sabato 4 agosto 2012

Saggi critici "Ludovica Ripa di Meana"



di Carmen Moscariello

Un’esperienza, quella della poesia, completamente nuova per Ludovica Ripa Di Meana fino adesso giornalista apprezzata dall’Europeo e aiuto-regista di cinema e teatro. Bello anche il suo libro di intervista a Gianfranco Contini: Diligenza e voluttà (Mondadori 1989), libro che lo stesso Contini ha definito “la prima autobiografia”.

Nella sua recentissima pubblicazione La sorella dell’Ave, forse un romanzo in versi, ma che comunque non ha niente a che vedere con chi, come Bertolucci e Puskin, l’hanno preceduta, ci troviamo di fronte ad un antipoema intriso di magma irrazionale, per certi aspetti irritante, nell’ossessiva ricerca di chi è sempre fuggito.
“Una donna perde le tracce di un’altra donna. L’ama: è sua sorella. Bambine dormivano nella stessa stanza”. Tutto questo è espresso in una cascata di versi stralunati e vitali, tersi e confusi in una prosa inimitabile, dove il fallito, rincorso congiungimento è il tema dominante dell’opera.
L’ossessionante passione, la curiosità di conoscerla finalmente, riempiono pagine di un crudo realismo e nel contempo di delicato liberismo. La sorella dell’Ave, identificata in chi dormiva sotto l’immagine della Vergine, è un personaggio irrequieto e sfuggevole, eppure carico di fascino e di mistero, imprevedibile appunto. Viene qui raccontata con un furore giovanile accompagnato da un’ansia tormentosa, da un fuoco di sentimento e di odio determinato dall’impossibilità di possederla.
Scandito il libro in ventisei capitoli, è una mareggiata irriverente che lascia sulla spiaggia i resti di una tempesta: spulciata nei particolari la storia è un furore di cicli. Il ricordo palpita vivo, ancora di una scoperta non fatta, anzi di chi ha tutto da scoprire. I ritmi “mercuriali” scarnificano la violenza e passione carnale di innamorato. La voglia di scoprire l’altro risulta nel racconto-poesia, alla fin fine un traguardo rimandato, non c’è fine a questa furia, i ritmi forti sono congelanti per l’animo perché portano forse a una risposta: non aver mai conosciuto nella sua autenticità la Sorella dell’Ave.
Apparentemente strumentali le altre storie che s’intrecciano, anch’esse lasciano il segno: il rosso dell’amore, l’assurdo della malattia, il vuoto dell’abbandono.
Il futile scricchiolante è tracciato in toni accesi, mai in chiaroscuro. Nemmeno per l’urlo dolorante l’autrice usa il nero. Il tutto compreso nella spietata analisi (“nonni famosi e ricchi, una madre travolgente, detestata e adorata: i rituali di una famiglia di una grande borghesia nella Roma degli anni trenta”) che non perde di vista il delicato fiore sempre nuovo: pur sfiorando la follia, il racconto rimane delicato sogno, una purezza senza storia, l’opera è dunque disperata contemplazione di un amore dove la vita dell’una è congiunta a quella dell’altra, apparentemente agguantata, per perdersi di nuovo in una teca di silenzio, senza addii.

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