Mancava, nella già ricca bibliografia, un capitolo d’apertura dedicato agli esordi: necessariamente indagati sul piano biografico (origini, formazione, ventura dell’uomo) non meno che su quello artistico, con l’intento di cogliere l’avvio e i successivi affioramenti della consapevolezza che orienterà il giovane Antonio Sicurezza verso consone scelte operative.
A tale ricognizione di fondo ha provveduto Gerardo De Meo, pittore e scultore di lungo corso da sempre nella sua terra di Maranola, conoscitore senza eguali dei piccoli e grandi segreti che fanno del borgo uno scrigno urbano ancora integro, noto nel nome e nell’immagine in Italia e fuori. Il suo volume Maranola nella pittura di Antonio Sicurezza risponde a una duplice istanza o, se si preferisce, a una convergente passione che coniuga su una tenuta etica (il dovere della fedeltà) l’imperativo di restituire al merito la cifra della pienezza.L’invito a cominciare, la chiamata al coinvolgimento, era difatti venuta da un erede di Sicurezza, l’ammiraglio Eugenio che spende giornate viaggi e pazienze in una dedizione intensa ad annettere riscoperte, ricuciture, riproposte che nell’insieme d’una mappa ormai acquisita ridisegnino i percorsi e le stagioni del pittore e di lui, della sua opera, suggeriscano una collocazione di scomparto, di appartenenza, che pure bisognerà dare nell’accidentato panorama di correnti tendenze e mode che caratterizza il nostro secondo Novecento.
E qui giova richiamare non a premessa bensì a regesto di schedatura e scrittura critica l’esame e la prima messa a punto dell’intera vicenda pittorica del maestro cui si è ultimamente venuta piegando la nipote Anna Luce Sicurezza, specialista immersa per professione in attraversamenti di scavo. Ma siamo, mi si passi l’aggettivo, ancora in ambito domestico, ereditario. Era opportuno integrare gli interventi affidando le incursioni ad altri scandagli.
De Meo muove da una traccia biografica, rileva l’arrivo a Maranola del ventinovenne pittore diplomatosi all’Accademia napoletana nel ’31: fervido di umori, carico di una sua voglia di fare, aperto alle simpatie, affascinato dall’azzurro che inondava la cerchia dei colli affacciati sul golfo.
Passando i mesi matura in lui il primo innamoramento, odori e colori d’una esuberante primavera gli entrano nel cuore a incorniciare il sorriso d’un volto che vi si è insinuato a restare, a possederlo, a orientarlo nella sua traversata.
A Maranola ha trovato la sua sposa, il paese che subito sente suo, le architetture che lo attraggono e ne fecondano la vena. Lassù deve dipingere la Vergine che riceve dall’angelo Gabriele l’annuncio della maternità divina. Sarà la sua Annunciazione, realizzata a fresco in una spaziata lunetta a sesto acuto l’anno 1935: lavoro non fortunato, che finirà abraso da venti e danneggiato dalla guerra, e sarà infine sostituito da replica in mosaico su suo cartone uscita nel 1965 da un’officina veneta. Della vicenda compositiva, e di ciò che seguì negli anni, De Meo descrive l’evolvere, indica i passaggi, scandisce i momenti, annota improvvide decisioni. Quindi passa a dar conto del ciclo antoniano che negli anni ’39 e ’40 tenne impegnato Sicurezza in un’impresa rimasta unica nella sua carriera, la decorazione parte a olio e parte a tempera della cappella del Santo nella medesima chiesa dell’Annunziata: organicamente scompartita sulle pareti e nella volta a spicchi, nitida nelle figure, affollata d’angeli, fresca nella cromia. Il passaggio della guerra poi ferì e danneggiò la cappella. L’opera bisognosa di restauro fu tenuta com’era rimasta, e si può immaginare se con rammarico dell’autore, fino a quando, dopo il ’50, non rimase del tutto obliterata sotto una diversa facies firmata Mario Barberis. Si avvicendano i parroci, mutano i gusti, si sovrappongono e contraddicono i segni dell’arte nei luoghi di culto. De Meo li va a rivisitare, questi segni, ovunque il pittore li abbia lasciati su per le colline. E di uno in particolare si ferma a ricostruire la storia, questa volta non traumatica, semmai emblematica per il punto di svolta che attesta nel divenire dell’artista. Si tratta della Madonna della Palomba, pala d’altare tuttora indenne nella sua campitura figurale, olio su legno, datata 1938, visibile nell’omonima chiesetta in una convalle di Castellonorato. E’ l’icona rituale che corona il soggiorno maranolese.
A non considerare la prova fornita a ventisei anni nella nativa Santa Maria di Capua Vetere, angeli e suonatori d’arpa variamente atteggiati e collocati nella cappella dell’Immacolata in Duomo, si può affermare – e non ad altro punta l’intelligenza esegetica di De Meo – che Sicurezza nasce e cresce alla pittura prendendo coscienza di sé appunto nel fluire della fecondità operativa che connota il suo trapianto anagrafico presto divenuto elettivo e definitivo, e dunque tutto da inscrivere nell’orizzonte religioso e umano che gli si schiudeva tra vicoli e orti, tra torri e uliveti delle balze solari.
Terminato il giro del censimento iconico, lo sguardo esplora da vicino e in profondo quali e quanti inneschi lo spazio del sacro, pareti e volte, susciti nell’intuizione tematica del pittore. La prensilità maggiore è nella Chiesa di Santa Maria dei Martiri, disadorna, chiusa al culto, odorosa di fede e di mistero. Sicurezza ne dipinge e ridipinge l’interno silenzioso, santificato dal crocifisso ligneo che pende nudo da un arco a staccare una fuga prospettica verso una porticina di sacrestia. La suggestione d’ambiente si decanta, si schiarisce in preghiera non mormorata.
E poi fuori ci sono edicole e spalti, memorie spirituali che germogliano in altrettanti spunti inventivi. E sui sagrati compaiono nel loro giorno liturgico gli zampognari, scendono pastori, brulica nei giorni di festa la vita chiassosa di voci e saluti, bella nei costumi, forte e risentita quanto autentica nella coralità devota. Di tutto De Meo prende nota, discorre, valuta il peso e la misura del dipanarsi di un esercizio teso a pervenire ai registri, ai valori tonali che già allora dichiaravano l’identità di un pittore.
Alle pagine di questo libro è consegnato l’esito sapiente di un servigio reso alla critica testuale dell’arte quale solo un artista poteva rendere.
Pasquale Maffeo
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