domenica 29 maggio 2011

"La coincidenza degli opposti. Giordano Bruno tra Oriente e Occidente" - Guido Del Giudice, Di Renzo Editore, Roma 2005

Presentazione di Michele Ciliberto, professore ordinario di Storia della filosofia nella Facoltà di lettere dell’università di Pisa e presidente dell’Istituto nazionale di studi sul Rinascimento

1.Sui rapporti di Bruno con il pensiero orientale - nella sua accezione più larga - si è, in genere, poco insistito. Non che siano mancati studiosi, o grandi filosofi,che hanno sottolineato l’importanza di questa relazione: da Schopenahuer a Paul de Lagarde, uno dei più grandi editori di Giordano Bruno, ben noto per i suoi interessi di orientalista. Ma in genere il tema è stato trascurato; né è difficile intenderne i motivi. A lungo, uno degli obiettivi di fondo della storiografia bruniana è stato, precisamente, di inserire Bruno nella catena aurea della modernità, come ebbe a scrivere già nella seconda metà dell’Ottocento uno studioso del calibro di Felice Tocco: “Di esposizioni della Filosofia di Bruno non è penuria, e ve ne ha per tutti i gusti, osservava nella Introduzione al suo fondamentale lavoro su Le opere italiane di Giordano Bruno esposte e confrontate con le italiane. Chi ama un panteista precursore dello Spinoza e dell’Hegel legga l’opera del Bartholméss, che a suo tempo ebbe larga e meritata fama. Chi preferisce piuttosto un teista o semiteista si raccomandi piuttosto al Clemens a al Carriere. Chi infine cerca un filosofo monista e naturalista, un darwiniano prima del Darwin o forse anche dell’Haeckel, studi il Brunnhofer…”. Come si vede, i nomi che Tocco cita rientrano tutti, con diverse accentuazioni, nella “catena” della filosofia europea, di cui Bruno è considerato, per un verso o per l’altro, momento centrale. Una proiezione verso l’Oriente, in questo lungo elenco manca,ed è sintomatico,se si tiene conto dell’anno - il 1899 - in cui Tocco scrive.
Di lì a poco, il quadro muta, profondamente, anzitutto per merito degli studi sulla religione antica che contribuiscono a gettare nuova luce tra il pensiero europeo- occidentale e la tradizione orientale. E’ difficile sottolineare, da questo punto di vista, gli effetti avuti dagli studi di Usener e della sua scuola o dal grande libro di Reizenstein sul Pimander e la tradizione ermetica, riecheggiati perfino in un libro discutibilissimo ma non privo di un suo fascino come il Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler. Nella cultura europea del Novecento il problema del rapporto tra “Occidente” e “Oriente” diventa centrale,specie negli anni trenta quando la scoperta dell’Oriente diventa, addirittura, una sorta di topos letterario, destinato ad amplissima diffusione. Ma anche in questo periodo, è difficile trovare lavori che assumano storicamente il problema del rapporto della filosofia di Bruno con le manifestazioni più alte del pensiero orientale. Faceva ostacolo la tendenza a calare la filosofia del Nolano in un contesto strettamente europeo - occidentale, prescindendo da tutti gli elementi che potevano portare fuori da questo orizzonte. E’ solo negli anni più vicini a noi che il quadro comincia a cambiare,anche per effetto di un libro straordinario come quello di Frances A.Yates su Bruno e la tradizione ermetica.
E’ facile, oggi, vedere i limiti di quel lavoro, anche per la tendenza di alcuni epigoni ad irrigidirne le posizioni fino a renderle ridicole (di recente, in un curioso libello, si è addirittura risolta tutta la l’esperienza di Bruno nella magia nera).. Ma, nella storiografia bruniana, il testo della Yates rappresenta una tappa fondamentale sia per la messa a fuoco di caratteri specifici della filosofia di Bruno, prima ignorati o poco noti o malnoti, sia per la capacità di aprire nuove piste di ricerca che sulla scia della interpretazione in chiave ermetica possono gettare nuova luce su Bruno, scoprendone aspetti insospettati, o insospettabili sintonie con aspetti importanti della esperienza filosofica e religiosa, sia occidentale che orientale. Da questo punto di vista si può dire che il libro della Yates , con tutti i suoi limiti, rappresenta uno spartiacque nella storia della fortuna di Giordano Bruno.

2.E’ da questo ampliamento degli orizzonti critici che nasce questo interessante lavoro di Guido del Giudice, già autore di un altro singolare contributo sulla figura del Nolano, oltre che redattore del più importante sito bruniano oggi esistente sia in Italia che fuori.
Del Giudice - vale la pena di osservarlo - non è uno storico della filosofia di professione; anzi svolge un lavoro che con la ricerca storica non ha niente a che fare. Ma è precisamente questo che rende la sua personalità interessante e il suo lavoro degno di particolare attenzione. Intendiamoci: non è di per sé una novità il fatto che Bruno susciti attenzione, e passione, al di fuori degli specialisti della storia del pensiero. Anzi,è un tratto tipico della sua fortuna lungo tutti i secoli moderni, accentuatosi, specie in Italia, a cominciare dalla seconda metà dell’Ottocento. Oltre ad essere un grande filosofo, Bruno è stato un mito costitutivo della coscienza “civile” moderna e, specialmente, italiana. La leggenda, così diffusa nel nostro paese specie per impulso della massoneria, di Bruno “martire” del libero pensiero - che del Giudice giustamente critica - ha questa radice, e su questo piano è degna di attenzione, specie se si tiene conto della particolarità dei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia, nei decenni immediatamente successivi al Risorgimento, quando si apre quella che è stata chiamata la “questione morale”. Da tutto questo del Giudice è lontanissimo, naturalmente. Ciò non toglie che nella storia del pensiero solo Bruno è stato capace di suscitare entusiasmi come quelli che animano le pagine di questo libro, intrise di una passione che fa di del Giudice, più che un “brunista”, un bruniano, un “giordanista” - per riprendere un epiteto che circola negli atti del processo ad opera anzitutto di Francesco Graziano. Ciò che però colpisce in questo lavoro è la capacità che del Giudice ha ormai acquisito di controllare questa passione proponendo ipotesi critiche interessanti e meritevoli di discussione. Come appare fin dalle prime pagine, obiettivo del lavoro - sulla scia di alcune indicazioni di Lorenzo Giusso - è quello di mostrare le assonanze di Bruno con momenti, e forme, salienti del pensiero orientale, nei suoi rappresentanti più alti. Naturalmente, a un approccio di questo tipo possono essere fatte, in sede storica, tutte le critiche che si vuole, scadendo anche nella pedanteria. Ma non è ovviamente su questo terreno che la proposta di del Giudice va analizzata. Sarebbe troppo facile dire che sullo scrittoio di Bruno non c’erano né testi buddistici né scritti di Lao tse. Resta il fatto che queste assonanze ci sono, e non solo sul punto della metasomatosi, che è il più ovvio. Esistono sintonie più profonde che riguardano anzitutto il concetto del divino e quel caposaldo teorico che è il concetto bruniano di materia. Sono sintonie e assonanze che pongono complessi problemi di ordine teorico, con i quali si sono misurati pensatori come Cassirer e Aby Warburg che, come è noto, amava Bruno. Pongono anzitutto il problema di quelle che si potrebbero definire strutture “trascendentali” del pensiero umano, dalle quali sgorgano sintonie e assonanze di ordine filosofico o religioso che prescindono dalle “fonti” tradizionalmente considerate, ma non sono per questo meno importanti e significative. Nel suo lavoro Guido del Giudice ha precisamente questo doppio merito:

1.aprire gli studi bruniani verso prospettive non ancora e non sempre considerate in modo adeguato;

2. sollecitare il lettore a confrontarsi con delicati problemi teorici, che riguardano la struttura complessiva - universale, si potrebbe dire - del pensiero umano.

Che sia Bruno a consentirci di riaprire questo ordine di questione non è davvero casuale; è solo una verifica, se si vuole, della ampiezza e della complessità dei problemi che egli pone, attrezzando una vera e propria enciclopedia del sapere universale. Bisogna essere grati a del Giudice - alla sua passione di bruniano impenitente - per avere richiamato la nostra attenzione su questi temi.





Recensione del prof. Aniello Montano, ordinario di Storia della filosofia nella Facoltà di lettere dell‟università di Salerno, pubblicata sulla rivista “Bruniana & Campanelliana”

La chiara e puntuale Presentazione di Michele Ciliberto, nel mentre inquadra l‟ordine dei problemi in cui si situa il libro di Del Giudice, svolge una doppia funzione. Da una parte fa cenno alla linea interpretativa, da Schopenhauer a Giusso, lungo la quale si muove il saggio; dall‟altra ripropone il tema, che fu già di Cassirer e di Aby Warburg, di possibili strutture “trascendentali” del pensiero umano, che, indipendentemente dai tempi e dai luoghi, consentirebbero agli uomini di approntare modelli e archetipi di interpretazione della realtà simili, se non propri identici. In questa ottica, agli occhi di Ciliberto, si giustifica la ricerca di eventuali corrispondenze di aspetti del pensiero di Giordano Bruno con alcune dottrine di sapienti e iniziati delle più antiche culture cinese e indiana.
Il merito del lavoro di Guido Del Giudice sta proprio nell‟instaurare un confronto attento e misurato tra nuclei di queste dottrine orientali e plessi concettuali fondamentali della filosofia di Bruno. Servendosi dell‟orientamento storiografico di Lorenzo Giusso e, forse anche, di Anacleto Verrecchia, Del Giudice muove alla ricognizione di “assonanze” e “sintonie” nella piena consapevolezza di dover andare “oltre i limiti di una ricerca strettamente filologica, sfruttando la componente intuitiva della speculazione bruniana”. Lungo questa linea ermeneutica, Bruno viene immediatamente avvertito e considerato come “profeta” e come “uno dei più ispirati ingegni della storia umana”. E, nel Prologo, viene avvicinato alla figura del Cristo, il cui calvario può essere paragonato al cammino del Nolano verso la morte.
Per Del Giudice, Bruno, non avendo a disposizione “strumenti per esprimere e dare una struttura dimostrativa” alle sue idee, ricorre alla “magia naturale” di Ficino, Pico e Cornelio Agrippa, cui “deve la conoscenza dei poteri della mente, che consentono di legare la volontà degli uomini e di trasportarsi lontano con lo spirito”. Ed “è costretto a ricorrere, per l‟esposizione e l‟argomentazione delle sue illuminate intuizioni” a saperi quali “astrologia, ermetismo, alchimia, teoria dei vincoli, magnetismo”. Di qui, il suo “entusiasmo”, “irrefrenabile fino all‟ingenuità e all‟esagerazione”, “appena si imbatte nei primi risultati „scientifici‟, o che a lui sembrano tali”, offerti da Copernico, Tycho Brahe, Mordente. È proprio l‟eliocentrismo di Copernico – annota Del Giudice - a consentire a Bruno di elaborare “tutta una serie di concezioni: dall‟infinito effetto dell‟infinita causa al concetto di vita-materia infinita, dalla coincidenza degli opposti alla metempsicosi”. E a ricavare conseguentemente dall‟infinitismo e dalla perdita di centralità dell‟uomo nell‟universo “la sua etica, la sua epistemologia, la sua critica del linguaggio, il suo antiaristotelismo”.
Del Giudice è certo dello sviluppo parallelo di pensieri analoghi, nel corso del VI secolo a.C., in oriente ad opera di Buddha, Confucio e Lao Tzu e in Grecia ad opera di Parmenide, Pitagora ed Eraclito. Ed è convinto che i comuni “concetti fondamentali di queste filosofie, filtrati attraverso la dottrina di Ermete Trismegisto, trovarono a distanza di più di duemila anni un catalizzatore nel filosofo di Nola”. E si dice colpito dalla “ricorrenza nel pensiero di Giordano Bruno, senza che vi sia l‟evidenza di una conoscenza diretta, di motivi propri delle religioni orientali”. E, per lui, “questa è l‟ennesima dimostrazione della potente capacità visionaria e intuitiva del Nolano, comune a tutti i grandi iniziati”. Queste consonanze “del suo [di Bruno] pensiero con quello orientale, indiano e cinese – annota Del Giudice - si possono spiegare, a parte gli influssi che gli giunsero dalle opere degli autori greci, solamente con un‟affinità e una ciclicità sapienziale, sostenute da una comune visione vicissitudinale del mondo”.
Sulla base di queste convinzioni di fondo, Del Giudice procede nei sette capitoli del libro a evidenziare le concordanze, le affinità e le assonanze che, a suo avviso, legano le dottrine bruniane “alle correnti del pensiero orientale più intuitive e mistiche, anziché più razionali” perché – egli ritiene – “nascono dall‟atteggiamento, molto simile, di ferma convinzione che l‟intelletto umano non può mai comprendere il Principio, il Tao, mai contemplare direttamente la verità, bensì la sua ombra”. Il punto centrale da cui si irradiano e a cui si riportano i tanti aspetti di questa convergenza dottrinale da Del Giudice, infatti, è indicato nella convinzione secondo la quale “comune è la concezione per cui, al di là delle divinità multiformi, uno è il Principio, comune è il concetto di ascenso e descenso per cui dalla molteplicità dei contrari si giunge all‟Uno e viceversa, comune è la visione panteistica e la conseguente fede nella metempsicosi”.
La ricognizione delle consonanze procede in maniera minuta e attenta in tutte le pagine del libro ed è realizzata sempre a partire dal punto di vista degli “iniziati ai misteri ermetici”, che però non è lo stesso di quello indicato dalla Yates, fuorviante e inducente - a dire di Del Giudice – “ad accreditare una figura di mago ermetico, di stregone, quasi di ciarlatano”, ma sembra essere il punto di vista di quell‟ermetismo alchemico, che tra Ottocento e Novecento ha il suo massimo rappresentante in Giuliano Kremmerz. E Del Giudice, da “iniziato ermetico” si sente più vicino alla saggezza orientale, assolutamente monistica, e perciò più di una volta evidenzia in Bruno un qualche “retaggio della sua formazione cattolica, che egli non riesce a scrollarsi di dosso”, come ad esempio “l‟angosciante sensazione di sostanziale alterità” del Dio “causa” infinita rispetto all‟universo “effetto” infinito e il mancato possesso della “stessa imperturbabile serenità” dei saggi orientali. Laddove il buddista trova che “il nirvana è pace, cessazione del desiderio”, Bruno trova che il “furioso” è soggetto al “disquarto”: “non c‟è invece quiete, non esiste paradiso per il furioso […].
L‟impossibilità di concepire la vera divinità gli preclude un‟eterna sopravvivenza in un mondo superiore, lo esclude dalla possibilità di rinascere in un al di là concepito come soggiorno immortale, e lo obbliga quindi al ritorno nel dominio dell‟apparenza e alla reincarnazione nel ciclo degli esseri finiti”. Come ogni buon libro “ermetico”, anche questo di Del Giudice fa uso della figura dell‟uroboros, del serpente che si morde la coda, ad indicare la circolarità di ogni evento. Il libro, infatti, aperto con un Prologo in cui si evidenzia il parallelismo tra la figura e la vicenda del Cristo e quelle di Bruno, si chiude con un Epilogo in cui si ritorna su quel parallelismo, nell‟occasione allargato per comprendere la figura e la vicenda
di un maestro zen, che - contrariamente a Cristo e a Bruno – è lasciato in vita da chi lo minacciava.

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