TUTTE LE POESIE
RENATO FILIPPELLI
Curatrice Fiammetta Filippelli
Prefazione di Emerico Giachery
Postfazione di Francesco D’Episcopo
Gangemi Editore, Roma, maggio 2015
LA PIU’
SACRA DELLE PREGHIERE
DI
CARMEN
MOSCARIELLO
Lo conobbi nel 1981,
io giovanissima al mio secondo incarico, ma già di ruolo in una scuola, quella
del Magistrale “Cicerone” di Formia in via Olivetani, allora piccolo idioma di
felicità e armonia, per far comprendere meglio un’Arcadia del Metastasio. Egli
era il più importante, già allora
stimato e riverito, ma lo affiancavano importanti nomi, anche di scrittori di
buona fama, e aleggiava nelle aule l’odore di poesia e di onestà. Uomini onesti
e culturalmente di grande levatura, avevano contribuito a creare nel “Cicerone”
un centro di cultura fra i più importanti d’Italia, al quale molti guardavano
con invidia e rispetto.
Filippelli si muoveva rispettosissimo di tutti, arrivava
sempre di corsa la mattina con infiniti libri tra le braccia, figli scomposti
di padre amoroso che non conosceva l’ordine, gli pendevano, li perdeva, li
cercava.
Io mi muovevo tra quelle Menti con paura di aprire bocca,
di dire qualcosa di sbagliato, senza contare che il prof. Filippelli, per me
che venivo dal “Suor Orsola Benincasa”, era una specie di divinità, anche
perché molto amico di Nicola Cilento, col quale mi ero laureata e che per me
aveva una tenerezza immensa.
Ricordo, come fosse ora, il primo incontro, fu il Poeta ad
iniziare: “Professoressa, ho saputo che lei viene dal Suor Orsola, so anche che
è stata un’eccellente studentessa”. Da lì è iniziato un rapporto di amicizia e
di intensa stima che è durato fino all’ultimo giorno della sua vita. Andandolo
a trovare spesso, si è intensificato anche un rapporto meraviglioso con la sua
bella e intelligente moglie Mimma e con i suoi figli, nei quali vedo
rispecchiate la sua umanità e grandezza.
Fu il Magistrale luogo di importanti dialoghi con lui:
nelle ore libere dall’insegnamento passeggiavamo avanti e dietro nel lungo
corridoio della scuola, raccontandoci tutto, lì timidamente gli feci leggere i
miei primi scritti; severissimo nelle analisi, credo d’aver dovuto aspettare
dieci anni per il primo “va bene”. Devo a lui la mia scrittura, ma per tanti
aspetti anche la mia formazione così radicale, consolidatasi dalla vicinanza alla sua
personalità così onesta, senza infingimenti o ipocrisie.
Si può dire che passavamo giornate intere a scuola, anche nel
pomeriggio eravamo impegnati entrambi nei corsi integrativi, tre ore quasi mai
pagate, per il gusto di dare, di educare, certi che stavamo facendo del bene.
Incontro oggi gli alunni di allora e tutti si vantano orgogliosi di essere
stati alunni di Filippelli e allora come ora lo amano e lo ringraziano per
quanto ha donato. Insegnavamo entrambi nel corso “C”, io e il professor Antonio
Prota ci alternavamo sulla cattedra di Latino ed egli aveva la cattedra
d’Italiano che io ho ereditato, quando si è trasferito definitivamente al Suor
Orsola Benincasa. Per quanto mi riguarda poi, mi ha sempre difeso da attacchi e
da cattiverie subite nella mia vita, fino all’ultimo giorno della sua
esistenza. Condivideva le mie battaglie e si scontrava anche fortemente con chi
cercava di farmi del male, né risparmiava critiche a me, se riteneva che avessi
sbagliato o se mi esponessi fortemente ai pericoli. Gli piaceva comunque il mio
stare sempre sulle barricate.
Oggi quest’uomo grande, a cui molti debbono rispetto e
amore, ci manca come presenza fisica e culturale: dalla sua morte il Sud Pontino
ha subito una decadenza preoccupante, un depauperamento. Grazie a lui, che ci
faceva generosamente conoscere le più grandi personalità della cultura
italiana, ospitandole nelle nostre città con convegni di grande interesse,
ognuno di noi si migliorava e poteva meglio guardare alla vita e al suo
prossimo con prospettive positive. Ha sempre rinnegato con sdegno la cultura “clientelare”,
sottolineandone la volgarità e il pericolo che essa costituiva.
Alla luce di quanto sopra, si comprende la gioia con la
quale accogliamo la pubblicazione dell’opera che raccoglie tutte le sue poesie;
il testo è curato dalla figlia Fiammetta, sua collaboratrice in lavori
importanti; una gioia sfogliarlo, leggerlo, rileggerlo, ritrovarlo nelle
immagini a colori, nel cd-rom che completa il libro, risentire la sua voce con
tonalità perfette.
Filippelli sapeva leggere la Poesia, farla amare dagli
alunni e dal pubblico, conquistarli, affascinarli.
Il libro comprende tutte le sillogi pubblicate in vita e
post mortem: Vent’anni; Il cinto della
Veronica (prefazione di Edoardo Gennarini); Ombre dal Sud (prefazione di Emerico Giachery); Ritratto da nascondere (prefazione di
Fernando Figurelli); Requiem per il padre
(prefazione di Rosario Assunto); Plenilunio
nella palude; Dai fatti alle parole; Spiritualità (prefazione di mons. Raffaele
Nogaro).
Forse quest’opera potrà finalmente aiutarci a scrivere di
nuovo sulla Poesia di Filippelli (su di essa ho tenuto giovanissima un corso di
approfondimento durato un anno e del Poeta ho pubblicato recensioni per ogni
sua silloge), forse avremo la forza per riesaminare i suoi scritti alla luce di
una critica distaccata.
L’opera in oggetto ci ripropone il suo percorso poetico: il
verso pur nei tracciati dell’aratro antico è poi attraversato da un nuovo vento
che si appresta ad introdurci in un mare fecondo di intensità d’affetti, di
passioni, di bellezza.
Soprattutto nelle ultime tre raccolte il Poeta dà alla
parola un condensato di vita spirituale che pare talvolta di leggere “Le Confessioni”
di Agostino. Egli si esamina tutto, si confessa, dà alla scrittura
un’appartenenza liturgica, evangelica, pur conservando la densità e la forza di
tutte le passioni e le debolezze umane. Ora che tutta la sua opera appare così
bene composta, riordinata, pubblicazione dopo pubblicazione, ognuna di essa, così
come il Poeta l’aveva pensata, appare chiaro al lettore il percorso culturale e
umano di un’intera vita dedicata alla scrittura come esperienza dell’uomo e poi
del Poeta che si torce con forza nella ricerca di Dio, lo invoca nelle sue ore
di dolore, ha pietas per l’uomo senza destino, dando alla poesia un valore non
solo lirico, ma anche teologale.
Guardandolo, a volte, quando era molto malato, io che ne
avevo conosciuto l’irruenza, la determinazione, il fuoco che metteva in ogni
suo pensiero, l’irrequietezza dei suoi giorni, lo vedevo sereno, nonostante
tutto, ancora desideroso di aiutare il prossimo, prodigo di consigli per gli
amici, pronto ad ascoltare e consolare per le loro sofferenze. Così era fatto,
così è la sua poesia: generosa, vera, autentica in ogni suo spasimo.
Lo stile pacatamente
ragionato si apre all’improvviso in un terremoto di immagini, si squarcia il
mare amato per divenire nembo. Il percorso filosofico è rispettoso della
“logica”, la troviamo in particolar modo in Plenilunio
della palude, quest’opera è di estremo interesse, poiché segna il passaggio
dalla poesia della memoria e della pietas, alla strada della Croce, alla ricerca
di Dio, a volte sordo alle preghiere
dell’uomo, questo percorso diventerà ben presto la strada del Golgota, assumendo
una densità religiosa che lo porterà a percorrere ogni formella della passione
di Cristo.
La svolta poetica non è solo nei contenuti, ma anche la
parola poetica in Plenilunio nella palude,
il verso si fa scarno, le composizioni brevi, la furia di chi cerca,
difficilmente controllabile, a volte distruttiva. Il luogo del cranio è anche una svolta decisiva per la sua vita di
uomo (In questo periodo lo vado a trovare in un ospedale romano, gravemente
provato da un intervento chirurgico). Credo che in questo luogo di dolore, prenda
distacco dalla sua condizione umana, la
esamina in tutte le sue cubature e decide di portarne il peso, pur
nell’assoluto dolore, affidandosi a Dio e cogliendo le cose belle, anche
minime, che la vita ancora gli riservava.
Era amorevole con gli amici che non smettevano d’andarlo a
trovare, amorevole con la sua famiglia. La gioia di vivere, l’amore per la vita
ha avuto il sopravvento su tutto; né voleva morire: “Voglio difendere questo
filo di vita che ancora mi resta, godermi i
nipoti” e lì ad indicarmi le loro fotografie che colorate spiccavano con
le altre che tappezzavano per intero le pareti; potevi rivederlo nelle foto con
Domenico Rea e Michele Prisco e gli altri grandi del nostro secolo, o guardare
a sinistra, alle spalle della sua scrivania, dove aveva posizionato una
bellissima foto della moglie Mimma, giovanissima, quasi Madonna.
Dividerei le grandi raccolte di Filippelli in tre fasi. La
prima che comprende: Vent’anni,[1]Il
cinto della Veronica,[2],
quella centrale, molto meridionalistica (dolce
Sud) con Ombre dal Sud[3]
e Ritratto da nascondere[4],
Requiem per il padre[5],
la terza fase con Plenilunio nella palude,
Dai fatti alle parole e Spiritualità.
La poetica come figlia della memoria ha un ruolo importante
nelle opere della prima fase: il ripercorre, l’esaminare fino allo spasimo è
una sua caratteristica anche degli inizi; dominante per molto tempo nella sua
poesia è la figura del padre e le condizione del Sud. Pietoso, egli nel ricordo
dà vita alla memoria, eterna nei palpiti del giorno l’umile esistenza della sua
gente, nei sussurri delle pietre, nei fruscii dello strame, battuto e lavorato dalle
donne, rotola il dolore, nei cunicoli delle guerre piange le miserie del Sud. Nella
grandezza della poesia di questa prima fase si erge la bellezza delle donne e
la passione dell’amore, i furori della mente che avvolgono e distruggono, né
mancano poesie indimenticabili dedicate alla figlia Fiammetta e alla moglie.
Dà corpo e voce a chi non ce l’ha, carica le cose di un
calore umano, raccoglie il lembo del più povero per farne ornamento d’altare: Oggi ho inchiodato una lapide/ sulla
facciata della vecchia casa/di campagna che vide la mia infanzia/raccolta
nell’abbraccio/degli occhi e del respiro/dei poveri, di stirpe contadina/Due
parole vi ho inciso: Domus Patris/E dunque è Tua/e di Don Carlo e dei morti/ di
cui delusi la paternità/Sia da te benedetta./ E fa’ che i figli/miei, venendo
da lontani/ grovigli di rimorsi e nostalgie,/ v’entrino per cercarmi, come
s’entra/ in una piccola chiesa.[6]
Filippelli con mano sapiente dà sacralità alle cose e le
innalza alla soglia dei valori che reggono la vita e la rendono degna d’amore.
Le cose intese come appartenenza agli affetti, come percorso di vita verso ciò
che conta e amiamo.
Disprezzava la poesia sperimentale e lo sperimentalismo tout
court, in genere; spesso, affrontava nei suoi discorsi sulla poetica questo
argomento, battendosi per i valori etici dai quali la poesia deve nascere, essa
non era solo la musa Calliope che ispira, per Filippelli la Poesia era il dono più
divino che Dio avesse concesso all’uomo, a quell’altare potevano accedere solo coloro
che possedeva un’autentica fede. La difesa della poesia assumeva in alcuni
convegni toni appassionati, l’abbraccio
di pietre e ombre (Ombre dal Sud),
il sussulto, che si protraeva nel tempo, provocato dalla morte, che in Requiem per il padre è nel contempo doloroso distacco, ma anche protagonista e regina di vita; la presenza
della morte si ripropone assidua nelle
ultime tre raccolte, intesa quale terribile sofferenza per chi è costretto suo
malgrado a lasciare gli affetti e nel contempo diviene preparazione profonda a
consegnarsi al cuore di Dio, alla sua divina misericordia, nella preghiera e
nella richiesta del perdono.
Arpa
grandiosa sopra le tue corde/la mano della morte/
Tenta
gli accordi. Ma non puoi morire[7]
La fedeltà di Filippelli alla poesia era pari a quella di Shelley
in Defense of Poetry: ha un ruolo
sociale determinante, questa centralità della poesia l’ ha difesa con
determinato coraggio dai negazionisti, da quelli che guardano con compatimento
il Poeta.
La sua eloquenza ci faceva sentire uniti, coesi; ancora più
oggi, quando ripenso ai nostri “Incontri con la Poesia”, ai quali partecipavano
decine di poeti, ricordo ancora le sue parole: “la poesia va intesa come una
margherita di carta i cui petali sono raggiera alla vita”, delicata, fragile e
nel contempo eterna e insostituibile, incarnazione di tutte le cose della vita
e della morte.
In questa prima fase, come già dicevamo, la bellezza della
donna e della natura assume un ruolo dominante: Filippelli amava il bello, se
ne lasciava dominare e conquistare, qui egli diveniva augure pagano.
La cima delle cose che sapeva leggere con intuito e che
spesso gli permetteva di scalare l’essenza di Dio, cogliendola nella sua
assoluta grandezza, lo portava poi a precipitare, in un doloroso pentimento, a
raccogliere il povero essere dell’umanità confusa, fino a sostanziarsi in
preghiera profonda che gli apriva dolorosi squarci dell’enigma della sofferenza
che ci sovrasta.
Per ciò che attiene quella che ho definito la “terza fase”,
va sottolineato il traguardo della fede. Filippelli è stato sempre credente e,
se pensiamo al suo cuore generoso, crediamo che egli abbia risposto a uno dei
fattori fondanti del cristianesimo che è nell’amore per il prossimo. Altro
tassello che non va sottovalutato è quello di essere stato un grande educatore.
Molte generazioni si sono ben formate alla sua scuola, fu un grande lavoratore
nella vigna del Signore, egli produceva frutti sani, senza malattie, in umiltà,
nel rispetto assoluto dei suoi alunni; riusciva a trovare in ognuno di essi un
“fuoco”, una passione e su quella costruiva la loro formazione. Nelle classi di
Filippelli non c’erano alunni “asini” o maleducati, bastava una sua parola e
tutto si ricomponeva e là dove vedeva del “fradicio”, era meglio scomparire
dalla sua presenza. Non era persona adattabile, nella scuola, come ho detto,
molti l’amavano e rispettavano il suo lavoro, e, senza saperlo, lo rispettavano
anche gli invidiosi e i maldicenti.
Spesso, soprattutto gli amici, sottolineano il suo garbo,
la sua eleganza nel porsi socialmente e culturalmente: è vero, il Poeta era
anche questo, ma a volte, il dono della poesia che egli possedeva in sommo
grado era anche “artiglio”[8],
lo scavava, lo tormentava, lo portava vicino al desiderio della fine, l’acqua
cattiva lo travolgeva fino ad annientarlo. La barca oscura emerge in molti
componimenti che fanno tremare le vene, tanto egli appare vicino alla fine: Figli che mi portate sulle spalle/come il
pietoso Enea portò suo padre,/se voi non foste il filo che ricuce/brandelli
alla speranza della vita,/mi getterei nel vuoto della valle/Come un fantasma in
fuga dalla luce.[9]
Qui la superfice dello Stige non è solo sfiorata, la
chiglia che percorre l’imbarcazione da poppa a prua ha ceduto, è solo la fede
dell’Amore che lo salva.
Alla caduta si riallaccia la preghiera che non è mai
enfasi, scivola limpida e chiara l’invocazione che permette al cuore e alla
mente di ritornare consapevoli del nostro destino e invoca Dio, desideroso di
essere accolto dalle sue braccia pietose e finalmente cogliere il mistero che
il dialogo con le ombre e con la malattia ha reso non solo possibile, ma intenso: Viverti è risalire le sorgenti/del mondo, dove coltri/di mistero si
squarciano/ e in abissi/d’azzurro plana il volo delle allodole/Viverti è la
ventura dello sguardo/che scopre i fili della tessitura/del cosmo e li
riannoda/giorno per giorno, trepido adorante/per farne l’unità del Tuo pensiero.[10]
E’ un dolce planare, un discendere che è salire, una
ricerca lenta sfogliata nell’ora del tempo, rubricata, una lenta appartenenza
al di Dio “muto” dei suoi versi.
C’è in questa tessitura la grande svolta della poesia di
Filippelli che diviene teologale, le vesti umili del cercatore che a tozzo a
tozzo trova alla fine la strada: il suo calvario ha consacrato la sua poesia.
Les
temples de la nuit[11] hanno
chiarori obliqui, rami piegati che permettono l’attraversamento, un cammino che
è nero e bianco, un’ascesi che è dettata dall’ardore.
L’incisione che il dolore ha inflitto alla carne, ora si
trasformato in supplica.
Il
n’est plus de nuits, il n’est plus de jours[12],
tutto ora scorre, egli non segna più con i suoi passi la sabbia della spiaggia
di Scauri, dove lo si poteva vedere passeggiare da solo con il Borsalino bianco
a falde larghe, lottare col vento, già nuvola leggera.
Il bulino ha inciso il rame e lo zinco della sua scrittura
che rimane in trasparenza ardita e delicata, sfumata, a volte, quasi il Poeta
volesse rendere l’endecasillabo leggero: lo destruttura con l’enjambement, lo
ricompone poi nella sua armonia in sintesi compositiva. Tutte le sue poesie si
chiudono poi con un’immagine e una considerazione che non lasciano dubbi, gli
ultimi due o tre versi li senti come una staffilata al cuore. La sua scrittura,
anche quella che ritroviamo nelle sue bellissime Letterature o Enciclopedie[13],
ha nel linguaggio un fermento, una dirittura di immagini, un adeguamento
rivoluzionario dell’autore all’opera: trattati che non lasciano scampo.
L’immagine
e la sintesi compositiva
Nella struttura del verso le opere trovano man mano nuova
collocazione, fino ad arrivare alle ultime sue tre pubblicazioni Plenilunio nella palude, Dai fatti alle
parole, Spiritualità.
Le tre opere segnano una grande svolta nella poetica di
Filippelli: l’espressività prorompente passionale, ricca di metafore con
accordi e simboli attraversati dalla perfetta limatura di ogni parola o virgola
e poi quelle sintesi “divine” poste alla fine di ogni poesia a suggello della
verità conquistata. In effetti i due “opposti”, la passione irruenta e la
perfezione del verso, si fondono nel testo poetico: le poesie conservano la
passionalità quasi istintiva, anche quando il lavoro di perfezionamento della
parola è tradotto oltre ogni limite. Il tracciato prende consistenza dalle
prime battute per condensarsi ed esplodere in finale. E’ una Turandòt febbrile,
un’attivazione della forma che si inebria nel focolaio della malattia, è lo
scioglimento dell’enigma che aveva tenuto stretto il cuore del poeta. Egli non
solo configura l’immagine, ma essa si regge e trova perfezione solo in un
grande sentire, nello stringerla tra le dita del cuore per non perderla e
donarcela.
E’ morto il Poeta Renato Filippelli
Avete finito di battere i tamburi a
cadenza di morte ….e più nessuno grida, “Mio Dio perché mi hai lasciato”
Il Poeta è morto e i ritocchi della campana sono straziati dal dolore. E’
morto un uomo che aveva la pietà nel cuore.
Il Maestro è morto, Egli ci ha insegnato la Poesia, il decoro dell’uomo,
la dignità del giusto, la generosità per
tutti. Bastava bussare alla sua porta e ogni artista era ascoltato e
valorizzato dalla grandezza della sua parola, dalla generosità del suo cuore.
Proprio ieri sfogliando l’ultimo catalogo dei pittori Bartolomeo e Soscia, una
gemma in seconda pagina, una recensione
che il Poeta scrisse per Bartolomeo venti anni fa, ben custodita, immensa per
il suo sentire, senza confini per la sua cultura che si muoveva maestosa dalla
Poesia alla pittura, dalla pittura alla musica.
Questa terra pontina deve molto a
Filippelli , egli in un’età di barbaria e di latrocini ha incarnato la strada
della luce, in una ricerca accorata di Dio. La sua poesia è una preghiera avvolgente, sdegnosa del male, con la
convinzione che al centro del mondo c’è l’uomo con la sua dignità .
Umile, uno come tanti, operaio di
sogni il grande Poeta ci lascia
eredi della sua arte, ci battezza con le sue mani, affinchè la fiaccola antica
non si spenga. Che Egli riposi nella casa
del Padre e sereno raccolga carezze per Mimma , per i suoi adorati figli e
nipoti.
Le parole sono inadeguate per raccontare la sua assenza.
Questo premio letterario che lui insieme a Mario Rizzi hanno
reso prestigioso è vedovo della sua guida, dico qui, quello che dissi alla
figlia Fiammetta: Come faremo senza Renato.
Anche nel dolore e nella nostalgia della sua presenza
bisogna dire che Il Poeta Renato Filippelli è stato un vincente.
Un vincente perché mai ha rinunziato alla sua dignità
di uomo e di Artista, non ha mai piegato il suo ginocchio davanti a nessuno e tantomeno
ai p
[1] da
Renato Fiippelli Tutte le poesie, Gangemi
Editore, pg 30. Vent’anni fu
pubblicata da Gastaldi Editore, Milano 1956.
[2] L’opera
fu pubblicata con la casa editrice “Centro artistico internazionale”,
prefazione di Edoardo Gennarini, Varese 1964.
[3] L’opera
ha la preziosa prefazione di Emerico Giachery, Ed. “Istituto Editoriale del Mezzogiorno”,
1971.
[4] L’opera
è prefata da Fernando Figurelli, Ed. Loffredo, Napoli 1975.
[5] L’opera
ha la prefazione di Rosario Assunto, Edizioni Bastogi, il Liocorno, Foggia.
[6] “Domus
Patris”, pg 318, Plenilunio nella palude,
Edizioni Scientifiche Italiane.
[7] “… Di un
privilegiato dalla sorte al mare”, poesia, dalla raccolta Plenilunio nella palude, pg 404, 1977.
[8] Giuseppe
Limone: L’artiglio e la preghiera.
[9] ”di un
padre tratto in salvo”, pg 403, Dai fatti alle parole, L’Ippogrifo.
[10] “Lo
sguardo”, pg 299, da Plenilunio nella
palude.
[11] Opera
pittorica di Jean Pierre Velly,
acquaforte su rame.
[12] Tristan
Corbiér
[13] L’Eredità letteraria, opera magna in
sette volumi scritta in collaborazione con la figlia Fiammetta, Editrice
Simone. La letteratura ebbe ed ha un grande successo. Su questi testi hanno
studiato milioni di studenti in ogni parte d’Italia. Tutti i miei alunni si
sono formati sui tanti libri scolastici di Filippelli, conseguendo grande
proprietà ed eleganza nella scrittura e nella conoscenza della letteratura promotrice e custode di civiltà.
“Mi è costata la salute”, mi disse un giorno a Scauri,
tale fu la mole di lavoro della quale si fece carico, coinvolgendo la figlia,
che è stata preziosa collaboratrice.
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