“Gli occhi non
possono morire” Di Giuseppe Manitta,
italic Ed.
Guardare il mondo con gli occhi di un poeta.
Giuseppe Manitta ci
ha sempre regalato opere importanti per la Letteratura, anche la sua poesia è un fortilizio di
immagini, un aiuto a riflettere, a rappresentare il mondo, un sobbalzo, un
trasalimento . E’ un diaframma ampio che respira le arie di molti cantori,
opere ben tessute che navigano verso la modernità sulla grandezza del mondo
classico. Eschilo forse gli è maestro. Su questa barca senza timone, che spesso
attraversa la lanugine del dolore, si pone, con variopinta ironia, una licenza
ardita che a volte sembrerebbe una sfida
in cui si scorge un’arsura di gioie, una
tensione nevralgica del quotidiano sentire . L’ansia creativa partorisce un
verso di perfezione: limato e asciutto che non preclude all’immaginifico. Eppure
, come nella sua grandezza di critico è pronto a indagare qualsiasi
circostanza, così i suoi versi nascono da una logica attenta dove confluiscono i silenzi di lunghe e
pervasive peregrinazioni. La sua poesia si pone, dunque, in modo rigoroso, ma
anche nell’urgenza di voler leggere, di saper leggere, di avanzare gli orizzonti
dell’essere: ”le sensazioni, le percezioni giungono a Giuseppe Manitta dal quotidiano,
dal mondo che lo circonda. Ma si staccano dal fiume lutulento in cui siamo
immersi e che ci trasporta senza posa, vengono a galla e restano in sospensione
col preannuncio di una scoperta, di una piccola rivelazione ”[1].Le
parole chiare di Corrado Calabrò ci immettono subito nelle circostanze della
poesia: il desiderio di voler guardare con coraggio fino a che punto la vita ci
avvolge e ci svolge e travolge. La sua preghiera laica è un imperativo
categorico: “gli occhi non possono morire”. Sembrerebbe che il punto di
partenza sia la verità che non può essere né smarrita, né tenuta a distanza,
d’altronde chi conosce Giuseppe sa che egli è radicale nelle sue scelte, sa
donare, ma anche essere imperturbabile in quello che scrive e pensa. Nella scialuppa
viaggiano così desideri e occhi spalancati quasi dolorosamente sorpresi di
quanto il mondo soffra e si dipanano le immagini in una nebbia che mostra i segni della sua
eternità :Tre bambine annegano/i volti
sull’asfalto/ e anche la ginestra/ sul ciglio della strada/ne fa violenza./
Vicino in pianura uno sguardo sulla soglia/del vecchio casolare/ e gli occhi si
chiudono. La costruzione del verso dà vita a una ninna nanna utile per medicare la violenza che la bimba e
la ginestra inermi creature hanno subito, di fronte ad esse la solitudine del
vecchio casolare che non guarda, né si cura del dolore. Per Manitta, che è uno studioso del Leopardi, potremmo
pensare agli influssi della poesia del più grande Maestro e,soprattutto, alla
centralità del dolore, ma esso appartiene al mondo intero, a tutti coloro che
vogliono indagare la vita che amano la vita e
la guardano in modo smagato a costo di farsi del male.
Gli occhi si
potrebbero chiudere uccisi dal dolore?
: Il ragazzo /non ascolta/ gli spari alle luminarie/, si
tocca il volto/, le gambe il petto/non si riconosce/: sente l’acetilene nelle
vene /, le luci dei santi in
processione/e le bestemmie del sangue.
Il verso breve, lontano, però, dalle forme fisse, non blandisce le tecniche della poesia di Ungaretti: verso breve, verbo che
occupa un solo verso, tutt’altro, c’è invece la ricerca accorta della parola, quella che sa
parlare alle menti e ai cuori. Quasi sempre fulminee, improvvise esse
accecano e scuotono: il tedio
trova vigore nella parola che costruisce
immagini. Il percorso della scrittura conferisce allo scritto un’autonomia che
gli permetterebbe di vivere anche da solo ed avrebbe un senso, qui si percepisce per intero che cosa gli
occhi, che non possono morire, soffrano per
il senso della distruzione di tutti i desideri, di tutte le passioni, per la
morte dell’amore. “Il modo cui egli ricorre felicemente è quello di accensioni
improvvise : l’ossimoro lo aiuta spesso a trovare un’espressione inedita.
Manitta giunge così a trasformare le sue occasioni in immagini originali e
tuttavia leggibili dall’altro da sé. Sono immagini, sono espressioni nuove, confinate
in genere in uno/due versi; il che evita sbavature al verso, fino alla
scarnificazione” [2]. Le notevoli
presenze, le immagini di cui ci parla Calabrò, sono riprese dalla cinepresa del poeta lentamente, anch’esse come il verso devono avere
vita dalla perfezione delle icone scelte e proposte, questa lentezza non preclude poi il fulgore, quasi una freccia rossa che deve colpire il lettore, avendo
come epilogo una ineluttabile presa di
coscienza radicale di quello che siamo o di quello che siamo diventati . “Le
immagini di Manitta noi le vediamo, le scopriamo, le facciamo nostre”[3]
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