venerdì 15 maggio 2020

Dante Maffìa: Il tracciamento del Dolore e dell'Amore









Come quella di Ibico è la sua Poesia .

A primavera, mentre fioriscono  i meli
cidonei ,  irrigati dal giovane
torrente e  nel giardino delle vergini
  

che ombrosi di nettare,
sbocciano e fioriscono, profumano i vigneti,
per me Eros immortale, sempre
è irruento ,irrefrenabile in qualsivoglia  stagione,
 con lui si animano i  mie fiammeggianti urli di pazzia  
un  vento tracio  irrequieto gelido proveniente dall’ alba boreale, è gonfio di terribili tuoni e fulmini,
mi stravolge  Afrodite, mi infiamma  la mente e il cuore.[1]

Forse un giorno, Rhegion, proprio accanto al monumento eretto per Ibico, ne farà scolpire uno uguale per eleganza e lucentezza  per il poeta Dante Maffìa e, tanti altri poeti, fra mille e cento anni,  ancora ricorderanno  il suo ardore il suo amore per Reggio, il suo andare e venire dal fascino di  una terra dalla quale mai il poeta si è separato. 
Anche Maffìa,   partì per il Mondo, come Ibico che  lasciò Rhegion  e si recò  nella bella e luminosa Samos con il suo mare di scogli e le sue solitarie casette basse,  tutte colorate d’azzurro, con  i suoi pescatori ubriachi di  ouzo, storditi fin dal mattino, sempre  in cerca d’amori  e il suo bosco di pini, subito alle spalle del mare, quasi  si protrae fino alla riva e avvolge come corona il  tempio di Era,  a proteggere  i suoi odorosi vigneti che  portano fresca ombra all’isola. Come Ibico scelse Samos,  un luogo identico per bellezza e fascino alla sua terra natia, così Maffìa, ogni volta come esperto astronauta  e topografo  di lungo corso,   ridisegna dal mare e dal cielo, ovunque si trovi,  ogni via ,ogni monumento, ogni ricordo dei suoi luoghi, con essi l’archetipo del suo dolore per millenni ho attraversato/i deserti più infami [2],
in  una mescolanza d’azzurro e grigio si mesce  da un’ anfora diotica il nettare degli dei e uno strano  veleno che  è il miracolo del suo vigore, da esso è nato  il coraggio di essere quello che è, senza infingimenti, né bugie. I suoi sono”… poemetti polimetri,” in cui si intrecciano e s’amalgamano interessi analitici  e tensioni discorsive in un contesto immaginoso ed epico a un tempo. Il poeta trasmigra incessantemente col suo “io” da un presente in primo piano a un passato di sogni perduti, da un contesto di cultura moderna a una fascinazione mitica. Il risultato è sempre di cristallina chiarezza.”[3]
Queste precise parole di Luigi Reina scritte nel 1986, credo che valgano tutte a confermare una poetica ampia e fascinosa che anima tutt’ora le sue recenti opere, vedi per esempio “Ritorno a Reggio”[4].
La sua casa,  gli abitanti del suo cuore di allora e di ora, il cielo e il mare della Calabria, l’amore per questi spazi  abitati dagli dei dell’Olimpo non sono solo  ricordi, bensì, essi sono il mito, qualcosa di eterno che appartiene e apparterrà a tutti nei secoli.  Un amore vero come si può amare un grande amore è riservato a Reggio, una  signora –donna, a lei è dedicato un canzoniere tra i più belli della letteratura passata e presente, un  amalgamarsi della scuola pitagorica- lirica con il Dolce Stilnovo, con le sfumature della poesia di ogni tempo, un   crater che contiene il fascino di molte lingue, di una storia di dee e di donne: la dea Artemide, la fata Morgana, il miti di Eros e Afrodite e ad esse lo stringersi di storie vissute ieri, con quel miracolo che gli dei hanno  voluto, facendo nascere Reggio. Il canto è spiegato, ma si sublima non in qualcosa di astratto e puramente lirico, in una serenata cantata con l’ibicino[5], tutt’altro,  in questo canto ci sono tutti gli amori, tutte le tenerezze che il poeta ha donato alle donne amate nella sua vita. C’è troppo eros per pensare che l’inno all’amore sia soltanto un senso unico, se così lo interpretassimo toglieremmo stupore alla sua poesia; la passione  che infiamma i versi è determinante alla loro grandezza e unicità:
 “Se fosse possibile assaporare/ogni parte del tuo corpo,/ sentire fremere gli usignoli di Venere” [6].Perciò, noi l’avviciniamo a Ibico, che Cicerone considerava un poeta dell’amore erotico, vogliamo dire che il transfer che il poeta applica nel suo   teagenico[7] lirismo per Reggio, nutrito di purezza di sogno, vive di  un attraversamento erotico persistente.
 Ha qualcosa di miracoloso.
 Leggendo attentamente si provano sensazioni quasi febbrili, ossia,  poiché queste scritture sono ninfe di azalee di  una laguna immensa che parte dal VI secolo, dalle grandezze imperiture della Magna Grecia per arrivare fino a noi (Omaggio a Umberto Saba)[8], sul piano del sentire si avverte  un languore di odori di ginestre, di  fondali marini, di  bronzi di Riace, tutto un universo assorbito dalla Poesia, che testimonia  il mare immenso dell’anima. Nell’esaltazione del miracolo che gli dei hanno  fatto regalandoci Reggio:”Anche a me,caro Borges, sembra una bugia/che Reggio Calabria sia cominciata:/la guardo e mi sembra eterna./Come lo Spazio, come il Tempo e L’Aria”; il poeta testimonia  un cordone ombelicale che mai è stato tagliato, non solo quello del mito e della bellezza, ma anche quello del dolore che non conosce sponde, non si annega in mari diversi, quasi che esso sia divenuto costituzionale al poeta e alla sua Poesia, ma anche ai luoghi della sua infanzia. Dunque Reggio è amore, essa non è  il ricordo della sofferenza, ma il dolore vivo, intatto che alimenta questa grande Poesia che è il racconto della vita del poeta, ma anche di Reggio  città che ha sofferto in ogni tempo: :”Quel giorno ero nel mare a contemplare/i sussulti e le intermittenze dei colori/che si scambiano carezze /con parole sognanti e ardori di cicale….. Ci fu all’improvviso il buio./ lo scardinamento delle forme/l’ecclissarsi della geometria/, l’inabissarsi/d’ogni senso e ragione/ il guasto senza tregua , il caos divenuto imperatore. / L’inferno in pieno assetto di guerra[9] .Quindi, le strutture  sono molteplici: ci sono le silenziose sere e le albe dell’Olimpo, alle quali il poeta geneticamente appartiene :”Io sono il poeta”[10] “…; ci sono  una  “madre” e un  figlio che sono la mappa di  una sorte difficile, dove l’infingarda  presenza della morte ha avuto un ruolo troppo forte; c’è la distruzione di una parte della Calabria, vedi il terremoto a Reggio del 1908; c’è  il refrigerio del mare e la coscienza di avere in sé la Bellezza,”I bronzi saranno al mio fianco,/un po’ dispiaciuti per la mia accecante bellezza”,[11] il poeta  sa…di possederla, di  essere portatore di bellezza; ci sono gli spettri della paura, e ,comunque, il  rimanere divini di fronte al male: ” poi fu la guerra e la rincorsa,/poi le perdite infinite/. I poeti arrancavano sulla moltiplicazione della morte”.[12] Da questo accomunamento  nacque la Poesia :I primi bagliori della parola mi ridestarono,/“Ti riconosco Reggio,/riconosco la voce che arriva /da millenni distratti,/ da concupiscenze altere,/dai fondali di una storia/d’eterni arcobaleni che hanno saputo intrecciare/ leggenda e storia”[13]
Così i versi di Maffìa hanno  le stesse stratificazioni di Rhegion, si nutrono di miti, di abbandoni, di sogni, di sfide,  della profondità del mare, di ferite sempre aperte, di un cuore immortale che prende per mano la sua vita e quello del mondo, quasi che questo fosse  un bambino: lo lava, gli ridà vigore per salvarlo dal caos.
 La scrittura si pone come  una telecamera che zooma senza sosta  i luoghi dell’anima e i luoghi della città, ogni sasso ,ogni pietra, tutti i granelli di quella sabbia sono l’eredità preziosa del poeta, ”i marenghi d’oro” che la città gli ha donato,  li ha coccolati, li ha moltiplicati, sono diventati granelli sacri di un  rosario, facendo della parola una forza di riscatto, non solo per se stesso, ma soprattutto per  Reggio e i suoi abitanti, oggi la città è amata e conosciuta, compreso il suo dialetto solo grazie alla Poesia di  Maffìa, non c’è altro cantore. Egli è, come  Omero fu per Troia e i suoi eroi.
Calamitati da un pianeta misterioso sono il mito, il mare, la morte, i versi, il silenzio: è una processione corale,  sono  canti corali come quelli di ibico, o meglio quelli di Orfeo che ammaliano, che colorano  il dolore con vesti rosse di seta, con altari senza madonne,  sciamano che viaggia tra la forza della vita e il conforto dei suoi morti.
Una passione che conosce uno strano intreccio, una volontà di seguire certi percorsi nella speranza di incontrare la sua Euridice.
 L’Euridice dei versi di  Maffìa è una donna che ha occhi gentili, mani generose, semplicità di cuore, parole di miele, balsamo per le sue paure, Rosina [14], sua madre che nel tempo ha occupato spazi dei quali nemmeno il  poeta si rende conto fino in fondo,  di quanto siano grandi. “Unico faro, caro Baudelaire,/il caminetto della vecchia casa/al mio paese. Mia madre accende/ buttando olio ai ceppi. E’ una vampata/che distrugge e subito ricrea/verità insolenti, cumoli indistinti/ e folli pause di consunta luce/. Mia madre soffia gemono i lari./S’apre la vita a netti orizzonti/blu rossi vividi. La mia porzione/la divoro intera: neutra canzone/senza fine e principio[15]
E’ lei che la mattina gli parla, lo mette in guardia, lo informa sul tempo. Sa che suo figlio è “particolare” è un genio che può destare invidia, la sera lo abbraccia ,lo consola, cura con unguenti preziosi e profumati   le sue ferite: Rosina che dorme da anni tra gli ulivi e il mare,/ non ha voluto aspettare/una nipote, una nipotina./ Se n’è andata in sordina/ con un lungo sospiro.… Rosina era giuliva/ capiva i miei umori/mi raccontava della sua fanciullezza/ ….Rosina sempre seduta / sfogliava anche lei il libro dei morti.[16]
C’è un “pezzo” di vita che Maffia con la sua ostinazione, col suo ardore vuole recuperare, vorrebbe che le cose tornassero a posto e che gli scalini della sua casa fossero ben piantati che non ci fossero inciampi, anche nella luce egli è “in cerca d’ombre”. A volte accostandoci ai suoi versi sembra di leggere nel fuoco di Prometeo quella promessa che acceca, quel patto che  il poeta ha fatto con Dio, pretende che la sua fetta di cielo non sia offuscata o si perda come un delfino  nei ghirigori delle onde, negli arcobaleni della parola, nello stridere “eroico” delle cicale. L’infanzia di Reggio è anche la sua, nel trionfo della deità  dei bronzi di Riace c’è l’immane potenza dei suoi versi, l’accorato ascolto delle profondità del mare,  c’è  la sua Poesia che  corteggia Reggio e la consegna al mondo, la rende immortale.

Carmen Moscariello





[1] Ibico, Frammenti. Rielaborazione di Carmen Moscariello. Ibico fu Poeta della poesia erotica (Cicerone);
1.     Ibico nacque a Reggio Calabria, all’incirca nella metà del VI secolo, fu poeta cantore dei fanciulli (efebo). Figlio di Fitio, ebbe come suo maestro il poeta  Stesicoro,  conobbe a Corinto  (qui morì assassinato)il  poeta Anacreonte;

[2] Opera citata,La scia, pg 41;
[3] Luigi Reina, Invito al 900”, pg.1072”Unico faro”, FerraroE, Napoli gennaio 1986;
[4] Dante Maffìa, Ritorno a Reggio, prefazione di Giuseppe Bova, Città del sole, 2019;
[5] Strumento musicale inventato da Ibico;
[6] Opera citata, Se fosse possibile, pg. 44;
[7] Poeta della Scuola Lirica (pitagorica) ,scuola esistente a Reggio e che poi si allargò a tutto il mondo culturale di quel periodo;
[8] Opera citata, pg 52;
[9] Dante maffia,  1908. Opera citata. Nella poesia c’è il ricordo del drammatico maremoo e terremoto a Messina e a Reggio che rase al suolo le due città e i luoghi vicini;

[10] Pg 17, opera citata “Al Museo”;
[11] Opera citata,Nel fondo del mare. Pg.43;
[13] Dante Maffià , “Ritorno a Reggio” “Ritorno” (dedica a Giuseppe Bova), pg11.Città del sole, Thegium Julii,marzo 2019;
[14] Dante Maffìa “Le due Rosine”;
[15] Luigi Reina, opera citata, pg1072 “Unico faro…”;
[16] Luigi Reina, Itinerario poetico di Dante Maffìa in Percorsi di Poesia, Alfredo Guida Editore.

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