Io sono profondamente grato all’amico
Ortensio. Egli mi ha espresso gratitudine per il dono della mia adesione al suo
invito. In realtà il dono lo fa lui a me, convocando tanti autorevoli amici ad
ascoltare le mie semplici parole. Confesso che fa un effetto curioso sentir
parlare di sé, come se si fosse un altro. Di quest’altro me Ortensio ha parlato
generosamente; ed io, l’io che sono, l’io che ha con emozione ascoltato, lo
ringrazia e ringrazia tutti voi. Non mi resta ora che far cenno a qualche momento
della mia vita intellettuale, che in un certo modo risponde alla domanda di
Ortensio.
Proprio
nella presente sessione dello straordinario convegno annuale di Biogem si è
posta ancora una volta, ma con una speciale sensibilità, la vexata quaestio del rapporto tra i
saperi, o più precisamente tra i saperi cosiddetti scientifici e i saperi cosiddetti
umanistici. Debbo confessare. L’ispirazione riformatrice, che più tenacemente
mi ha accompagnato nella mia azione accademica, è stata l’affermazione dell’unità
della cultura come criterio organizzativo del lavoro universitario. Purtroppo
in questo campo ho avuto solo scacchi.
A proposito delle lotte politiche per
l’università, debbo dire che l’amicizia tra Ortensio e me non è nata in un
caffè o in un salotto mondano, ma nelle aule del Senato. Per dare determinatezza
biografica al mio discorso, ricordo che in alcuni intensi anni della nostra
storia politica Ortensio è stato il Ministro dell’Università mentre io mi
trovavo a far parte della Commissione senatoriale della Pubblica Istruzione. Perciò
lui ed io abbiamo avuto non poche occasioni d’incontro nel vivo di una incisiva
trasformazione dell’istruzione superiore, sui cui problemi confrontavamo, sempre
utilmente, i nostri punti di vista. In Ortensio si coglieva, allora come oggi, quel
senso della vita profondo e insieme concreto, che a molti accademici e ancor
più a molti politici manca.
Ora
qui, alludendosi alla difficile domanda sull’unità della cultura, il termine “cultura”
è ancora una volta entrato in gioco. Ortensio ha rievocato la risposta crociana.
Raramente però si ricorda che il termine deriva dal verbo latino colo, colere, che significa coltivare. Banalmente si dice che gl’insegnanti
coltivano i ragazzi. Ma anche i contadini coltivano: per esempio, cavoli o patate!
In verità “coltivare”, colere, prima
che coltivare significa avere cura, avere a cuore. Il contadino coltiva in
quanto ha a cuore la sua terra, dalla cui fecondità dipende la sua vita. Il
vero insegnante ha a cuore la vita mentale dell’allievo. Essenzialmente, coltivare
è avere cura.
Degl’intellettuali
Ortensio ha criticato la colpevole indifferenza. Essi, per dirla con il celebre
titolo del pamphlet di Julien Benda,
“tradiscono”. Nel loro altisonante parlare, spesso di minuzie e frivolezze, non
sempre si curano della serietà della vita.
Soltanto
l’avere a cuore, che è la cura dell’umanità di ogni uomo, può salvarci tutti. Oggi
invece cresce il disimpegno. Nel nostro tempo ci si agita molto, si scatenano
ostilità, si urlano invettive. Manca la passione della relazione entro cui
gl’individui si riconoscono e cooperano. Ben pochi hanno veramente a cuore la
vita, la quale sempre più viene vissuta come un fugace scorrere d’immagini. La
società è sempre meno presenza del pubblico, sempre più spettacolo pubblicitario.
Nelle comunicazioni di massa si ostentano luccicori di felicità per propagandare
prodotti di lusso, mendacemente e per profitto, certo non per amore della vita
autentica, per far venire in ognuno alla luce il desiderio della cura di sé.
Per
proseguire il discorso sul rapporto tra le due culture comincerò da una pagina del
bel libro, Il cosmo della mente, opera
in solido del fisico Antonio Ereditato e del biologo Edoardo Boncinelli. Vi si
legge: «Il cervello umano è l’unico oggetto dell’universo che si può studiare
sia da dentro che da fuori».
Tutti
capiamo cosa voglia dire che il cervello si può studiare da fuori: lo studiano così l’anatomico, che apre il cervello come
un’arancia e ne esamina la struttura, e il neurologo che ne saggia sperimentalmente
le connessioni funzionali di neuroni e sinapsi. Il cervello viene osservato
come una cosa spaziale che cambia nel tempo.
Ma cosa
vuol dire studiarlo dal di dentro? Nessuno
potrebbe negare che qualcosa avviene in lui, nel suo cervello, quando per
esempio si rende conto di provare insopprimibile fastidio per un seccatore
oppure straordinario piacere per l’interesse intellettuale di una ricerca
scientifica in corso. Però in questi casi il dato della mia esperienza non è la
cosa cervello che mi sta davanti mentre la esamino, bensì lo stato d’animo che
provo. Mentre la cosa cervello può essere vista ed esaminata, come da me, da
qualsiasi altra persona, il mio stato d’animo invece lo provo io, e nessun
altro può provarlo.
E’
evidente che, quando si parla di cervello, il da fuori e il di dentro
non sono il da fuori e il di dentro di una scatola. Innanzitutto,
già come cosa materiale, il cervello non è una scatola, ma un polipaio di
miliardi di cellule vive, connesse per scambiarsi informazioni. Ma poi, come
gli stessi Boncinelli ed Ereditato precisano, nel linguaggio naturalistico si
usa “cervello” come sinonimo di “mente”, dunque sensazioni, emozioni, pensieri,
tutte cose, il cui essere è, per così dire, privatissimo. La realtà di una
sensazione è il suo essere avvertita da me, come di un’emozione il suo essere
provata da me, e di un concetto il suo essere concepito da me. Questo è il di dentro del mio cervello. Di esso può
parlare solo il mio stesso cervello e nessun altro.
Insomma
il cervello di cui si parla è una
cosa del vivente. Il cervello di cui
parlo io, ed io soltanto posso parlare, cioè il mio cervello, non è una cosa ma
un movimentarsi di vissuti.
Ben
noto è il termine tedesco erleben. Con
esso, mediante la proclitica intensiva er-, il vivere in senso forte, il vivere di cui si
ha senso, appropriata coscienza, viene
distinto dal leben, dal vivere
meramente fisico. Da erleben deriva
il sostantivo Erlebnis. Con esso s’intende
nel parlare comune un’esperienza. Ma
così ne va perso il significato più proprio. L’esperire, come il divenire empeiros dei Greci o l’experiri dei Romani (la radice per- segnala il moto di attraversamento),
è il percorso mentale per capire a
fondo un evento che ci ha coinvolti. Il passo dell’esperienza è la mossa del
naufrago dantesco, il quale, “uscito fuor del pelago a la riva, / si volge a l’acqua
perigliosa e guata”. La pienezza della coscienza di ciò che ci è capitato è
sempre postuma. In altri termini, immediato è il vissuto, l’Erlebnis, mentre temporalmente e
logicamente mediata è l’esperienza,
la Erfahrung. Ogni episodio della nostra
vita è la storia di una coscienza, maturata insieme con la sua storia. Qui sta la specificità dell’umano, la sua
differenza da ogni altra forma di vita animata. Riconoscere ciò non è un’offesa
al mio caro cane, o al gatto, o a qualsiasi altro vivente non umano, per la
semplice ragione che io non sono mai stato cane, gatto o altro animale, e non
ho vissuto ossia non ho conosciuto dall’interno
la loro vita. Quindi non posso dirne nulla.
L’umano
è possibile oggetto di scienza in quanto vivente
e non altro. Il vissuto invece non
è oggetto: esso è, per così dire, la soggettività stessa della vita nel suo viversi,
nel suo sapersi mentre vive.
Se si
tiene fermo questo punto di vista, s’intende facilmente l’unità della cultura,
pur nella varietà dei suoi sempre nuovi momenti e delle sue innumerevoli forme.
Essa è “cura”, l’ “avere a cuore”, cioè l’attività mentale
nella sua massima maturità evolutiva. E’ l’attuale culmine della vita
irresistibilmente impegnata a trattare
di sé. Tutto ciò potrebbe anche dirsi “spirito”, in un significato però che non
ha nulla a che vedere con le ontologie spiritualistiche e, tanto meno, con le
fantasticherie spiritistiche, e richiama semmai l’idea hegeliana del Geist, che è la storia della coscienza nel
suo continuo attualizzarsi.
Certamente,
per quel che ci risulta, non c’è attività mentale senza cervello. Tuttavia
l’attività mentale non è il cervello (infatti per amara celia si può ammettere che
ci sono anche cervelli che non pensano!). Così la digestione non è lo stomaco, la
visione non è l’occhio, né alcuna funzione è l’organo che la rende possibile.
Scienza
è costruzione di un qualche sapere delle cose dall’esterno, dal loro darsi
alla osservazione dell’uomo. Umanesimo invece è costruzione di sapere dall’interno, il porre attenzione e cura
al sentire, al provare, al pensare dell’uomo. Scienza è il calcolare le cose
che si presentano alla osservazione, da fuori. Umanesimo è l’avventurarsi nel labirinto del vissuto, ad incontrare le rappresentazioni mentali delle cose, da dentro.
Il
cervello è un essere ambiguo. E’ una macchina naturale, e come tale è
osservabile dall’esterno, scientificamente.
Ma è anche la macchina, grazie ai cui calcoli c’è coscienza ed io so di essere,
così come ogni uomo sa di sé. E’ per il lavoro di questa macchina che, per
quanto le diverse coscienze personali siano l’un l’altra irriducibili, noi siamo
capaci di costruire sistemi con cui comunicare tra viventi umani.
Così,
se scientifico è occuparsi del cervello dell’uomo, umanistico è occuparsi
dell’uomo del cervello. Il cervello oggetto di scienza è una cosa che ci sta
davanti, sotto i nostri occhi, in ogni modo fuori,
in un luogo dello spazio, esterno a quello occupato dal corpo dell’osservatore.
Ben diversamente, l’umanista è interessato al cervello come mente: egli infatti
esplora l’anima, riattraversa cioè sensazioni, emozioni, pensieri vissuti. Chi
può far questo, se non l’uomo stesso, non un qualsiasi uomo, ma l’unico, irripetibile
uomo che quelle sensazioni e quelle emozioni ha provate, e quei pensieri ha concepiti,
insomma dal di dentro? Mentre i
saperi scientifici sono osservazioni, calcoli, inferenze, i saperi umanistici
sono miti, arti, meditazioni. Comunque gli uni, dal di fuori, e gli altri, dal di
dentro, sono saperi con cui l’uomo non cessa mai di occuparsi di sé: l’intero
cosmo infatti è la rappresentazione umana di ciò che esiste, è appunto “il
cosmo della mente”.
In
conclusione, molti e assai vari sono i saperi, ma la cultura è una, perché uno
è ciò, di cui da fuori o da dentro
tutti i saperi si occupano, hanno cura.
La
cosiddetta intelligenza artificiale, emulando tecnicamente il cervello naturale
nel suo ruolo di central processing unit,
governa anch’essa pezzi complessi di funzionanti esistenze e addirittura impara
a produrne di nuovi. Ma il suo rapporto con i suoi stessi prodotti è un
esclusivo di fuori. Ben altrimenti, quando
il severo scienziato, applicandosi ad un pezzo di esistente, lo osserva da di fuori, nel suo gesto non c’è soltanto
il di fuori della cosa. C’è primariamente
l’interesse intellettuale che spinge: la passione del conoscere, il gusto di
comprendere. C’è insomma la coscienza nell’incessante attualizzarsi della sua
storia, la vita che dal di dentro si
sa.
E’
evidente che, se l’osservazione è dal di
fuori, il sapere sempre trascende il semplice operare sulla cosa. Esso
prende forma solo dal di dentro di
una vita vissuta. Così anche il sapere scientifico si ritrova attivo umanesimo.
Grazie!
Aldo Masullo
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