domenica 3 maggio 2020

Il David del Bronx. I luoghi nella poesia di Dante Maffìa


Dante Maffia
I luoghi nella Poesia di Dante Maffìa.






Il David del Bronx










Federico Garcìa Lorca è il Poeta che più mi fa pensare a  Maffìa. I due grandi Maestri d’Infinito sono   irruenti,(…gli faccio , / vedere le cicatrici del cuore, degli occhi, del cielo… ),[1]anarchici frombolieri, due David immortali del Bronx: “cantavano mostrando le loro cinture/con la ruota, l’olio, il cuoio e il martello//Novantamila minatori  traevano l’argento  dalle rocce,/i bambini disegnavano scale e prospettive.”[2]
 Né Dante Maffia teme il Bronx: “Io il Bronx ce l’ho nell’anima.. “… si fermi qui./ Io so come rendere innocui  i teppisti”[3]. I due Immensi, nella loro Poesia appaiono rudi e fragili, nati per fare i poeti, per trarre dalle miniere della vita, non solo il bello, ma tutto il dolore del mondo.  Importanti nella  Poesia del Figlio della Sibaritide  sono i luoghi; come, d'altronde,   l’intero universo: cielo e terra; mari e monti; città e abissi metropolitani; spettri e sogni (Neve in sogno). Anche le cose, non solo i libri[4] sono parte viva nella sua Poesia, è il poeta che parla non a un generico mondo, ma anche agli oggetti umili del suo quotidiano, così lo si può sorprendere a colloquio con una tazza col caffè :”sei sbreccata, vecchia zitella ormai/certo ricordo le prime volte,/ma i fiorellini azzurri ormai /ti sono sbiaditi./ Non farti sentire altrimenti per me si mette male// Smettila anche tu o finirai in cocci/Dì anche al caffè di tacere,/siamo tra nemici sospettosi e cattivi”[5]
I luoghi di Maffìa non costituiscono mai approdi, nemmeno la sua Calabria, seppure amata al disopra di tutto, può dirsi rifugio, egli appartiene al mistero a un  fluido romboidale destinato ad esplorare, in cerchi concentri , come Dante nell’ Empireo e nell’Inferno, il logos dell’universo.
 E’ un Maestrale , a volte, violento , porta  con sé nella sua solitudine e nel suo dolore   i falchi che il grande Federico gli ha regalato, con essi si orienta e dibatte e in loro compagnia  vola sulle Spiagge del Mulino.[6]Però sappiate che ho di fronte il mare,/Che posso vedervi ancora bambine/e ascoltare la voce dei vostri sogni/e che sono l’unico ospite/alla mensa di Federico/mentre brontola ai falconi/o mi legge i suoi versi.[7] Questi versi di straordinaria e unica bellezza, dedicate alle sue due figlie, non solo a Rosa e che aprono la raccolta Neve Ardente con la prima parte titolata “Figlie” testimoniano in modo franco (come sa esserlo solo Maffìa) che sa di appartenere come figlio  non tanto  alla Calabria, ma si sente, come uomo e Poeta, di appartenere alla storia, al pari del grande Federico.
Maffià non ama nessuna accademia, nessun tessuto di seta, né i salotti e i mandolini,  egli è schivo, uno di quei venti  padroni del cielo e della terra, sa di esserlo, ma non è felice, né si accontenta di essere un dio.  E’ un vento che scompiglia.   Parte la sua vita dal  Castello di Roseto Capo Spulico, qui da piccolo ha brindato con i torrioni merlati del castello che l’accolsero fanciullo, da qui  leggeva il  suo futuro nelle mani del cielo, già con corona d’argento, con dentro un dolore così grande da fargli desiderare di preferire i fondali limpidi di quel suo mare,   e orientava a  piacimento   la direzione dei venti, accarezzava nella disperazione delle ferite aperte da chi troppo presto gli era stato rapito, i granelli di sabbia della sua spiaggia che erano la sua dote, il suo tesoro di perle.
Tra stelle e  comete, guerre e ribellioni, nenie e racconti della sua gente maturò l’incanto per la  vita e per l’amore. Già all’alba, spuntando appena il sole si lasciava attraversare da scie di luci e di rimpianti, a cavalcioni sulle  ruote  del vecchio Mulino e le spighe di mare erano  il suo canto. Sulla sua  guancia di bambino portava già stampate due lacrime che saranno eterno tatuaggio alla sua anima:La Calabria che lo scirocco sferza/non so se venendo o andando verso il mare./La campagna ora arsa ora verde/con pompamagna di vigneti e ulivi/è sempre qui, ingombra la mia anima,/la tesse e la distesse nei giulivi/pomeriggi d’estate, negli inverni amari/e tristi d’ore interminabili./La Calabria che pretende amore/-e non sa bene se sia donna o falco-/io la sradico, la esalto, la sotterro,/la benedico e maledico e poi/la invoco: madre, tomba, cielo,/condanna, luce che non tramonta mai”.
 Dante Maffia è  pellegrino, nessun luogo  può calmare il suo dolore, né braccia che possano  dare tregua alla sua inquietudine, se non l’abbraccio  delle ombre invocate che non l’abbandonano, forse le uniche che gli fanno compagnia.
 E’  Ulisse senza la sua Itaca.
I suoi approdi non sono da Nausica , sanno di ruggine amara di esiliato che non sa dove dirigere la sua nave.
Ed ecco che si profila nella sua vita la città di Torino,[8] terra di esiliati, (quanti sono i meridionali che nella Città della  Fiat hanno costruito il loro “destino”, seppelliti là dove non volevano morire), città con false promesse come L’America per gli altri raminghi emigrati meridionali:” Torino della mia infanzia / era la culla dell’ordine e della ricchezza / e presentarsi a me con quella schifezza / di bidoni consunti, di giornali vecchi, / su cui c’erano vistose cacche di topi / mi fece male” (Mi meravigliai). “Per le strade di Torino”, avventurarsi per quelle strade… l’orrore dei bidoni dove anche lì ,nella città della ricchezza ,i poveri continuano a frugare e la nebbia e le ombre che attediano l’animo fino a temere che tutto è morto, solo rimangono i lamenti dei morti che invocano il mare e il tepore del dolce cielo natio. E’ una città di fronte alla quale il Poeta inorridisce, dalla quale il Poeta fugge,” :Cantilene di sporcizia, di cadute a picco/sulla vertigine dello sballo. Nei letti caldi/dei più la consolazione del televisore”, dove l’anima  si accartoccia, dove la solitudine è cosi immensa da creare una itinerante astenia, un’assenza di appartenersi, se non il sentirsi vivo solo in furiosi assalti sessuali, sempre nelle strade occasionali  e nella notte che dopo la furia    lasciano il pianto e il vuoto. Continua tortuoso , come in un labirinto di mostri il vagare per via Po, Porta Nuova, corso Unione Sovietica, corso Galileo Ferraris, via Lagrange, via Spano, via Roma, via Tunisi, via Novara, le Molinette, il vecchio stadio, i Murazzi, il ghetto ebraico, via Cibrario, la collina di Superga, E’ come se il Poeta nel voler ostinatamente puntualizzare, voglia anche distruggere ogni ricordo, meglio morire che vedere ciò che i suoi occhi hanno visto e, ancora, insiste,  Porta Palazzo, via Paoli,  Un lungo inganno che persiste. “E” la fatica delle “camminate” per le strade della città.[9]
Il Poeta- Ulisse ha vagato per tutto il mondo. Alcune Nazioni Il Giappone, L’Africa l’hanno accolto come un dio, riconoscendogli la sua grandezza di Poeta e  oratore.
 Poi venne New York .
Mai si sentì più dolorosamente estraneo alla vita e, sempre di più,  nel suo cuore piuma, dopo piuma creò un nido sullo strapiombo del Castello tra mare e cielo, qui nel suo infinito avanzare incontrava i suoi morti . Aveva sulla sua nave  alzato uno stendardo, con disegnata la Rosa dei venti, era la sua bacchetta per l’orchestra: li dirigeva in un concerto di violini e pommedije  narrate da donne col fazzoletto nero in testa, a coprire pudiche i loro capelli neri , e le mani logorate dal lavoro:  Me rassegn?allu sciullaminte, alli scuncizze/ntusinghese sbròded’u fùche da poguedìje…Tutta l’America contrapposta  al suo cuore: “Non riesco a scrollarmi di dosso/il rumore/fatto di mani alzate a chiedere soccorso. Un livido schiocco di serpi anelava alla gloria,/ e su ogni facciata di grattacielo si udiva/lo scorrere della pietà che ansimava./ Non ho più le mani, né gli occhi,/ma solo un riflesso di luna rubato al Central Park”[10].
La Sibartite lo tenne stretto, non lo lasciò mai andare e lui, in tutto il mondo, rese celebre la sua Calabria e il suo dialetto. Quale meraviglia di musicalità  sono quei versi calabresi in   “Neve in sogno” un monumento di fedeltà, un desiderio di appartenenza, un urgenza di gridare al mondo che forse un paradiso ci potrebbe essere su questa terra, se solo gli uomini smettessero di essere bastardi. Ed ecco  nei ricordi di New York,  [11]mentre dolore e ribellione lo assalgono,   trova salvezza da una depressione malefica che  lo assale appollaiato su tralci d’uva , schiva disgustato   un materialismo volgare, la fame insaziata e insaziabile di ricchezze.  Il Poeta trova questa estrema orgia di possesso,  il volgare abbuffarsi di cibo più spregevoli della povertà. Quest’America umilia , è arrogante, rapace insaziabile dove  i poveri,: quelli americani, perché anche in America ci sono i poveri,  non hanno nulla da invidiare a quelli calabresi: ”Poi fare i conti con l’estensione del corpo,/cercare se nelle fibre le sensazioni restano/in strascichi limpidi o come zecche nascoste/Il deposito dei ricordi è situato/in una radura scomoda dell’ansa delle ossa/Forse niente resterà a guardia del senso/e la vita si risolverà nei passi nella voce/nel desiderio di stringere una mano. Ecco dunque il diario di bordo di un viaggio che il tempo macina ingordo/allucinato o stanco o nero di fuliggine.[12]
Il Poeta è terrorizzato di essere abbandona da quel Maestrale che l’ ha reso signore di se stesso, ha terrore di perdere “il mistero” che ha alimentato la sua poesia nei vicoli di Roseto, dove affascinato, fin da bambino succhiava la “Neve in sogno”. E nella  America l’ allucinogena luce al neon che lo rendono ombra e nuvola, pronta a scomparire, un cuore che batte in dolore  tra vite desolate. Il poeta si ritrae terrorizzato da questa società levigata per apparire, il cui unico profumo che conosce non è di viole e margherite, men che mai il profumo del mare e l’ardore del Maestrale, a New York l’unico profumo è quello dei dollari, sugli altare gli americani non mettono fiori, ma, maledetti dollari. Ritrarsi e conservare il mistero della vita è il suo unico grido, unico segno che gli rimane  è urlare il suo dolore, fuggire da New York.
Un fiume che viene cantando/nei dormitori delle periferie, ed è argento, cemento o brezza/nell’alba ingannevole di New York/Esistono le montagne. Lo so./E le lenti per la sapienza./Lo so. Ma io non sono venuto a vedere il cielo./Sono venuto a vedere il torbido sangue./Il sangue che porta le macchine alle cateratte/ e lo spirito alla lingua del cobra. Tutti i giorni ammazzano in New York  / quattro milioni di anitre, /cinque milioni di porci,/duemila colombe per il piacere degli agonizzanti… [13]
Di Carmen Moscariello


[1] Dante Maffìa, Neve in sogno, introduzione di Daniel Cundari, pg 28New York andata e ritorno,iiriti Editore,,gennaio 2013;.
[2] Federico Garcìa Lorca, Poesie, II volume ,traduzione di Carlo Bo, Nuova serie diretta da Giacinto Spagnoletti. Guanda
[3] Dante Maffia, Neve in sogno, Opera citata, pg28;
[4] L’uomo che parla ai libri , Centodieci domande a Dante Maffia, a cura di Marco Onofrio, Edilazio 2018;;
[5] Dante Maffìa, opera citata, pg.25(V);
[6] Il mulino è un luogo della sua Roseto Capo
[7] Dante Maffì a a Rosa, A Rosa, preludio a Neve in sogno
[8] Dante Maffìa, Poesie Torinesi, Edizioni Lepisma 2011, 51 componimenti
[9] Vincenzo D’Alessio, “Su Poesie Torinesii di Dante Magffìa”;
[10] Dante Maffìa, Neve in sogno, Ricordi di New York, IX (pag.68) e X (pg 69), iiritiEditore, gennaio 201;.
[11] Opera citata pagine 52-69, spartiti (I-X);
[12] Op. citata, pg 53
[13] Lorca, Poesie,  volume II, Guanda, New York, Officina y denuncia per Antonio Hernandez Soriano

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