venerdì 19 ottobre 2018

Annuale congresso Biogem ad Ariano Irpino, ospite onorato Aldo Masullo









 Io sono profondamente grato all’amico Ortensio. Egli mi ha espresso gratitudine per il dono della mia adesione al suo invito. In realtà il dono lo fa lui a me, convocando tanti autorevoli amici ad ascoltare le mie semplici parole. Confesso che fa un effetto curioso sentir parlare di sé, come se si fosse un altro. Di quest’altro me Ortensio ha parlato generosamente; ed io, l’io che sono, l’io che ha con emozione ascoltato, lo ringrazia e ringrazia tutti voi. Non mi resta ora che far cenno a qualche momento della mia vita intellettuale, che in un certo modo risponde alla domanda di Ortensio.

Proprio nella presente sessione dello straordinario convegno annuale di Biogem si è posta ancora una volta, ma con una speciale sensibilità, la vexata quaestio del rapporto tra i saperi, o più precisamente tra i saperi cosiddetti scientifici e i saperi cosiddetti umanistici. Debbo confessare. L’ispirazione riformatrice, che più tenacemente mi ha accompagnato nella mia azione accademica, è stata l’affermazione dell’unità della cultura come criterio organizzativo del lavoro universitario. Purtroppo in questo campo ho avuto solo scacchi.   

A  proposito delle lotte politiche per l’università, debbo dire che l’amicizia tra Ortensio e me non è nata in un caffè o in un salotto mondano, ma nelle aule del Senato. Per dare determinatezza biografica al mio discorso, ricordo che in alcuni intensi anni della nostra storia politica Ortensio è stato il Ministro dell’Università mentre io mi trovavo a far parte della Commissione senatoriale della Pubblica Istruzione. Perciò lui ed io abbiamo avuto non poche occasioni d’incontro nel vivo di una incisiva trasformazione dell’istruzione superiore, sui cui problemi confrontavamo, sempre utilmente, i nostri punti di vista. In Ortensio si coglieva, allora come oggi, quel senso della vita profondo e insieme concreto, che a molti accademici e ancor più a molti politici manca.

Ora qui, alludendosi alla difficile domanda sull’unità della cultura, il termine “cultura” è ancora una volta entrato in gioco. Ortensio ha rievocato la risposta crociana. Raramente però si ricorda che il termine deriva dal verbo latino colo, colere, che significa coltivare. Banalmente si dice che gl’insegnanti coltivano i ragazzi. Ma anche i contadini coltivano: per esempio, cavoli o patate! In verità “coltivare”, colere, prima che coltivare significa avere cura, avere a cuore. Il contadino coltiva in quanto ha a cuore la sua terra, dalla cui fecondità dipende la sua vita. Il vero insegnante ha a cuore la vita mentale dell’allievo. Essenzialmente, coltivare è avere cura.

Degl’intellettuali Ortensio ha criticato la colpevole indifferenza. Essi, per dirla con il celebre titolo del pamphlet di Julien Benda, “tradiscono”. Nel loro altisonante parlare, spesso di minuzie e frivolezze, non sempre si curano della serietà della vita.

Soltanto l’avere a cuore, che è la cura dell’umanità di ogni uomo, può salvarci tutti. Oggi invece cresce il disimpegno. Nel nostro tempo ci si agita molto, si scatenano ostilità, si urlano invettive. Manca la passione della relazione entro cui gl’individui si riconoscono e cooperano. Ben pochi hanno veramente a cuore la vita, la quale sempre più viene vissuta come un fugace scorrere d’immagini. La società è sempre meno presenza del pubblico, sempre più spettacolo pubblicitario. Nelle comunicazioni di massa si ostentano luccicori di felicità per propagandare prodotti di lusso, mendacemente e per profitto, certo non per amore della vita autentica, per far venire in ognuno alla luce il desiderio della cura di sé.

Per proseguire il discorso sul rapporto tra le due culture comincerò da una pagina del bel libro, Il cosmo della mente, opera in solido del fisico Antonio Ereditato e del biologo Edoardo Boncinelli. Vi si legge: «Il cervello umano è l’unico oggetto dell’universo che si può studiare sia da dentro che da fuori».

Tutti capiamo cosa voglia dire che il cervello si può studiare da fuori: lo studiano così l’anatomico, che apre il cervello come un’arancia e ne esamina la struttura, e il neurologo che ne saggia sperimentalmente le connessioni funzionali di neuroni e sinapsi. Il cervello viene osservato come una cosa spaziale che cambia nel tempo.

Ma cosa vuol dire studiarlo dal di dentro? Nessuno potrebbe negare che qualcosa avviene in lui, nel suo cervello, quando per esempio si rende conto di provare insopprimibile fastidio per un seccatore oppure straordinario piacere per l’interesse intellettuale di una ricerca scientifica in corso. Però in questi casi il dato della mia esperienza non è la cosa cervello che mi sta davanti mentre la esamino, bensì lo stato d’animo che provo. Mentre la cosa cervello può essere vista ed esaminata, come da me, da qualsiasi altra persona, il mio stato d’animo invece lo provo io, e nessun altro può provarlo.

E’ evidente che, quando si parla di cervello, il da fuori e il di dentro non sono il da fuori e il di dentro di una scatola. Innanzitutto, già come cosa materiale, il cervello non è una scatola, ma un polipaio di miliardi di cellule vive, connesse per scambiarsi informazioni. Ma poi, come gli stessi Boncinelli ed Ereditato precisano, nel linguaggio naturalistico si usa “cervello” come sinonimo di “mente”, dunque sensazioni, emozioni, pensieri, tutte cose, il cui essere è, per così dire, privatissimo. La realtà di una sensazione è il suo essere avvertita da me, come di un’emozione il suo essere provata da me, e di un concetto il suo essere concepito da me. Questo è il di dentro del mio cervello. Di esso può parlare solo il mio stesso cervello e nessun altro.

Insomma il cervello di cui si parla è una cosa del vivente. Il cervello di cui parlo io, ed io soltanto posso parlare, cioè il mio cervello, non è una cosa ma un movimentarsi di vissuti.

Ben noto è il termine tedesco erleben. Con esso, mediante la proclitica intensiva er-,  il vivere in senso forte, il vivere di cui si ha senso, appropriata coscienza, viene distinto dal leben, dal vivere meramente fisico. Da erleben deriva il sostantivo Erlebnis. Con esso s’intende nel parlare comune un’esperienza. Ma così ne va perso il significato più proprio. L’esperire, come il divenire empeiros dei Greci o l’experiri dei Romani (la radice per- segnala il moto di attraversamento), è il percorso mentale per capire a fondo un evento che ci ha coinvolti. Il passo dell’esperienza è la mossa del naufrago dantesco, il quale, “uscito fuor del pelago a la riva, / si volge a l’acqua perigliosa e guata”. La pienezza della coscienza di ciò che ci è capitato è sempre postuma. In altri termini, immediato è il vissuto, l’Erlebnis, mentre temporalmente e logicamente mediata è l’esperienza, la Erfahrung. Ogni episodio della nostra vita è la storia di una coscienza, maturata insieme con la sua storia.  Qui sta la specificità dell’umano, la sua differenza da ogni altra forma di vita animata. Riconoscere ciò non è un’offesa al mio caro cane, o al gatto, o a qualsiasi altro vivente non umano, per la semplice ragione che io non sono mai stato cane, gatto o altro animale, e non ho vissuto ossia non ho conosciuto dall’interno la loro vita. Quindi non posso dirne nulla.

L’umano è possibile oggetto di scienza in quanto vivente e non altro. Il vissuto invece non è oggetto: esso è, per così dire, la soggettività stessa della vita nel suo viversi, nel suo sapersi mentre vive.

Se si tiene fermo questo punto di vista, s’intende facilmente l’unità della cultura, pur nella varietà dei suoi sempre nuovi momenti e delle sue innumerevoli forme.  Essa è “cura”,   l’ “avere a cuore”, cioè l’attività mentale nella sua massima maturità evolutiva. E’ l’attuale culmine della vita irresistibilmente impegnata a trattare di sé. Tutto ciò potrebbe anche dirsi “spirito”, in un significato però che non ha nulla a che vedere con le ontologie spiritualistiche e, tanto meno, con le fantasticherie spiritistiche, e richiama semmai l’idea hegeliana del Geist, che è la storia della coscienza nel suo continuo attualizzarsi.

Certamente, per quel che ci risulta, non c’è attività mentale senza cervello. Tuttavia l’attività mentale non è il cervello (infatti per amara celia si può ammettere che ci sono anche cervelli che non pensano!). Così la digestione non è lo stomaco, la visione non è l’occhio, né alcuna funzione è l’organo che la rende possibile.

Scienza è costruzione di un qualche sapere delle cose dall’esterno, dal loro darsi alla osservazione dell’uomo. Umanesimo invece è costruzione di sapere dall’interno, il porre attenzione e cura al sentire, al provare, al pensare dell’uomo. Scienza è il calcolare le cose che si presentano alla osservazione, da fuori. Umanesimo è l’avventurarsi nel labirinto del vissuto, ad incontrare le rappresentazioni mentali delle cose, da dentro.

Il cervello è un essere ambiguo. E’ una macchina naturale, e come tale è osservabile dall’esterno, scientificamente. Ma è anche la macchina, grazie ai cui calcoli c’è coscienza ed io so di essere, così come ogni uomo sa di sé. E’ per il lavoro di questa macchina che, per quanto le diverse coscienze personali siano l’un l’altra irriducibili, noi siamo capaci di costruire sistemi con cui comunicare tra viventi umani.

Così, se scientifico è occuparsi del cervello dell’uomo, umanistico è occuparsi dell’uomo del cervello. Il cervello oggetto di scienza è una cosa che ci sta davanti, sotto i nostri occhi, in ogni modo fuori, in un luogo dello spazio, esterno a quello occupato dal corpo dell’osservatore. Ben diversamente, l’umanista è interessato al cervello come mente: egli infatti esplora l’anima, riattraversa cioè sensazioni, emozioni, pensieri vissuti. Chi può far questo, se non l’uomo stesso, non un qualsiasi uomo, ma l’unico, irripetibile uomo che quelle sensazioni e quelle emozioni ha provate, e quei pensieri ha concepiti, insomma dal di dentro? Mentre i saperi scientifici sono osservazioni, calcoli, inferenze, i saperi umanistici sono miti, arti, meditazioni. Comunque gli uni, dal di fuori, e gli altri, dal di dentro, sono saperi con cui l’uomo non cessa mai di occuparsi di sé: l’intero cosmo infatti è la rappresentazione umana di ciò che esiste, è appunto “il cosmo della mente”.

In conclusione, molti e assai vari sono i saperi, ma la cultura è una, perché uno è ciò, di cui da fuori o da dentro tutti i saperi si occupano, hanno cura.

La cosiddetta intelligenza artificiale, emulando tecnicamente il cervello naturale nel suo ruolo di central processing unit, governa anch’essa pezzi complessi di funzionanti esistenze e addirittura impara a produrne di nuovi. Ma il suo rapporto con i suoi stessi prodotti è un esclusivo di fuori. Ben altrimenti, quando il severo scienziato, applicandosi ad un pezzo di esistente, lo osserva da di fuori, nel suo gesto non c’è soltanto il di fuori della cosa. C’è primariamente l’interesse intellettuale che spinge: la passione del conoscere, il gusto di comprendere. C’è insomma la coscienza nell’incessante attualizzarsi della sua storia, la vita che dal di dentro si sa.

E’ evidente che, se l’osservazione è dal di fuori, il sapere sempre trascende il semplice operare sulla cosa. Esso prende forma solo dal di dentro di una vita vissuta. Così anche il sapere scientifico si ritrova attivo umanesimo.

Grazie!



Aldo Masullo






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