“Per
cinque anni ho abitato con Marianna Ucria”, così, Dacia Maraini esordisce
nell’introduzione alla raccolta di poesie “Viaggiando con passo di volpe”
(poesie 1983-91). Ora però, sottolinea l’autrice, Marianna Ucria se n’è
andata, incastonata nel passato, si è lasciata alle spalle. Una scia di
nostalgia.
I versi
della raccolta affondano le radici proprio in queste lontananze temporali e in
spazi indecifrabili per consegnarci un involucro di vita misterioso e
apocalittico.
Piano
piano in un andamento leggero e nel contempo sinergico si snodano strade,
luoghi, ricordi e soprattutto viaggi che vanno ben oltre l’esistenza della
poetessa.
L’inquietudine
malinconica del viaggio si concretizza nei versi in desiderio di partire e
nell’ansia di ritornare. Una voglia atavica dove i geni familiari (il padre
Fosco Maraini fu viaggiatore appassionato e autore di opere quali: Segreto Tibet
(1950), Ore giapponesi (1957) ecc., e non meno avventurosa fu la nonna Joy
Crosse Pawlosk) giocano un ruolo determinante.
Pensiamo
che il “demone del vagabondaggio” che pervade tutta la raccolta, sia anche
dovuto a un bisogno struggente di autenticità e a un divenire mutevole, ricco
di merlettature: Dacia sa essere dolce con un “exenia” e amara più del
fiele, razionale e irrazionale.
Nel
contempo le poesie vibrano di una coerenza corposa e di una forza sapienziale
– biblica capace di dominare il diluvio dei sentimenti e la desolazione degli
abbandoni: bisognerà pur uscire sott’acqua/ bagnarsi fino alle ossa/ per
riannodare quei fili di seta/ che non portano più a nessun dove/ bisognerà
pure affrontare la notte/ con i suoi guanti felpati/ e chiedere ai piedi/ di
andare dove non vogliono/ per dare un saluto alle proprie bassezze/
Ma nei
suoi versi danza anche una femminilità gustosa, sensuale e sorprendente. Cesare
Garboti, nella pregevole prefazione del libro, dice che le poesie della Maraini
“descrivono una storia di donna fuori dallo standard femminile, con piste e
tracce ritornanti: un istinto di vita intimo e predace (con passo di Volpe)”.
E’ da
questo istinto di vita che scaturiscono toni improvvisamente cangianti: a volte
le parole suonano come lame impietose, scorticano i ricordi, disseppeliscono i
morti, bruciano desideri e trasformano “le notti al gelsomino dolce” in un
dolore “appollaiato tra le costole”. Il dramma non è mai attuito, anzi è
masticato e conservato come l’amore.
Presente
è anche la solitudine che si confonde con l’ansia del sogno e si traduce in
preghiera, ora nel ghigno di chi ha perso qualcosa di prezioso. Dacia, dunque,
con questa sua opera poetica ci coinvolge in un mondo “succoso” di vita che
sempre più vola verso lo straordinario.
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