Un’esperienza,
quella della poesia, completamente nuova per Ludovica Ripa Di Meana fino adesso
giornalista apprezzata dall’Europeo e aiuto-regista di cinema e teatro. Bello
anche il suo libro di intervista a Gianfranco Contini: Diligenza e voluttà
(Mondadori 1989), libro che lo stesso Contini ha definito “la prima
autobiografia”.
Nella sua
recentissima pubblicazione La sorella dell’Ave, forse un romanzo in
versi, ma che comunque non ha niente a che vedere con chi, come Bertolucci e
Puskin, l’hanno preceduta, ci troviamo di fronte ad un antipoema intriso di
magma irrazionale, per certi aspetti irritante, nell’ossessiva ricerca di chi
è sempre fuggito.
“Una
donna perde le tracce di un’altra donna. L’ama: è sua sorella. Bambine
dormivano nella stessa stanza”. Tutto questo è espresso in una cascata di
versi stralunati e vitali, tersi e confusi in una prosa inimitabile, dove il
fallito, rincorso congiungimento è il tema dominante dell’opera.
L’ossessionante
passione, la curiosità di conoscerla finalmente, riempiono pagine di un crudo
realismo e nel contempo di delicato liberismo. La sorella dell’Ave,
identificata in chi dormiva sotto l’immagine della Vergine, è un personaggio
irrequieto e sfuggevole, eppure carico di fascino e di mistero, imprevedibile
appunto. Viene qui raccontata con un furore giovanile accompagnato da un’ansia
tormentosa, da un fuoco di sentimento e di odio determinato dall’impossibilità
di possederla.
Scandito
il libro in ventisei capitoli, è una mareggiata irriverente che lascia sulla
spiaggia i resti di una tempesta: spulciata nei particolari la storia è un
furore di cicli. Il ricordo palpita vivo, ancora di una scoperta non fatta, anzi
di chi ha tutto da scoprire. I ritmi “mercuriali” scarnificano la violenza e
passione carnale di innamorato. La voglia di scoprire l’altro risulta nel
racconto-poesia, alla fin fine un traguardo rimandato, non c’è fine a questa
furia, i ritmi forti sono congelanti per l’animo perché portano forse a una
risposta: non aver mai conosciuto nella sua autenticità la Sorella dell’Ave.
Apparentemente
strumentali le altre storie che s’intrecciano, anch’esse lasciano il segno:
il rosso dell’amore, l’assurdo della malattia, il vuoto dell’abbandono.
Il futile
scricchiolante è tracciato in toni accesi, mai in chiaroscuro. Nemmeno per
l’urlo dolorante l’autrice usa il nero. Il tutto compreso nella spietata
analisi (“nonni famosi e ricchi, una madre travolgente, detestata e adorata: i
rituali di una famiglia di una grande borghesia nella Roma degli anni trenta”)
che non perde di vista il delicato fiore sempre nuovo: pur sfiorando la follia,
il racconto rimane delicato sogno, una purezza senza storia, l’opera è dunque
disperata contemplazione di un amore dove la vita dell’una è congiunta a
quella dell’altra, apparentemente agguantata, per perdersi di nuovo in una
teca di silenzio, senza addii.
Nessun commento:
Posta un commento