera a
seconda delle qualità delle singole intelligenze, ecco perché,
secondo me, l’astuto assassino dovrà fare i conti con la sua
poesia, che non sarà facilmente obliata.
I
lemmi offerta
o svenduta l’anima
vanno ulteriormente approfonditi. Fermiamoci sul primo termine,
offrire:
qui l’assassino compie un atto sacro, ma diabolico, perché non
offre
per
un beneficio, ma per un maleficio, la divinità non è quella del
bene e della prosperità, bensì della malvagità, ovvero del male.
In questa valutazione il tempo scompare: non c’è più un prima o
un dopo Cristo, si è di fronte ai due corni dell’esistenza: o
dalla parte del bene o dalla parte del male. Ma perché l’omicida
dovrebbe offrire
alla divinità del male il fiore
generoso
che la
natura (divinità
positiva) concesse
al
poeta? Quale il valore dell’azione maligna?
Per
il fatto stesso, secondo noi, che la pochezza, la miseria, la
microcefalia di potenziali assassini - e si sottolinea il valore
indefinito della preposizione a
(potenziali assassini)
- non si nutrono di sole, di luce, dello splendore dei fiori, della
salvifica leggerezza della fantasia. Essi sono corrosi dalla loro
stessa malvagità-invidia, tentano di spegnere, di annientare,
appunto, la luminosità affabulatoria del suo canto, ma tutto sarà
vano, perché quel dono – la poesia - è intangibile e
irraggiungibile. E il poeta giunge persino a ipotizzare, (supposto
che l’offerta
possa essere gratuita), anche la svendita
del’anima per questa azione delittuosa. Questo termine svendere
quasi ci richiama un mercimonio tra il dare e l’avere: il dare è
rinunciare alla magnificenza della purezza di se stessi, dei
sentimenti di riconoscenza per l’altro, che ha saputo cogliere i
semi
della natura
e li ha fatti germogliare per se stesso, per i suoi cari e per la
collettività. Perché allora svendere
l’anima?
Per averne che cosa? Nient’altro che la delegittimazione
dell’altro, il suo annichilimento (che ci richiama l’iniziale
annientarmi).
Il poeta è conscio che anche con la complicità della dea
malvagità,
la natura
generosa
non potrà essere né calpestata né obliata, perché è il destino
stesso del seme
donato della poesia che, quando vibra di eternità, sa farsi scudo
anche nei confronti di potenziali
assassini.
Secondo me, e non so se ne avrò conferma dalla figlia Fiammetta,
attenta e scrupolosa custode dell’itinerario poetico e critico
paterno, questa lirica fa da pendant
(anche sul piano temporale di composizione) con la successiva
L’ultimo
pianto,
ove il verso conclusivo il
pensiero/ di perdervi, di non vedervi più,
rivolto ai suoi cari, ha un valore impastato di fisicità, ma ha, pur
nel suo accento drammatico, qualcosa di positivo, perché il suo
annientamento è solo materiale, perché egli continuerà a
ri-vederli con la sua poesia. Perciò, e concludo, se è impossibile
anche a potenziali assassini recidere
il fiore della poesia
è anche vero che grazie alla poesia egli potrà continuare a vivere
e in qualche modo continuare ad essere tra i suoi. Tra di noi.
Michele
Graziosetto
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