domenica 24 dicembre 2017


TUTTE LE POESIE  RENATO FILIPPELLI

Curatrice Fiammetta Filippelli

Prefazione di Emerico Giachery

Postfazione di Francesco D’Episcopo

Gangemi Editore, Roma, maggio 2015

LA PIU’ SACRA DELLE PREGHIERE

DI

CARMEN MOSCARIELLO

Lo conobbi nel  1981, io giovanissima al mio secondo incarico, ma già di ruolo in una scuola, quella del Magistrale “Cicerone” di Formia in via Olivetani, allora piccolo idioma di felicità e armonia, per far comprendere meglio un’Arcadia del Metastasio. Egli era il più importante,  già allora stimato e riverito, ma lo affiancavano importanti nomi, anche di scrittori di buona fama, e aleggiava nelle aule l’odore di poesia e di onestà. Uomini onesti e culturalmente di grande levatura, avevano contribuito a creare nel “Cicerone” un centro di cultura fra i più importanti d’Italia, al quale molti guardavano con invidia e rispetto.

Filippelli si muoveva rispettosissimo di tutti, arrivava sempre di corsa la mattina con infiniti libri tra le braccia, figli scomposti di padre amoroso che non conosceva l’ordine, gli pendevano, li perdeva, li cercava.

Io mi muovevo tra quelle Menti con paura di aprire bocca, di dire qualcosa di sbagliato, senza contare che il prof. Filippelli, per me che venivo dal “Suor Orsola Benincasa”, era una specie di divinità, anche perché molto amico di Nicola Cilento, col quale mi ero laureata e che per me aveva una tenerezza immensa.

Ricordo, come fosse ora, il primo incontro, fu il Poeta ad iniziare: “Professoressa, ho saputo che lei viene dal Suor Orsola, so anche che è stata un’eccellente studentessa”. Da lì è iniziato un rapporto di amicizia e di intensa stima che è durato fino all’ultimo giorno della sua vita. Andandolo a trovare spesso, si è intensificato anche un rapporto meraviglioso con la sua bella e intelligente moglie Mimma e con i suoi figli, nei quali vedo rispecchiate la sua umanità e grandezza.  

Fu il Magistrale luogo di importanti dialoghi con lui: nelle ore libere dall’insegnamento passeggiavamo avanti e dietro nel lungo corridoio della scuola, raccontandoci tutto, lì timidamente gli feci leggere i miei primi scritti; severissimo nelle analisi, credo d’aver dovuto aspettare dieci anni per il primo “va bene”. Devo a lui la mia scrittura, ma per tanti aspetti anche la mia formazione così radicale,  consolidatasi dalla vicinanza alla sua personalità così onesta, senza infingimenti o ipocrisie.

Si può dire che passavamo giornate intere a scuola, anche nel pomeriggio eravamo impegnati entrambi nei corsi integrativi, tre ore quasi mai pagate, per il gusto di dare, di educare, certi che stavamo facendo del bene. Incontro oggi gli alunni di allora e tutti si vantano orgogliosi di essere stati alunni di Filippelli e allora come ora lo amano e lo ringraziano per quanto ha donato. Insegnavamo entrambi nel corso “C”, io e il professor Antonio Prota ci alternavamo sulla cattedra di Latino ed egli aveva la cattedra d’Italiano che io ho ereditato, quando si è trasferito definitivamente al Suor Orsola Benincasa. Per quanto mi riguarda poi, mi ha sempre difeso da attacchi e da cattiverie subite nella mia vita, fino all’ultimo giorno della sua esistenza. Condivideva le mie battaglie e si scontrava anche fortemente con chi cercava di farmi del male, né risparmiava critiche a me, se riteneva che avessi sbagliato o se mi esponessi fortemente ai pericoli. Gli piaceva comunque il mio stare sempre sulle barricate.

Oggi quest’uomo grande, a cui molti debbono rispetto e amore, ci manca come presenza fisica e culturale: dalla sua morte il Sud Pontino ha subito una decadenza preoccupante, un depauperamento. Grazie a lui, che ci faceva generosamente conoscere le più grandi personalità della cultura italiana, ospitandole nelle nostre città con convegni di grande interesse, ognuno di noi si migliorava e poteva meglio guardare alla vita e al suo prossimo con prospettive positive. Ha sempre rinnegato con sdegno la cultura “clientelare”, sottolineandone la volgarità e il pericolo che essa costituiva. 

Alla luce di quanto sopra, si comprende la gioia con la quale accogliamo la pubblicazione dell’opera che raccoglie tutte le sue poesie; il testo è curato dalla figlia Fiammetta, sua collaboratrice in lavori importanti; una gioia sfogliarlo, leggerlo, rileggerlo, ritrovarlo nelle immagini a colori, nel cd-rom che completa il libro, risentire la sua voce con tonalità perfette.

Filippelli sapeva leggere la Poesia, farla amare dagli alunni e dal pubblico, conquistarli, affascinarli.

Il libro comprende tutte le sillogi pubblicate in vita e post mortem: Vent’anni; Il cinto della Veronica (prefazione di Edoardo Gennarini); Ombre dal Sud (prefazione di Emerico Giachery); Ritratto da nascondere (prefazione di Fernando Figurelli); Requiem per il padre (prefazione di Rosario Assunto); Plenilunio nella palude; Dai fatti alle parole; Spiritualità (prefazione di mons. Raffaele Nogaro).

Forse quest’opera potrà finalmente aiutarci a scrivere di nuovo sulla Poesia di Filippelli (su di essa ho tenuto giovanissima un corso di approfondimento durato un anno e del Poeta ho pubblicato recensioni per ogni sua silloge), forse avremo la forza per riesaminare i suoi scritti alla luce di una critica distaccata.

L’opera in oggetto ci ripropone il suo percorso poetico: il verso pur nei tracciati dell’aratro antico è poi attraversato da un nuovo vento che si appresta ad introdurci in un mare fecondo di intensità d’affetti, di passioni, di bellezza.

Soprattutto nelle ultime tre raccolte il Poeta dà alla parola un condensato di vita spirituale che pare talvolta di leggere “Le Confessioni” di Agostino. Egli si esamina tutto, si confessa, dà alla scrittura un’appartenenza liturgica, evangelica, pur conservando la densità e la forza di tutte le passioni e le debolezze umane. Ora che tutta la sua opera appare così bene composta, riordinata, pubblicazione dopo pubblicazione, ognuna di essa, così come il Poeta l’aveva pensata, appare chiaro al lettore il percorso culturale e umano di un’intera vita dedicata alla scrittura come esperienza dell’uomo e poi del Poeta che si torce con forza nella ricerca di Dio, lo invoca nelle sue ore di dolore, ha pietas per l’uomo senza destino, dando alla poesia un valore non solo lirico, ma anche teologale.

Guardandolo, a volte, quando era molto malato, io che ne avevo conosciuto l’irruenza, la determinazione, il fuoco che metteva in ogni suo pensiero, l’irrequietezza dei suoi giorni, lo vedevo sereno, nonostante tutto, ancora desideroso di aiutare il prossimo, prodigo di consigli per gli amici, pronto ad ascoltare e consolare per le loro sofferenze. Così era fatto, così è la sua poesia: generosa, vera, autentica in ogni suo spasimo.

 Lo stile pacatamente ragionato si apre all’improvviso in un terremoto di immagini, si squarcia il mare amato per divenire nembo. Il percorso filosofico è rispettoso della “logica”, la troviamo in particolar modo in Plenilunio della palude, quest’opera è di estremo interesse, poiché segna il passaggio dalla poesia della memoria e della pietas, alla strada della Croce, alla ricerca di  Dio, a volte sordo alle preghiere dell’uomo, questo percorso diventerà ben presto la strada del Golgota, assumendo una densità religiosa che lo porterà a percorrere ogni formella della passione di Cristo.

La svolta poetica non è solo nei contenuti, ma anche la parola poetica in Plenilunio nella palude, il verso si fa scarno, le composizioni brevi, la furia di chi cerca, difficilmente controllabile, a volte distruttiva. Il luogo del cranio è anche una svolta decisiva per la sua vita di uomo (In questo periodo lo vado a trovare in un ospedale romano, gravemente provato da un intervento chirurgico). Credo che in questo luogo di dolore, prenda distacco dalla sua condizione umana,  la esamina in tutte le sue cubature e decide di portarne il peso, pur nell’assoluto dolore, affidandosi a Dio e cogliendo le cose belle, anche minime, che la vita ancora gli riservava.

Era amorevole con gli amici che non smettevano d’andarlo a trovare, amorevole con la sua famiglia. La gioia di vivere, l’amore per la vita ha avuto il sopravvento su tutto; né voleva morire: “Voglio difendere questo filo di vita che ancora mi resta, godermi i  nipoti” e lì ad indicarmi le loro fotografie che colorate spiccavano con le altre che tappezzavano per intero le pareti; potevi rivederlo nelle foto con Domenico Rea e Michele Prisco e gli altri grandi del nostro secolo, o guardare a sinistra, alle spalle della sua scrivania, dove aveva posizionato una bellissima foto della moglie Mimma, giovanissima, quasi Madonna.

Dividerei le grandi raccolte di Filippelli in tre fasi. La prima che comprende: Vent’anni,[1]Il cinto della Veronica,[2], quella centrale, molto meridionalistica (dolce Sud) con Ombre dal Sud[3] e Ritratto da nascondere[4], Requiem per il padre[5], la terza fase con Plenilunio nella palude, Dai fatti alle parole e Spiritualità.

La poetica come figlia della memoria ha un ruolo importante nelle opere della prima fase: il ripercorre, l’esaminare fino allo spasimo è una sua caratteristica anche degli inizi; dominante per molto tempo nella sua poesia è la figura del padre e le condizione del Sud. Pietoso, egli nel ricordo dà vita alla memoria, eterna nei palpiti del giorno l’umile esistenza della sua gente, nei sussurri delle pietre, nei fruscii dello strame, battuto e lavorato dalle donne, rotola il dolore, nei cunicoli delle guerre piange le miserie del Sud. Nella grandezza della poesia di questa prima fase si erge la bellezza delle donne e la passione dell’amore, i furori della mente che avvolgono e distruggono, né mancano poesie indimenticabili dedicate alla figlia Fiammetta e alla moglie.

Dà corpo e voce a chi non ce l’ha, carica le cose di un calore umano, raccoglie il lembo del più povero per farne ornamento d’altare: Oggi ho inchiodato una lapide/ sulla facciata della vecchia casa/di campagna che vide la mia infanzia/raccolta nell’abbraccio/degli occhi e del respiro/dei poveri, di stirpe contadina/Due parole vi ho inciso: Domus Patris/E dunque è Tua/e di Don Carlo e dei morti/ di cui delusi la paternità/Sia da te benedetta./ E fa’ che i figli/miei, venendo da lontani/ grovigli di rimorsi e nostalgie,/ v’entrino per cercarmi, come s’entra/ in una piccola chiesa.[6]

Filippelli con mano sapiente dà sacralità alle cose e le innalza alla soglia dei valori che reggono la vita e la rendono degna d’amore. Le cose intese come appartenenza agli affetti, come percorso di vita verso ciò che conta e amiamo.

Disprezzava la poesia sperimentale e lo sperimentalismo tout court, in genere; spesso, affrontava nei suoi discorsi sulla poetica questo argomento, battendosi per i valori etici dai quali la poesia deve nascere, essa non era solo la musa Calliope che ispira, per Filippelli la Poesia era il dono più divino che Dio avesse concesso all’uomo, a quell’altare potevano accedere solo coloro che possedeva un’autentica fede. La difesa della poesia assumeva in alcuni convegni toni appassionati, l’abbraccio  di pietre e ombre (Ombre dal Sud), il sussulto, che si protraeva nel tempo, provocato dalla morte, che in Requiem per il padre è nel contempo doloroso distacco, ma anche  protagonista e regina di vita; la presenza della morte si ripropone  assidua nelle ultime tre raccolte, intesa quale terribile sofferenza per chi è costretto suo malgrado a lasciare gli affetti e nel contempo diviene preparazione profonda a consegnarsi al cuore di Dio, alla sua divina misericordia, nella preghiera e nella richiesta del perdono.

Arpa grandiosa sopra le tue corde/la mano della morte/

Tenta gli accordi. Ma non puoi morire[7]

La fedeltà di Filippelli alla poesia era pari a quella di Shelley in Defense of Poetry: ha un ruolo sociale determinante, questa centralità della poesia l’ ha difesa con determinato coraggio dai negazionisti, da quelli che guardano con compatimento il Poeta.

La sua eloquenza ci faceva sentire uniti, coesi; ancora più oggi, quando ripenso ai nostri “Incontri con la Poesia”, ai quali partecipavano decine di poeti, ricordo ancora le sue parole: “la poesia va intesa come una margherita di carta i cui petali sono raggiera alla vita”, delicata, fragile e nel contempo eterna e insostituibile, incarnazione di tutte le cose della vita e della morte.

In questa prima fase, come già dicevamo, la bellezza della donna e della natura assume un ruolo dominante: Filippelli amava il bello, se ne lasciava dominare e conquistare, qui egli diveniva augure pagano.

La cima delle cose che sapeva leggere con intuito e che spesso gli permetteva di scalare l’essenza di Dio, cogliendola nella sua assoluta grandezza, lo portava poi a precipitare, in un doloroso pentimento, a raccogliere il povero essere dell’umanità confusa, fino a sostanziarsi in preghiera profonda che gli apriva dolorosi squarci dell’enigma della sofferenza che ci sovrasta.

Per ciò che attiene quella che ho definito la “terza fase”, va sottolineato il traguardo della fede. Filippelli è stato sempre credente e, se pensiamo al suo cuore generoso, crediamo che egli abbia risposto a uno dei fattori fondanti del cristianesimo che è nell’amore per il prossimo. Altro tassello che non va sottovalutato è quello di essere stato un grande educatore. Molte generazioni si sono ben formate alla sua scuola, fu un grande lavoratore nella vigna del Signore, egli produceva frutti sani, senza malattie, in umiltà, nel rispetto assoluto dei suoi alunni; riusciva a trovare in ognuno di essi un “fuoco”, una passione e su quella costruiva la loro formazione. Nelle classi di Filippelli non c’erano alunni “asini” o maleducati, bastava una sua parola e tutto si ricomponeva e là dove vedeva del “fradicio”, era meglio scomparire dalla sua presenza. Non era persona adattabile, nella scuola, come ho detto, molti l’amavano e rispettavano il suo lavoro, e, senza saperlo, lo rispettavano anche gli invidiosi e i maldicenti.

Spesso, soprattutto gli amici, sottolineano il suo garbo, la sua eleganza nel porsi socialmente e culturalmente: è vero, il Poeta era anche questo, ma a volte, il dono della poesia che egli possedeva in sommo grado era anche “artiglio”[8], lo scavava, lo tormentava, lo portava vicino al desiderio della fine, l’acqua cattiva lo travolgeva fino ad annientarlo. La barca oscura emerge in molti componimenti che fanno tremare le vene, tanto egli appare vicino alla fine: Figli che mi portate sulle spalle/come il pietoso Enea portò suo padre,/se voi non foste il filo che ricuce/brandelli alla speranza della vita,/mi getterei nel vuoto della valle/Come un fantasma in fuga dalla luce.[9]

Qui la superfice dello Stige non è solo sfiorata, la chiglia che percorre l’imbarcazione da poppa a prua ha ceduto, è solo la fede dell’Amore che lo salva.

Alla caduta si riallaccia la preghiera che non è mai enfasi, scivola limpida e chiara l’invocazione che permette al cuore e alla mente di ritornare consapevoli del nostro destino e invoca Dio, desideroso di essere accolto dalle sue braccia pietose e finalmente cogliere il mistero che il dialogo con le ombre e con la malattia ha reso non solo  possibile, ma intenso: Viverti è risalire le sorgenti/del mondo, dove coltri/di mistero si squarciano/ e in abissi/d’azzurro plana il volo delle allodole/Viverti è la ventura dello sguardo/che scopre i fili della tessitura/del cosmo e li riannoda/giorno per giorno, trepido adorante/per farne l’unità del Tuo pensiero.[10]

E’ un dolce planare, un discendere che è salire, una ricerca lenta sfogliata nell’ora del tempo, rubricata, una lenta appartenenza al di Dio “muto” dei suoi versi.

C’è in questa tessitura la grande svolta della poesia di Filippelli che diviene teologale, le vesti umili del cercatore che a tozzo a tozzo trova alla fine la strada: il suo calvario ha consacrato la sua poesia.

Les temples de la nuit[11] hanno chiarori obliqui, rami piegati che permettono l’attraversamento, un cammino che è nero e bianco, un’ascesi che è dettata dall’ardore.

L’incisione che il dolore ha inflitto alla carne, ora si trasformato in supplica.

Il n’est plus de nuits, il n’est plus de jours[12], tutto ora scorre, egli non segna più con i suoi passi la sabbia della spiaggia di Scauri, dove lo si poteva vedere passeggiare da solo con il Borsalino bianco a falde larghe, lottare col vento, già nuvola leggera.

Il bulino ha inciso il rame e lo zinco della sua scrittura che rimane in trasparenza ardita e delicata, sfumata, a volte, quasi il Poeta volesse rendere l’endecasillabo leggero: lo destruttura con l’enjambement, lo ricompone poi nella sua armonia in sintesi compositiva. Tutte le sue poesie si chiudono poi con un’immagine e una considerazione che non lasciano dubbi, gli ultimi due o tre versi li senti come una staffilata al cuore. La sua scrittura, anche quella che ritroviamo nelle sue bellissime Letterature o Enciclopedie[13], ha nel linguaggio un fermento, una dirittura di immagini, un adeguamento rivoluzionario dell’autore all’opera: trattati che non lasciano scampo.

L’immagine e la sintesi compositiva

Nella struttura del verso le opere trovano man mano nuova collocazione, fino ad arrivare alle ultime sue tre pubblicazioni Plenilunio nella palude, Dai fatti alle parole, Spiritualità.

Le tre opere segnano una grande svolta nella poetica di Filippelli: l’espressività prorompente passionale, ricca di metafore con accordi e simboli attraversati dalla perfetta limatura di ogni parola o virgola e poi quelle sintesi “divine” poste alla fine di ogni poesia a suggello della verità conquistata. In effetti i due “opposti”, la passione irruenta e la perfezione del verso, si fondono nel testo poetico: le poesie conservano la passionalità quasi istintiva, anche quando il lavoro di perfezionamento della parola è tradotto oltre ogni limite. Il tracciato prende consistenza dalle prime battute per condensarsi ed esplodere in finale. E’ una Turandòt febbrile, un’attivazione della forma che si inebria nel focolaio della malattia, è lo scioglimento dell’enigma che aveva tenuto stretto il cuore del poeta. Egli non solo configura l’immagine, ma essa si regge e trova perfezione solo in un grande sentire, nello stringerla tra le dita del cuore per non perderla e donarcela.

   E’ morto il Poeta Renato Filippelli

Avete finito di battere i tamburi a cadenza di morte ….e più nessuno grida, “Mio Dio perché mi hai lasciato”

Il Poeta è morto e i ritocchi della campana sono straziati dal dolore. E’ morto un uomo che aveva la pietà nel cuore.

Il Maestro è morto, Egli ci ha insegnato la Poesia, il decoro dell’uomo, la dignità  del giusto, la generosità per tutti. Bastava bussare alla sua porta e ogni artista era ascoltato e valorizzato dalla grandezza della sua parola, dalla generosità del suo cuore. Proprio ieri sfogliando l’ultimo catalogo dei pittori Bartolomeo e Soscia, una gemma in seconda pagina,  una recensione che il Poeta scrisse per Bartolomeo venti anni fa, ben custodita, immensa per il suo sentire, senza confini per la sua cultura che si muoveva maestosa dalla Poesia alla pittura, dalla pittura alla musica.

Questa terra pontina  deve molto a Filippelli , egli in un’età di barbaria e di latrocini ha incarnato la strada della luce, in una ricerca accorata di Dio. La sua poesia è una preghiera  avvolgente, sdegnosa del male, con la convinzione che al centro del mondo c’è l’uomo con la sua dignità .

Umile, uno come tanti, operaio di sogni  il grande Poeta ci lascia eredi della sua arte, ci battezza con le sue mani, affinchè la fiaccola antica non si spenga. Che Egli riposi nella casa del Padre e sereno raccolga carezze per Mimma , per i suoi adorati figli e nipoti.

Le parole sono inadeguate per raccontare la sua assenza.

Questo premio letterario che lui insieme a Mario Rizzi hanno reso prestigioso è vedovo della sua guida, dico qui, quello che dissi alla figlia Fiammetta: Come faremo senza Renato.

Anche nel dolore e nella nostalgia della sua presenza bisogna dire che Il Poeta Renato Filippelli è stato un vincente.
Un vincente perché mai ha rinunziato alla sua dignità di uomo e  di Artista, non  ha mai piegato il  suo ginocchio davanti a nessuno e tantomeno ai p


[1] da Renato Fiippelli Tutte le poesie, Gangemi Editore, pg 30. Vent’anni fu pubblicata da Gastaldi Editore, Milano 1956.
[2] L’opera fu pubblicata con la casa editrice “Centro artistico internazionale”, prefazione di Edoardo Gennarini, Varese 1964.
[3] L’opera ha la preziosa prefazione di Emerico Giachery, Ed. “Istituto Editoriale del Mezzogiorno”, 1971.
[4] L’opera è prefata da Fernando Figurelli, Ed. Loffredo, Napoli 1975.
[5] L’opera ha la prefazione di Rosario Assunto, Edizioni Bastogi, il Liocorno, Foggia.
[6] “Domus Patris”, pg 318, Plenilunio nella palude, Edizioni Scientifiche Italiane.
[7] “… Di un privilegiato dalla sorte al mare”, poesia, dalla raccolta Plenilunio nella palude, pg 404, 1977.
[8] Giuseppe Limone: L’artiglio e la preghiera.
[9] ”di un padre tratto in salvo”, pg 403,  Dai fatti alle parole, L’Ippogrifo.
[10] “Lo sguardo”, pg 299, da Plenilunio nella palude.
[11] Opera pittorica di Jean Pierre  Velly, acquaforte su rame.
[12] Tristan Corbiér
[13] L’Eredità letteraria, opera magna in sette volumi scritta in collaborazione con la figlia Fiammetta, Editrice Simone. La letteratura ebbe ed ha un grande successo. Su questi testi hanno studiato milioni di studenti in ogni parte d’Italia. Tutti i miei alunni si sono formati sui tanti libri scolastici di Filippelli, conseguendo grande proprietà ed eleganza nella scrittura e nella conoscenza della letteratura promotrice e custode di civiltà.
“Mi è costata la salute”, mi disse un giorno a Scauri, tale fu la mole di lavoro della quale si fece carico, coinvolgendo la figlia, che è stata preziosa collaboratrice.   

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