sabato 4 agosto 2012

Saggi critici "Amelia Rosselli"

di Carmen Moscariello

Carlo Rosselli, Rocco Scotellaro, il poeta pittore Scipione, Pier Paolo Pasolini, Niccolò Gallo, sono nomi che entrano a far parte di diritto nella vita di Amelia Rosselli.

“Vivente leggenda di incarnazione della poesia come incontenibile e imprevedibile forza oracolare”, ebbe il padre, Carlo Rosselli, assassinato dai fascisti (1936).
Nata nel 1930 a Parigi dove la sua famiglia si era rifugiata per sfuggire alle persecuzioni politiche del fascismo, dovette, ben presto lasciare questa città per raggiungere prima l’Inghilterra e poi l’America (1940), qui, per sopravvivere svolse i lavori più umili.
Ha trascorso, poi lunghi periodi in Francia e in Inghilterra, ora risiede a Roma e insieme ad Attilio Bertolucci rappresenta una delle voci più interessanti della poesia italiana.
Un altro fatto importante della sua biografia è l’amicizia con Rocco Scotellaro (1923-1953), lo conobbe a Venezia nel 1950, durante il primo congresso partigiano.
L’incontro è ricordato in “Diario ottuso”, pubblicato dalla rivista “Braci”. La poetessa lo racconta ancora in un’intervista rilasciata qualche anno fa a Giancarlo Spagnoletti. Ella dice “quando conobbi Rocco avevo venti anni e lui morì tre anni dopo. La nostra fu un’amicizia intensa, molto ricca e naturale, priva di forzature.
Mi invitò al suo paese in Lucania (Tricarico) dove stetti una settimana sua ospite, e conobbi sua madre”.
A Pasolini deve la presentazione della sua poesia al grande pubblico (Menabò, 6, ospitò i suoi primi versi) e un’attenta analisi soprattutto della scrittura poetica e della sottolineatura del “Lapsus” (termine coniato da Pasolini) in riferimento all’uso speciale che la Rosselli fa della parola poetica e del singolare ruolo delle consonanti e vocali. Pasolini disse che il “Lapsus” ora finto, ora vero rappresentava una profonda liberazione.
Per la stessa poetessa la sua particolarissima grammatica poetica consiste “nelle varie possibili formulazioni metriche, mai abbastanza rigorose da potersi considerare come sistemi filosofico scientifici e storicamente necessari, inevitabili”. In merito a quest’ultimo punto, ricordiamo che Ella è musicista, e ciò ha influito molto sull’uso di una tecnica che seppur studiata nei particolari s’insedia di prepotenza in tutta la sua opera con vitalità, con un vigore, a volte con violenza, dando forma ad una poesia assolutamente vera e ispirata in ogni sua sillaba. Nulla di artificioso, dunque, ma un sacro fuoco che brucia e distrugge e quasi mai cerca gioia, assumendo ogni volta forme sorprendenti e assurde. I particolari usi sintattici, le sgrammaticature, il lapsus, il verso chiuso, la forma cupa sono dalla stessa poetessa spiegati nell’opera “Spazi metrici” (1962). Noi, aggiungiamo che all’uso estroso è incorporato un derèglement, una consapevole follia, una nevrosi studiata e catalogata, ma tutta ancora da scavare e scoprire.
Influì anche sulla sua formazione poetica e sullo studio delle strutture grammaticali l’essere pianista e violinista, il parlare correttamente il francese, l’italiano e l’inglese (la madre, Maria Cave era inglese).
Ella stessa dice: “Documento” (opera pubblicata nel 1976) ha significato per me ritrovare – pur basandomi sulla formulazione metrica definita nel 1958 – il coraggio e forse anche il misticismo di quegli anni adolescenziali: razionalizzandoli fino alle ultime conseguenze. Spesso i risultati sono violenti, i contenuti sono dei veri e propri gridi; ma credo che non vi sia più disperazione, e che lo scopo del libro (un equilibrio tra forma del tutto controllata e voluta, e contenuto indotto o dedotto mai automaticamente e tramite l’inconscio, o per provocazioni soltanto letterarie) sia nell’insieme raggiunto”.
Una poetica, dunque incomparabile in cui si possono leggere le voci di Rimbaud, Mallarmé, Kafka, Pound, Montale.
La sua freschezza nel dire le cose è tuttora viva e inattaccabile degli anni e della malattia. L’abbiamo costatato noi stessi in un recente incontro che esse ha avuto con gli alunni del magistrale “Cicerone” di Formia: la donna e la poetessa convivono nel senso profondo e misterioso di chi sente la vita fino al punto da lasciarsene annientare.
L’ironia, l’inconscio, la verità, la provocazione, la visionarietà e il fluire di un verso tanto studiato creano una poesia senza argini, travolgente e giovane, violenta e amara.
L’antologia poetica stampata dalla Garzanti con la pregevole introduzione di Giovanni Giudici e con l’intervista rilasciata dalla poetessa a Spagnoletti, è testimone di tutto questo perché contiene poesie tratte dalle sue opere migliori: “Variazioni belliche” (1964), “Serie Ospedaliera” (1969), “Documento”, “Primi Scritti” (1980), “Appunti sparsi e persi” e il poemetto “Impromptu” (1981).
Ricordiamo a parte due dei suoi più belli e famosi componimenti, “La Libellula” (1959) e “Impromptu” rappresentano il punto di inizio e il punto d’arrivo della sua poetica.


Nell’ampio verso e nei ritmi dell’endecasillabo o dodecasillabo si muove il visionarismo e nello stesso tempo profetico senso della vita di Amelia Rosselli.
Un contorcersi di suoni e gridi che tendono a purificare l’animo.
“La Libellula” assetata di luce-amore, va alla ricerca, prima inconscia, poi affinata da un’analisi critica sempre più studiata e precisa, del ritrovamento e della volontà di rimettere insieme gli innumerevoli frammenti per superare la violenza che ha segnato la sua vita.
Si inerpica, il verso in corridoi bui, in voragini senza luce, nel derèglement amaro e ironico di una ricerca scarnificata nei nervi del suo essere.
Schiodare il verso, volgerlo ad una luce libera, che è anamnesi dell’assurdo o parto doloroso di una nuova parola, di un nuovo vocabolo che oltre al suono ha in sé la “sapientia vitae”.
Le è possibile fermare il labile suono, in “lapsus”: scrostano con unghie forti il male e il falso.
Cosmopolita sofferenza, torchiata dall’ironia perché nell’esplodere potrebbe distruggere, annientare per sempre.
Amelia, soprattutto nelle opere giovanili, si muove nel verso della passionalità di un romantico, con un furor amoris inappagabile e nutrito di troppi silenzi, da una lunga solitudine, per raggiungere poi un’analisi sociale che va ben oltre il proprio Io.
Diaspora tra divino, reale, o come alcuni dicono surreale, presenta il suo inconscio senza veli, analisi mozzafiato, con i suoi logorroici interrogativi, per aprirti all’improvviso la porta ad una nuova amara verità.
Provocatoria ancor più del suo amico Pasolini, fragile e coraggiosa, con nelle vene il sangue di Carlo Rosselli ha segnato non poco i crismi della poetica contemporanea. Ironica e insofferente anche delle Avanguardie, ha creato il nuovo più assoluto, senza nulla togliere all’ispirazione. Il “primitivo” sgrammaticato, turbolento verso insiste su una verifica puntuale sublimata spesso da lunghi silenzi.

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