mercoledì 31 ottobre 2018


Omaggio alla poesia di Corrado Calabrò di Carmen Moscariello

Ho conosciuto per la prima volta la poesia di Corrado Calabrò  nel 1992, quando Giuseppe Cassieri  mi fece dono di due opere, l’una “Rosso D’Alicudi” di Corrado Calabrò e l’altra di Cristina Campo  “”La tigre assenza” a cura di Margherita Pieracci, Harwel Adelphi, Milano 1991. Due opere che ho molto amato e che mi hanno poi portato  a non abbandonare  mai la scrittura dei due poeti.

“Rosso d’Alicudi” con la sua sovra copertina gialla (ormai stropicciata dal tempo) ha impresso al centro della pagina un lieve disegno in linee nere: le onde del mare che sembrano un pentagramma; una vela che per metà svetta verso il cielo e per l’altra metà sotto le onde del mare; qui un pesce solitario e inquieto cerca l’immenso. L’opera fu stampata da Arnoldo Mondadori e ha la preziose prefazione di Carlo Bo. Oggi il libro, che l’attendeva da tempo,  si è arricchito della dedica di  Corrado Calabrò che ho conosciuto il 30/10/2016 personalmente, in quel cenacolo di cultura che Angelo Manitta  organizza ai Giardini Naxos,  qui  confluiscono belle energie da tutto il mondo. Quest’anno per i Manitta è stato strepitoso: hanno pubblicato l’ultima opera di Calabrò “Mare di Luna” (opera che sta avendo grande successo) con postfazione del giovane eccellente critico Giuseppe Manitta e hanno avuto l’onore  di premiare personalmente  (Premio alla carriera) il Poeta.  Nell’analisi critica , presentata al pubblico internazionale, Giuseppe Manitta ha dato altre incisive svolte per comprendere ancor di più la poesia del Nostro.

Ritornando alla mia prima lettura , al  prezioso libro  “Rosso d’Alicudi”, noto che  porta ancora nelle pagine gli appunti, le annotazioni e sottolineature che testimoniano non solo una  vaga lettura, ma un attento studio. Tra le mie note leggo: l’opera è una triade divina formata dall’amore, la donna e il mare; La finalità del canto come una lotta, un impegno preso con la vita;  il poeta non conosce resa, cerca l’amore; sacrifica il poeta sull’altare della nostalgia; la fede, il verso, l’ostinazione. Appunti sparsi e non persi che mi aiutarono e aiutano ancora ad entrare nel profondo e misterioso mare del suo inconscio poetico. Nella pagina successiva alla firma di Carlo Bo,  molti appunti in matita blu (quella che usavano i professori per correggere i compiti degli alunni), ormai sbiaditi, non più recuperabili, si fa riferimenti a Laura e Beatrice e al poeta visto come un cavaliere errante, la spada è sguainata e la vita la vuole vivere con tutte le energie possibili.

Oggi, a questi frammenti, oserei aggiungere un’attenzione da dedicare  a un’altra presenza familiare alla sua poesia:  il vento. Esso nei versi di molte opere,  è maestrale , scirocco, è voce violenta che scompiglia le lenzuola dell’amore, che porta il poeta arroventato  a fremere, vissuto da un’ insonnia perenne. Un’inquietudine, direi, che per quanto avvolta e cauterizzata da quelle onde del mare che si congiungono e slegano con i respiri affannosi del poeta, non trova tregua. Il canto poetico ha polmoni possenti, è Eolo con l’orcio aperto, quasi compagno necessario a una vita vissuta con furore, con energie che esplodono e non conoscono sfinimento. “Oh si, il vento! Il vento che rapido sferza i marosi/ per impedire che si approdi a Delos./ Solo verso sera, sotto costa, /s’acqueta un poco il mare e si distende/ e cede infine palmo a palmo il campo,/ Il vento di mare…. Ah si, il vento! Il vento/ che scompiglia le penne ai gabbiani/ e li fa rannicchiare tremanti/  nelle fenditure degli scogli… / Il vento stormisce nelle sartie/ con stridore assordante./ Sono migliaia di cicale metalliche/ che friniscono insieme…”(Il vento di Myconos  (Nostos) da “Mare di Luna” (Il Convivio) pg,23). Il poeta non si limita a sentirlo nelle ossa e negli occhi il vento “Quale vento stanotte m’ha cercato…  ”ma esso è sempre precursore di nostalgie, di ricordi, di albe da attendere insonne, di momenti sensuali che lo percorrono, lasciandolo rabbrividire;  né il desidero si acquieta e la poesia crea strapiombi “salti “(come dice Manitta), le parole si susseguono fluide, in un éxsperimentalisme  realiste   dove i luoghi, la natura, l’uomo non sono prevedibili. Non possiamo però parlare di un riesame della memoria dei fatti accaduti o solo fantasticati, momenti di erotismo, di compagnie agognate, in realtà il verso vive in una sfrenata contemporaneità. Gli spazi e il tempo, apparentemente confusi, qualche volta sovrapposti, nel ritmo della parola  hanno una predestinazione precisa nel suo begetter, che quasi sempre è la donna desiderata, non parlerei d’amore. Forse l’appunto che scrissi un tempo facendo riferimento a Laura e a Beatrice voleva dire che la figura femminile per Corrado Calabrò è una presenza necessaria, la donna inseguita, agognata; il verso ha  la stessa frenesia degli eroi dell’Orlando Furioso, il ritmo non conosce argini. E, poi, c’è il mare, tema sul quale anche Carlo Di Lieto con la sua bella opera “La donna e il mare” ha posto l’accento. Ma partiamo dal pensiero (che a suo tempo sottolineai) che troviamo anche sulla sovra-copertina di Carlo Bo: “è un mare senza nome , è la voce eterna della nostra esistenza ”Razionalmente, certo, il mare è un rischio/ma io non l’ho mai sentito come tale. Chi si spinge in mare aperto/lascia alle spalle il suo pedestre aplomb/ per galleggiare in stato di abbandono;/ impalati dal dubbio si affonda / ed è d’impiglio, non di salvataggio/ la rete che tesse il raziocini. /Il mare va preso come viene ,/ così, con la sua stessa inconcludenza :/portando verso il petto, a ogni bracciata /un’onda lieve che non si trattiene” (Rosso d’Alicudi pg 66, Lo stesso rischio). Per comprendere questi versi è necessario ricorrere ai percorsi oscuri dell’inconscio: una lettura poco attenta ci farebbe dire che il poeta parli del mare e delle sue caratteristiche, nulla di più errato. I versi svelano l’esistenza stessa di Calabrò; c’è un processo identificativo totale del la vita dell’uomo con quella del mare  e in particolare con quella del Nostro. La parola si fa dura e aspra, non ha niente di aulico, ma la grandezza è proprio in questa grinta realistica nell’affrontare e prendere la vita che lo possiede. Una poesia che dà forza, che è una strada seguita con devozione e fedeltà fin dai suoi vent’anni, un rimedio alla disperazione umana, un luogo dove la frenesia, l’esaltazione, l’eterna dolorosa inquietudine, non si quietano, né  trovano approdo per essere ruminate lentamente, ma il verso è sostanziale alla sua vita, non c’è dualismo tra la poesia e la vita (parlo della vita dell’uomo servitore dello Stato);  non sono da considerare due cose, ma un’unica  forza . La vita, come poesia  è un vortice , un tango passionale e lieve, un urlo, un orgasmo, a volte anche un crepuscolarismo malinconico. (Pubblicato da "Cultura e Prospettive)










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