sabato 13 gennaio 2018

La poesia di Carmen Moscariello analisi di Peppino Iuliano


La poesia di Carmen Moscariello

Un ispirato dettato di assanguante umana compagnia
Si dice che ogni uomo abbia la sua stella. Una virtuale cometa identitaria rivelante la propria epifania. Parabola di luce e destino, di storia e strada. E come tale significante un necessario viaggio da compiere: vero, crudo, ideale o da inventare. Una mission a più gradi – fuga o scelta cosciente, a piedi o con ogni mezzo, per sorte benigna o fortunosa – in cui si sommano e si diversificano modi di essere, strategie, aspettative e bisogni, da sempre tensioni e cruccio dell’animo e dell’umanità. Un viaggio senza interruzione o a tappe, cui nessuno può e vuole sottrarsi pur con difficoltà di vista e di zoppia. Un percorso da affrontare in ogni modo per non ritardare le ansie e le speranze dei compagni di viaggio. Fosse pure l’attraversamento di un tunnel con le sue incertezze e i suoi timori. È questa la proposta umana e letteraria di Carmen Moscariello che, con Tunnel dei sogni (Il Convivio editore, 2016), ci consegna l’ennesima fatica - una sorta di resistenza a perdifiato – confermando voce ed apprensione, smarrimenti e speranze, tout court il compendio della sua sfera esperienziale ed emozionale che si innerva nella scrittura e la caratterizza, lontana da "cadute" e/o arrochimenti, a volte pur essi così necessari ai poeti.
La poesia di Moscariello – ma il discorso riguarda l’intera sua scrittura dal giornalismo alla saggistica, al teatro - è richiamo ed eco, diaframma e saldatura, amalgama in un’umanità dissociata, muta o vociante, talvolta con cori da suburra talaltra stentorea, balbuziente, figlia di luoghi comuni e di relative approssimazioni – che "hanno comuni radici, con essa / ne dividono anche il gelo" - sempre in predicato di stravolgimenti e rivoluzioni, ma i cui effetti, invece ed amaramente, consolidano l’inerzia e la conservazione.

Tunnel dei sogni è un almanacco sotto il tetto del cielo a spaginare i giorni e i loro numeri di una cabala esistenziale che si attorciglia nella quotidianità, vittima della omologazione e della imitazione negativa, per sfrondarla ed interpretarla. Per "riscrivere il mondo / […] / senza matite e senza colori". Per spingerlo all’impegno civile e al patrimonio da condividere. Per spezzare, in un’idealità sempre animosa e presente, le catene dei "lazzari dannati senza resurrezione": figli di un dio minore, di un’Irpinia misera e taciturna e di un Sud incolpevole ed asservito, tra erbe rinsecchite, ormai scheletriche, "fragili e senza radici", nel vortice dell’indifferenza e delle sue astenie senza amore; pellegrini laici e confessionali, indigeni e/o stanziali inermi e rassegnati, tra sbandamenti e spasmodici batticuori in un divenire circoscritto, corollario di "sepolcri imbiancati nel vuoto dei giorni", fra "anime innocenti" che "vagano / alla ricerca di una terra".
La poesia di Carmen è sguardo e respiro. Occhio che scruta, penetra e svela, né strabico né daltonico. Fiato di parola e voce. Parola come logos, lampo, principio enunciatore, favilla dal roveto, a cui dare in prosieguo corposità di immagini e contenuti. Ma anche parola "in esilio / così la poesia / senza patria, senza terra / senza lume". Parola e voce, come fede nell’uomo, ad un tempo messaggio, rivelazione e profezia. Ma anche insieme di parole proprie di un discorso compiuto, di chi ha tempi e ritmi per decifrare i codici della vita, a volte assurdamente impenetrabili talaltra semplici ed elementari, eppure sfuggenti e mai apprezzati appieno. Voce sussurrata come un battito d’ali o potente come un tuono, che non violenta né impreca contro la specola celeste ma la invoca e la rasserena; ampolla di acqua sorgiva o torrenziale (come la "cascata della lavandaia" di Montella) o brusìo salmodiante (come i monaci del convento di San Francesco a Folloni) o incursione di refoli, tra i digradanti castagni dei Monti Picentini, è varietà di cifre, scansioni, accenti per un dettato che è canto ed incanto ed incoraggia attesi controcanti. Un insieme di "braccia che si allargano / per stringere l’aria".
Novella Vestale, custode del fuoco del sapere, dispensatrice e forziere di cultura e scultura, di parole e rappresentazioni, ne conosce numeri e combinazioni. E mentre ci offre forme levigate, lavora il bulino e il tornio per altre abbozzate. È suo il museo semprevivo affollato di gente, galleria assortita di qualche fortunata cicala, che beve felice alla coppa e può permettersi canto e divertissement, e di un popolo di formiche e delle sue file processionali, votate al sacrificante lavoro, che conoscono strade in salita, paradossalmente in cammino tra insidie d’ortica e di selci aguzze ed essenze odorose di mentastro e sambuco.
Le ragioni contrastano con la doppiezza della vita. Ad animosi ed osannanti tripudi fanno riscontro sfondi sfocati e fondali torbidi, città perse e muri sbrecciati, abbandonati dall’incuria ed intrisi di stantio e vecchio. Fantasmi ed ombre, tuttavia, s’aprono ai sogni, capaci di rammemorare il senso delle case e il "profumo delle rose". È come un sudario – visione ossimorica – "il paese della neve", raccolto nel suo uniforme manto freddo ed immacolato, ma nei cui calanchi ribollono magmatiche le "invidie furiose", sempre pronte a nuove sfide e risse rusticane. Resta a dispetto il "paese del rifiuto", dell’abbandono, degli strati di polvere in sedimentazione - non quello del vuoto pavesiano e di scontata accoglienza – oggi diremmo dello spaesamento e della desertificazione, di grido ribelle senza riscatto. Trovano nervi scoperti, in una continuità di incrostazioni senza liberazione, il verso e lo sconforto di Rocco Scotellaro: "Ognuno di noi vuole essere il padrone / della nostra città medioevale / ed è geloso a morte dell’uguale. / Io me n'andrò, sono un cane di nessuno / […]", (Paese mio!,1948). Inquietudini e colpe sono mescole del nostro cuore antico, povere di giustizia e redenzione.
Carmen Moscariello coltiva frammenti – ma la vita non è un insieme di frantumazioni e rattoppi? - ricuce gli anni lontani di ricordi e schegge, come un puzzle da ricomporre, che allontana, unico vero antidoto, il pensiero della morte e la cupezza del destino. E fa aleggiare su tutto un’aura di idealità e di eticità; l’amore è linfa in ossigenazione per la verità, che riesce a fare chiarezza e a ristabilire l’ordine delle cose, segnate a sfregio da cicatrici e ferite.
La poetica moscarielliana mette in circolo ansie di libertà – secondo lo spirito desanctisiano – continuo orizzonte da ricercare, a dispetto di ogni accomodante certezza, per un infinito, poeticamente leopardiano e smisuratamente umano, in cui ritrovare le coordinate di vita, disdegnanti i confini ed il "segno dei lacci". Del resto la delusione, l’arte dell’arrangiarsi, il fatalismo sono il nostro sangue acido, braci di fuochi da ravvivare nella notte che dura.
Sappiamo bene che "dal destino non abbiamo ricevuto doni". Ciononostante concediamo "amore ai senza cuore e contiamo "poche strette di mani sconosciute / lavatoi di sacrifici del sudore", fonti battesimali di sempre nuova conversione.
Moscariello, nella sua coraggiosa avventura, porta con sé "un fardello di storie invisibili / che pesano", i "lebbrosi" pensieri, le denunzie senza sconti, il fervore cosciente della preghiera, la levità struggente del canto di espiazione, e li svela alla conta dell’anima: silenzi, immagini, rumori, echi, assenze; accorta e paziente riesce "tra spoglie di morti e ferite che ancora sanguinano" a preparare "strade di luce". E dire che la nostra doppiezza ci fa dimenticare l’origine e l’unitarietà del seme e ci porta a "bruciare il sole", invece di apprezzarne il calore e i benefici influssi che assicurano i frutti e il ciclo delle stagioni.
Vero è che un tunnel può far perdere l’orientamento e la strada maestra ma talvolta può anche rivelarsi una saggia accorciatoia, tale da facilitare soluzioni ed aiutare l’uomo a ritrovarsi. Ecco allora venire in soccorso speranze e sogni. Come aquiloni, interpreti di desideri, volteggiano, si impennano e movimentano l’aria e il silenzio di forme e colori, merletti che sfrangiano i vortici, i vuoti, le paure e allontanano dall’abisso. Sono briciole di meraviglie che non saziano ma ingannano il digiuno e, salvezza prodigiosa della poesia, aiutano a vivere.
Giuseppe Iuliano


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