venerdì 26 gennaio 2018

Analisi di Carmen Moscariello de "Il genio dell'abbandono"









Il genio dell’abbandono di Wanda Marasco

 Rilettura di Carmen Moscariello

Il Carattere  del narrare.

Il Mago del Nord  J.G.Hamann considerato il Maestro dell’Irrazionalismo moderno, in merito all’espressione artistica  e in particolar modo per l’estetica sostiene che nell’arte non devono esistere regole codificate, contro Boileaue e Batteux,  fu fautore dell’arte intesa come  sangue e cuore.

Questo furore romantico esiste nella figura di Gemito raccontataci da Wanda Marasco. In quest’opera narrazione stile, linguaggio, propulsioni, polmoni pulsanti, follia dilagano nei vicoli di Napoli. Il  manicomio è punto di partenza ,da lì, dalla discesa e dalla fuga si costruisce  il tragico sentire del personaggio principale.

Sembra nella lettura di ogni rigo che l’ansia del dolore del vivere permei la stessa scrittura, fibra-sfibra la  rincorsa per la libertà che altro non è che identificazione con l’arte con l’utopia del bello al di là dei maleodoranti sentieri dell’inconscio e della storia.

E’ un’opera quella della Marasco ”antiplatonacea” [1]che ci permette l’accesso, oltre il pensiero dialettico, alla irregolarità intensiva. Si inalberano fuochi  che bruciano e che si manifestano nella realtà come perfette intelaiature artistiche della creta e anche del marmo (seppur poco amato dall’Artista); per Gemito c’è  il multiforme alfabeto  che muove da suoni ancestrali per divenire, man mano, conquista d’un sogno. Tutto parte dall’inconscio, vive nell’incoscio: nella costruzione del personaggio Gemito la scrittrice non si muove su due piani quello della follia e quello dell’arte, l’incastro è perfetto fin dall’inizio, dall’infanzia di chi secondo Poul Beauchamp  è apocalittico, nasce apocalittico.

L’opera tutta sfugge alla malia della narrazione come verità, piuttosto Lei interpreta il personaggio (non dimentichiamo che la Marasco è anche brava attrice) le dà vita secondo i suoi impulsi, non già secondo la storia o qualsiasi  altro principio metafisico: tutto è carnale: immediati attimi furiosamente irrealI?

Stupefacente anche il fango

La napoletaneità è un aspetto relativo, seppur tutto si svolge a Napoli, anche il linguaggio napoletano (non sempre) non rientra in nessuna conformità di categoria, tutto è nomade, da raggiungere, da perseguire, anche la meta apparentemente dettata fin dall’inizio.

Lei non segue né la strada del grande Rea, né quella di Anna Maria Ortese, Striano o della Serao, c’è un buio che non si risolve, ma che non attraversa il libro come fatto negativo, semplicemente quale costante di vita. Nessun realismo dunque, né nel linguaggio, né nella trama. Ella ben si slaccia, prosegue comoda nelle elucubrazioni del suo personaggio. L’opera non è corale, tutti i personaggi della vita di Gemito non sono che altro da sé,  sono  masticati dagli stessi occhi dalla stessa farneticazione , le identità si dissolvono per obbedire ad un unico simulacro. ”Propria del simulacro è non d’essere una copia, ma di rovesciare tutte le copie, rovesciando anche i modelli.[2]

Si ripropone di nuovo il teatro dove i personaggi non necessariamente hanno un ruolo, entrano ed escono dal palcoscenico non come identità, ma come facenti parte del pathos. Né vogliamo dire in toni anch’essi romantici che il dolore determina l’arte: Vicienzo è troppo vissuto dall’urgenza della creazione per preoccuparsi del dolore.

 Enigmatico, impervio, affascinante è il ritmo,  vero dominatore del libro, in esso, tra quegli spartiti precisi- studiati- amati,  la Marasco ci racconta, si racconta.

Nel multiforme linguaggio genetico senza evoluzioni di specie è Gemito che costruisce la sua storia, se ne innamora e ci innamora . La struttura è illocutiva; l’intonazione interrogativa sulla vita , sull’arte, sull’utopia di fare arte. Fattore strutturale dell’opera, che rimane sempre  flessiva, asiatica, pronta al gioco della vita, è la scrittura che è inglutinata dal “Il tempo dell’abbandono” E’ la sorte che fila che taglia quando vuole e come vuole nell’uomo, nell’artista c’è solo la pulsione irrefrenabile del creare.

“Creare l’Arte è creare la Storia.

E’ vero la Marasco ci ha fatto un grande dono : la riscoperta della vita e dell’arte di VincenzoGemito, lo tira fuori dal dimenticatoi del mondo arruffato e marcio, gli soffia dentro e gli dà vita.

Come per Gemito ,così per Wanda Marasco: l’Arte è dare vita o riportare alla vita.

Un Dio laico che sa modellare la creta, non cerca Dio, ma è Dio.

Di questo scultore napoletano “Genio dell’abbandono” ,   nel gioco bellissimo dell’immedesimazione L’Autrice sa proporci una storia passionale  furiosa  irresistibile.

Una brama: bramosia di raggiungere la vita, di coglierla nella sua grandezza che è anche brutalità, misticismo, delicatezza.

Qui Lei ha recuperato l’oblio, lo ha sottratto definitivamente alla sorte dell’Abbandono, La scrittura diviene capacità di recupero, di riproposizione di tutte le energie che sono state e che non hanno conosciuto la morte nonostante il selinzio di molti anni.

Ora, anche un film su Gemito se ne interessa nientemeno che il grande regista Pasquale Squitieri illustre Maestro nel riproporci tessiture storiche, novello Plutarco nel ridar la vita a chi è passato, ma ha lasciato bei solchi. Qui per ricordare a noi tutti che Il Sud non è solo camorra e mafia, ma anche Arte, Filosofia, Bellezza, Amore.

Gemito porta nella solitudine delle proprie viscere  il furore dell’arte, il grande scultore, orafo acclamato dalle corti d’Europa altro non sente che la morbida creta per plasmarla, nel dare a u lione o all’imberbe fanciullo quella stessa vita che Dio diede soffiando dentro la volgare creta. Di altro non si accorge Gemito: né i morsi della fame, né l’orrore del manicomio potranno fermarlo. Il resto lo compie la dimensioni “verticale” lessicale, fonetica del cuore di Wanda. La sua non agglutinante bellezza di Donna e Artista che ha sganciato il suo linguaggio da qualsivoglia pastoia o omologazione linguistica o mediatica.

Quest’opera, candidata allo “Strega” (forse lo meritava, senza nulla togliere al vincitore) se non altro per aver ridato alla lingua quelle energie che la rendono di nuovo mezzo di fascino, urgenza di lettura, necessità di confronto, recupero della memoria.

Una lingua “arteriosa”[3].

L’ ideologia di un linguaggio “per cui è importante quel che si narra, ma soprattutto come lo si narra”[4], l’evento è di per sé è come un sacco vuoto, non significa nulla se non è sostento da un’ideologia[5].

Articolo pubblicato sull'antologia Cultua e Prospettive, Catania.

[1]
[2] Deleuze,cit., riferimento anche Nietzsche eil circolo vizioso, 1969
[3] Vittorini
[4] Vincenzo  Consolo
[5]

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