domenica 1 dicembre 2013

Michele Graziosetto sulla poesia di Renato Filippelli


Siamo qui anche per parlare della poesia di Renato Filippelli. Questa nostra pubblicazione, Elzeviri come occasioni critiche, (curata da Mario Rizzi) è una sorta di tributo e di ricordo di quanti gli furono vicini e lo frequentarono in modi e tempi diversi. Perciò è anche un’occasione per ritornare, da parte mia, per un verso, alla penultima sua pubblicazione, Dai fatti alle parole, per il quale testo leggerò una mia lettera inviatagli da Lille, per l’altro, soffermarmi, come pure avevo promesso a Fiammetta in agosto, su una lirica particolare (Monito a potenziali assassini) (a pag. 42 della pubblicazione postuma Spiritualità, a cura di Fiammetta, Guida editore).
Per l’analisi della poesia Monito a potenziali assassini, iniziamo dal titolo della lirica:
Monito: dal latino monitus, dal latino monere, nel senso di far riflettere o pensare , ovvero anche avvisare, esortare, che conserva anche il valore autorevole dell’ammonimento, in quanto il poeta che ammonisce possiede anche l’autorità per farlo, perché egli è seguace delle Muse, se ne sente investito, l’altro – un potenziale assassino - non è seguace che della dea malvagità, dell’invidia, cui ha offerto o svenduto l’anima. Quindi, avvertimento severo, solenne, di importanza inequivocabile: che queste mie parole ti siano di monito.
Quasi all’incipit il poeta ammonisce che, fin quando la morte non sopraggiungerà, nessuno potrà privarlo del bene prezioso della poesia, a meno che quegli non ne recida il fiore, nel senso che ne decapiti o distrugga quanto da lui creato. Vediamo più in particolare: l’ospite in gramaglie: gramaglia da gramo, ovvero mesto; il termine deriva dallo spagnolo gramalla (veste lunga, simile ad una toga, (in particolare in uso in Aragona). In Italia il lemma si riscontra verso il XVI sec.) Quindi, è una veste di color nero indossata in occasione di un lutto. Ben si comprende che in un contesto sacro il poeta abbia utilizzato un’espressione colta. Per meglio definire gramaglie va chiarito che esse sono anche drappi funebri usati per addobbare catafalchi e/o chiese. Quindi, essere in gramaglie significa essere in lutto e gramaglia (al singolare) significa anche dolore, tristezza. Nel verso di Renato traslare la morte in ospite in gramaglie ha un forte valore catacretico, proprio perché il lemma ospite (che nella tradizione classica è sacro) suggerisce un che di aulico, di nobile, di dignitoso. Che poi proprio l’ospite sia in gramaglie, può avere significato ambivalente, ovvero egli stesso in lutto, ma anche che porta agli altri il dolore del lutto, quindi una testimonianza di perdita, di sottrazione, infatti quell’ospite non sottrarrà soltanto i suoi ultimi battiti, ma lo priverà dei suoi cari.
La morte (l’ospite in gramaglie) – certo – busserà al suo cuore, nel senso che colpirà per l’ultima volta il punto nevralgico della vita, quel cuore che ha reso, negli ultimi anni, il poeta ancora più pensoso sul senso dell’esistenza e dell’ineluttabilità degli affetti.
Il dolore più intenso per lui non sarà quello di perdersi nell’eterno, ma perdere i suoi cari, non vederli più, come dirà nella poesia L’ultimo pianto.
Insistiamo sull’espressione recidere il fiore: come la morte falcia la nostra vita, così il potenziale assassino della sua poesia ne dovrà recidere il frutto più importante, appunto la vena poetica.
L’ospite in gramaglie sta al cuore del poeta come il potenziale assassino sta al fiore della poesia. Ma dov’è la differenza interna, semantica dei termini di paragone? L’uno, la morte, è un ospite ineluttabile, inconfutabile, inestinguibile per l’intera umanità, fa parte dello statuto della vita stessa, è insomma fissato ab aeteno, è connaturato nello spazio e nel tempo del percorso diacronico individuale; l’altro è potenziale, è uno sgherro astuto, ma dilaniato dall’invidia, dall’ossessione dell’altro migliore rispetto a sé, uccide, per menomare altri di un patrimonio di idee o di bellezza. È sì una sorta di omicida potenziale, ma la sua mano non è visibile o può essere eterodiretta.
Il Poeta, nel libero gioco della sua fantasia, ha uno scatto improvviso, pregnante di pietas, definisce questo potenziale assassino (di fatto implementando l’iniziale lemma del titolo) come creatura, ma astuta, che per l’atto di uccidere (cioè annientarmi) recide il fiore della poesia, cioè può annientarlo con l’esclusione, con il silenzio, l’omissione. Quindi, per l’assassino della poesia, che può agire da solo o in compagnia, essendosi svenduta l’anima alla dea malvagità, la sua astuzia, per quanto sia sottile, avrà vita difficile, ammesso che decida di compiere il suo gesto, in quanto, malgrado questo timore, il poeta è cosciente dell’intangibilità del suo canto, perché proprio la natura (che pure ha fissato per tutti noi ab aeterno il puntuale sopraggiungere - bussare al cuore - dell’ospite in gramaglie) concede agli uomini dei doni: a chi la genialità del diritto, della fisica, della matematica, della filosofia, a chi, invece, il privilegio unico della poesia. Anzi, il dono è soltanto un seme (lemma di forte ascendenza biblica). E qui vorrei richiamarne, sia il profondo valore simbolico, sia il nesso logico che il poeta sembra – per vie interne – suggerirci: la natura – che pur è generosanon dona che per semi, ciascuno poi – a seconda dei propri meriti – può disporne. Per lui, in quanto poeta consapevole, la natura fu generosa, perché quel dono fu fecondo – per sua capacità e volontà - di risultati. Scorgo all’interno del percorso ideale di Renato una sorta di serrata valutazione della natura che è giusta dispensiera a seconda delle qualità delle singole intelligenze, ecco perché, secondo me, l’astuto assassino dovrà fare i conti con la sua poesia, che non sarà facilmente obliata.
I lemmi offerta o svenduta l’anima vanno ulteriormente approfonditi. Fermiamoci sul primo termine, offrire: qui l’assassino compie un atto sacro, ma diabolico, perché non offre per un beneficio, ma per un maleficio, la divinità non è quella del bene e della prosperità, bensì della malvagità, ovvero del male. In questa valutazione il tempo scompare: non c’è più un prima o un dopo Cristo, si è di fronte ai due corni dell’esistenza: o dalla parte del bene o dalla parte del male. Ma perché l’omicida dovrebbe offrire alla divinità del male il fiore generoso che la natura (divinità positiva) concesse al poeta? Quale il valore dell’azione maligna?
Per il fatto stesso, secondo noi, che la pochezza, la miseria, la microcefalia di potenziali assassini - e si sottolinea il valore indefinito della preposizione a (potenziali assassini) - non si nutrono di sole, di luce, dello splendore dei fiori, della salvifica leggerezza della fantasia. Essi sono corrosi dalla loro stessa malvagità-invidia, tentano di spegnere, di annientare, appunto, la luminosità affabulatoria del suo canto, ma tutto sarà vano, perché quel dono – la poesia - è intangibile e irraggiungibile. E il poeta giunge persino a ipotizzare, (supposto che l’offerta possa essere gratuita), anche la svendita del’anima per questa azione delittuosa. Questo termine svendere quasi ci richiama un mercimonio tra il dare e l’avere: il dare è rinunciare alla magnificenza della purezza di se stessi, dei sentimenti di riconoscenza per l’altro, che ha saputo cogliere i semi della natura e li ha fatti germogliare per se stesso, per i suoi cari e per la collettività. Perché allora svendere l’anima? Per averne che cosa? Nient’altro che la delegittimazione dell’altro, il suo annichilimento (che ci richiama l’iniziale annientarmi). Il poeta è conscio che anche con la complicità della dea malvagità, la natura generosa non potrà essere né calpestata né obliata, perché è il destino stesso del seme donato della poesia che, quando vibra di eternità, sa farsi scudo anche nei confronti di potenziali assassini. Secondo me, e non so se ne avrò conferma dalla figlia Fiammetta, attenta e scrupolosa custode dell’itinerario poetico e critico paterno, questa lirica fa da pendant (anche sul piano temporale di composizione) con la successiva L’ultimo pianto, ove il verso conclusivo il pensiero/ di perdervi, di non vedervi più, rivolto ai suoi cari, ha un valore impastato di fisicità, ma ha, pur nel suo accento drammatico, qualcosa di positivo, perché il suo annientamento è solo materiale, perché egli continuerà a ri-vederli con la sua poesia. Perciò, e concludo, se è impossibile anche a potenziali assassini recidere il fiore della poesia è anche vero che grazie alla poesia egli potrà continuare a vivere e in qualche modo continuare ad essere tra i suoi. Tra di noi.
Michele Graziosetto

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