Come quella di Ibico è la sua Poesia .
A primavera, mentre fioriscono i meli
cidonei , irrigati dal giovane torrente e nel giardino delle vergini che ombrosi di nettare, sbocciano e fioriscono, profumano i vigneti,
per me Eros immortale, sempre
è irruento ,irrefrenabile in qualsivoglia stagione, con lui si animano i mie fiammeggianti urli di pazzia
un vento tracio irrequieto gelido proveniente dall’ alba
boreale, è gonfio di terribili tuoni e fulmini,
mi stravolge Afrodite, mi infiamma la mente e il cuore.[1]
Forse un giorno, Rhegion, proprio accanto al monumento eretto per Ibico,
ne farà scolpire uno uguale per eleganza e lucentezza per il poeta Dante Maffìa e, tanti altri
poeti, fra mille e cento anni, ancora ricorderanno
il suo ardore il suo amore per Reggio,
il suo andare e venire dal fascino di una terra dalla quale mai il poeta si è separato.
Anche Maffìa, partì per il Mondo, come Ibico che lasciò Rhegion e si recò
nella bella e luminosa Samos con il suo mare di scogli e le sue solitarie
casette basse, tutte colorate
d’azzurro, con i suoi pescatori ubriachi
di ouzo, storditi fin dal mattino,
sempre in cerca d’amori e il suo bosco di pini, subito alle spalle
del mare, quasi si protrae fino alla riva
e avvolge come corona il tempio di
Era, a proteggere i suoi odorosi vigneti che portano fresca ombra all’isola. Come Ibico
scelse Samos, un luogo identico per
bellezza e fascino alla sua terra natia, così Maffìa, ogni volta come esperto
astronauta e topografo di lungo corso, ridisegna dal mare e dal cielo, ovunque si
trovi, ogni via ,ogni monumento, ogni
ricordo dei suoi luoghi, con essi l’archetipo del suo dolore per millenni ho attraversato/i deserti più
infami [2],
in una mescolanza d’azzurro e grigio si mesce da un’ anfora diotica il nettare degli dei e uno strano veleno che è il miracolo del suo vigore, da esso è nato il coraggio di essere quello che è, senza infingimenti, né bugie. I suoi sono”… poemetti polimetri,” in cui si intrecciano e s’amalgamano interessi analitici e tensioni discorsive in un contesto immaginoso ed epico a un tempo. Il poeta trasmigra incessantemente col suo “io” da un presente in primo piano a un passato di sogni perduti, da un contesto di cultura moderna a una fascinazione mitica. Il risultato è sempre di cristallina chiarezza.”[3]
Queste precise parole di Luigi Reina scritte nel 1986, credo che valgano
tutte a confermare una poetica ampia e fascinosa che anima tutt’ora le sue recenti
opere, vedi per esempio “Ritorno a Reggio”[4].
La sua casa, gli abitanti del suo
cuore di allora e di ora, il cielo e il mare della Calabria, l’amore per
questi spazi abitati dagli dei
dell’Olimpo non sono solo ricordi,
bensì, essi sono il mito, qualcosa di eterno che appartiene e apparterrà a
tutti nei secoli. Un amore vero come
si può amare un grande amore è riservato a Reggio, una signora –donna, a lei è dedicato un canzoniere
tra i più belli della letteratura passata e presente, un amalgamarsi della scuola pitagorica- lirica
con il Dolce Stilnovo, con le sfumature della poesia di ogni tempo, un crater
che contiene il fascino di molte lingue, di una storia di dee e di donne:
la dea Artemide, la fata Morgana, il miti di Eros e Afrodite e ad esse lo
stringersi di storie vissute ieri, con quel miracolo che gli dei hanno voluto, facendo nascere Reggio. Il canto è
spiegato, ma si sublima non in qualcosa di astratto e puramente lirico, in
una serenata cantata con l’ibicino[5], tutt’altro, in questo canto ci sono tutti gli amori,
tutte le tenerezze che il poeta ha donato alle donne amate nella sua vita.
C’è troppo eros per pensare che l’inno all’amore sia soltanto un senso unico,
se così lo interpretassimo toglieremmo stupore alla sua poesia; la passione che infiamma i versi è determinante alla
loro grandezza e unicità:
“Se fosse possibile assaporare/ogni parte
del tuo corpo,/ sentire fremere gli usignoli di Venere” [6].Perciò, noi l’avviciniamo
a Ibico, che Cicerone considerava un poeta dell’amore erotico, vogliamo dire
che il transfer che il poeta applica nel suo teagenico[7] lirismo per Reggio,
nutrito di purezza di sogno, vive di un attraversamento erotico persistente.
Ha qualcosa di miracoloso.
Leggendo attentamente si provano
sensazioni quasi febbrili, ossia, poiché queste scritture sono ninfe di azalee
di una laguna immensa che parte dal VI
secolo, dalle grandezze imperiture della Magna Grecia per arrivare fino a noi
(Omaggio a Umberto Saba)[8], sul piano del sentire si
avverte un languore di odori di
ginestre, di fondali marini, di bronzi di Riace, tutto un universo assorbito
dalla Poesia, che testimonia il mare
immenso dell’anima. Nell’esaltazione del miracolo che gli dei hanno fatto regalandoci Reggio:”Anche a me,caro Borges, sembra una bugia/che Reggio Calabria sia
cominciata:/la guardo e mi sembra eterna./Come lo Spazio, come il Tempo e
L’Aria”; il poeta testimonia un cordone ombelicale che mai è stato
tagliato, non solo quello del mito e della bellezza, ma anche quello del
dolore che non conosce sponde, non si annega in mari diversi, quasi che esso
sia divenuto costituzionale al poeta e alla sua Poesia, ma anche ai luoghi
della sua infanzia. Dunque Reggio è amore, essa non è il ricordo della sofferenza, ma il dolore
vivo, intatto che alimenta questa grande Poesia che è il racconto della vita
del poeta, ma anche di Reggio città che
ha sofferto in ogni tempo:” :”Quel giorno ero nel mare a contemplare/i
sussulti e le intermittenze dei colori/che si scambiano carezze /con parole
sognanti e ardori di cicale….. Ci fu all’improvviso il buio./ lo
scardinamento delle forme/l’ecclissarsi della geometria/, l’inabissarsi/d’ogni
senso e ragione/ il guasto senza tregua , il caos divenuto imperatore. /
L’inferno in pieno assetto di guerra[9]
.Quindi, le strutture sono molteplici:
ci sono le silenziose sere e le albe dell’Olimpo, alle quali il poeta
geneticamente appartiene :”Io sono il
poeta”[10] “…; ci sono una “madre” e un figlio che sono la mappa di una sorte difficile, dove l’infingarda presenza della morte ha avuto un ruolo
troppo forte; c’è la distruzione di una parte della Calabria, vedi il
terremoto a Reggio del 1908; c’è il
refrigerio del mare e la coscienza di avere in sé la Bellezza,”I bronzi saranno al mio fianco,/un po’
dispiaciuti per la mia accecante bellezza”,[11] il poeta sa…di possederla, di essere portatore di bellezza; ci sono gli
spettri della paura, e ,comunque, il rimanere
divini di fronte al male: ” poi fu la
guerra e la rincorsa,/poi le perdite infinite/. I poeti arrancavano sulla
moltiplicazione della morte”.[12]
Da questo accomunamento nacque la
Poesia :I primi bagliori della parola
mi ridestarono,/“Ti riconosco Reggio,/riconosco la voce che arriva /da
millenni distratti,/ da concupiscenze altere,/dai fondali di una
storia/d’eterni arcobaleni che hanno saputo intrecciare/ leggenda e storia”[13]
Così i versi di Maffìa hanno le stesse
stratificazioni di Rhegion, si nutrono di miti, di abbandoni, di sogni, di
sfide, della profondità del mare, di
ferite sempre aperte, di un cuore immortale che prende per mano la sua vita e
quello del mondo, quasi che questo fosse un bambino: lo lava, gli ridà vigore per
salvarlo dal caos.
La scrittura si pone come una telecamera che zooma senza sosta i luoghi dell’anima e i luoghi della città,
ogni sasso ,ogni pietra, tutti i granelli di quella sabbia sono l’eredità
preziosa del poeta, ”i marenghi d’oro” che la città gli ha donato, li ha coccolati, li ha moltiplicati, sono
diventati granelli sacri di un rosario, facendo della parola una forza di
riscatto, non solo per se stesso, ma soprattutto per Reggio e i suoi abitanti, oggi la città è
amata e conosciuta, compreso il suo dialetto solo grazie alla Poesia di Maffìa, non c’è altro cantore. Egli è, come Omero fu per Troia e i suoi eroi.
Calamitati da un pianeta misterioso sono il mito, il mare, la morte, i
versi, il silenzio: è una processione corale,
sono canti corali come quelli di
ibico, o meglio quelli di Orfeo che ammaliano, che colorano il dolore con vesti rosse di seta, con
altari senza madonne, sciamano che
viaggia tra la forza della vita e il conforto dei suoi morti.
Una passione che conosce uno strano intreccio, una volontà di seguire
certi percorsi nella speranza di incontrare la sua Euridice.
L’Euridice dei versi di Maffìa è una donna che ha occhi gentili,
mani generose, semplicità di cuore, parole di miele, balsamo per le sue
paure, Rosina [14],
sua madre che nel tempo ha occupato spazi dei quali nemmeno il poeta si rende conto fino in fondo, di quanto siano grandi. “Unico faro, caro Baudelaire,/il caminetto della
vecchia casa/al mio paese. Mia madre accende/ buttando olio ai ceppi. E’ una
vampata/che distrugge e subito ricrea/verità insolenti, cumoli indistinti/ e
folli pause di consunta luce/. Mia madre soffia gemono i lari./S’apre la vita
a netti orizzonti/blu rossi vividi. La mia porzione/la divoro intera: neutra
canzone/senza fine e principio[15]
E’ lei che la mattina gli parla, lo mette in guardia, lo informa sul
tempo. Sa che suo figlio è “particolare” è un genio che può destare invidia,
la sera lo abbraccia ,lo consola, cura con unguenti preziosi e profumati le sue
ferite: Rosina che dorme da anni tra
gli ulivi e il mare,/ non ha voluto aspettare/una nipote, una nipotina./ Se
n’è andata in sordina/ con un lungo sospiro.… Rosina era giuliva/ capiva i
miei umori/mi raccontava della sua fanciullezza/ ….Rosina sempre seduta /
sfogliava anche lei il libro dei morti.[16]
C’è un “pezzo” di vita che Maffia con la sua ostinazione, col suo ardore
vuole recuperare, vorrebbe che le cose tornassero a posto e che gli scalini
della sua casa fossero ben piantati che non ci fossero inciampi, anche nella
luce egli è “in cerca d’ombre”. A
volte accostandoci ai suoi versi sembra di leggere nel fuoco di Prometeo
quella promessa che acceca, quel patto che
il poeta ha fatto con Dio, pretende che la sua fetta di cielo non sia
offuscata o si perda come un delfino nei ghirigori delle onde, negli arcobaleni
della parola, nello stridere “eroico”
delle cicale. L’infanzia di Reggio è anche la sua, nel trionfo della deità dei bronzi di Riace c’è l’immane potenza dei
suoi versi, l’accorato ascolto delle profondità del mare, c’è la
sua Poesia che corteggia Reggio e la
consegna al mondo, la rende immortale.
Carmen Moscariello |
[1] Ibico,
Frammenti. Rielaborazione di Carmen Moscariello. Ibico fu Poeta della poesia
erotica (Cicerone);
1. Ibico nacque a Reggio
Calabria, all’incirca nella metà del VI secolo, fu poeta cantore dei fanciulli
(efebo). Figlio di Fitio, ebbe come suo maestro il poeta Stesicoro, conobbe a Corinto (qui morì assassinato)il poeta Anacreonte;
[2] Opera
citata,La scia, pg 41;
[3] Luigi
Reina, Invito al 900”, pg.1072”Unico
faro”, FerraroE, Napoli gennaio 1986;
[4] Dante
Maffìa, Ritorno a Reggio, prefazione
di Giuseppe Bova, Città del sole, 2019;
[5]
Strumento musicale inventato da Ibico;
[6] Opera
citata, Se fosse possibile, pg. 44;
[7] Poeta
della Scuola Lirica (pitagorica) ,scuola esistente a Reggio e che poi si
allargò a tutto il mondo culturale di quel periodo;
[8] Opera
citata, pg 52;
[9] Dante
maffia, 1908. Opera citata. Nella poesia c’è il ricordo del drammatico
maremoo e terremoto a Messina e a Reggio che rase al suolo le due città e i
luoghi vicini;
[10] Pg 17,
opera citata “Al Museo”;
[11] Opera
citata,Nel fondo del mare. Pg.43;
[13] Dante
Maffià , “Ritorno a Reggio” “Ritorno”
(dedica a Giuseppe Bova), pg11.Città del sole, Thegium Julii,marzo 2019;
[14] Dante
Maffìa “Le due Rosine”;
[15] Luigi
Reina, opera citata, pg1072 “Unico faro…”;
[16] Luigi
Reina, Itinerario poetico di Dante Maffìa in Percorsi di Poesia, Alfredo Guida
Editore.
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