lunedì 29 ottobre 2018


“Gli occhi non possono morire”   Di Giuseppe Manitta,  italic Ed.

Guardare il mondo con gli occhi di un poeta.

Giuseppe Manitta  ci ha sempre regalato opere importanti per la Letteratura,  anche la sua poesia è un fortilizio di immagini, un aiuto a riflettere, a rappresentare il mondo, un sobbalzo, un trasalimento . E’ un diaframma ampio che respira le arie di molti cantori, opere ben tessute che navigano verso la modernità sulla grandezza del mondo classico. Eschilo forse gli è maestro. Su questa barca senza timone, che spesso attraversa la lanugine del dolore, si pone, con variopinta ironia, una licenza ardita che  a volte sembrerebbe   una sfida in cui si scorge  un’arsura di gioie, una tensione nevralgica del quotidiano sentire . L’ansia creativa partorisce un verso di perfezione: limato e asciutto che non preclude all’immaginifico. Eppure , come nella sua grandezza di critico è pronto a indagare qualsiasi circostanza, così i suoi versi nascono da una logica attenta  dove confluiscono i silenzi di lunghe e pervasive peregrinazioni. La sua poesia si pone, dunque, in modo rigoroso, ma anche nell’urgenza di voler leggere, di saper leggere, di avanzare gli orizzonti dell’essere: ”le sensazioni, le percezioni giungono a Giuseppe Manitta dal quotidiano, dal mondo che lo circonda. Ma si staccano dal fiume lutulento in cui siamo immersi e che ci trasporta senza posa, vengono a galla e restano in sospensione col preannuncio di una scoperta, di una piccola rivelazione ”[1].Le parole chiare   di Corrado Calabrò  ci immettono subito nelle circostanze della poesia: il desiderio di voler guardare con coraggio fino a che punto la vita ci avvolge e ci svolge e travolge. La sua preghiera laica è un imperativo categorico: “gli occhi non possono morire”. Sembrerebbe che il punto di partenza sia la verità che non può essere né smarrita, né tenuta a distanza, d’altronde chi conosce Giuseppe sa che egli è radicale nelle sue scelte, sa donare, ma anche essere imperturbabile  in quello che scrive e pensa. Nella scialuppa viaggiano così desideri e occhi spalancati quasi dolorosamente sorpresi di quanto il mondo soffra e si dipanano le immagini  in una nebbia che mostra i segni della sua eternità :Tre bambine annegano/i volti sull’asfalto/ e anche la ginestra/ sul ciglio della strada/ne fa violenza./ Vicino in pianura uno sguardo sulla soglia/del vecchio casolare/ e gli occhi si chiudono.  La costruzione del verso  dà vita a una ninna nanna  utile per medicare la violenza che la bimba e la ginestra inermi creature hanno subito, di fronte ad esse la solitudine del vecchio casolare che non guarda, né si cura del dolore. Per Manitta,  che è uno studioso del Leopardi, potremmo pensare agli influssi della poesia del più grande Maestro e,soprattutto, alla centralità del dolore, ma esso appartiene al mondo intero, a tutti coloro che vogliono indagare la vita che amano la vita e  la guardano in modo smagato a costo di farsi del male.

 Gli occhi si potrebbero  chiudere  uccisi dal dolore?

: Il ragazzo /non ascolta/ gli spari alle luminarie/, si tocca il volto/, le gambe il petto/non si riconosce/: sente l’acetilene nelle vene /, le luci dei santi in processione/e le bestemmie del sangue.   Il verso breve, lontano, però, dalle forme fisse, non  blandisce le tecniche della  poesia di Ungaretti: verso breve, verbo che occupa un solo verso, tutt’altro, c’è invece  la ricerca accorta della parola, quella che sa parlare alle menti e ai cuori. Quasi sempre fulminee,  improvvise  esse  accecano  e scuotono: il tedio trova vigore nella  parola che costruisce immagini. Il percorso della scrittura conferisce allo scritto un’autonomia che gli permetterebbe di vivere anche da solo ed avrebbe un senso,  qui si percepisce per intero che cosa gli occhi, che non possono morire, soffrano  per il senso della distruzione di tutti i desideri, di tutte le passioni, per la morte dell’amore. “Il modo cui egli ricorre felicemente è quello di accensioni improvvise : l’ossimoro lo aiuta spesso a trovare un’espressione inedita. Manitta giunge così a trasformare le sue occasioni in immagini originali e tuttavia leggibili dall’altro da sé. Sono immagini, sono espressioni nuove, confinate in genere in uno/due versi; il che evita sbavature al verso, fino alla scarnificazione” [2]. Le notevoli presenze, le immagini di cui ci parla Calabrò,  sono riprese dalla cinepresa del poeta  lentamente, anch’esse come il verso devono avere vita dalla perfezione delle icone scelte e proposte, questa lentezza non  preclude poi il fulgore, quasi  una  freccia rossa che deve colpire il lettore, avendo come epilogo una  ineluttabile presa di coscienza radicale di quello che siamo o di quello che siamo diventati . “Le immagini di Manitta noi le vediamo, le scopriamo, le facciamo nostre”[3]





[1] Dalla prefazione al libro di Corrado Calabrò
[2] idem
[3] Idem

Nessun commento:

Posta un commento